martedì 23 dicembre 2008

Cosa sta succedendo in Cina?


L’anno scorso ho partecipato a una missione di piccoli imprenditori italiani in Cina. Al mio ritorno, ho buttato giu’ due righe che credo possano essere interessanti nel contesto di questo blog.
Per la prima volta, infatti, mi e’ sembrato di toccare con mano il significato di alcune parole d'ordine che riempiono quotidiani e manuali: globalizzazione, accelerazione, ricerca, talenti, multinazionali, smaterializzazione dell’economia.

Con gli imprenditori, mi sono garantito un canale di accesso privilegiato alla realta’, per apprezzarne le contraddizioni al di la’ di quelle che possono essere le teorie di chi la studia.
Vi propongo alcuni osservazioni che, per la mia limitata conoscenza, incarnano i trend a cui accennavo:

- La “città” di Tianjin (porto di Pechino, 11 milioni di abitanti) ha tassi di crescita del PIL del 40% annuo
- I grattacieli che crescono come funghi rimangono per una parte consistente vuoti perché si fanno parte del portafoglio di investimenti degli intermediari finanziari di Londra o New York piuttosto che effettivo spazio da utilizzare
- La Cina esporta le pelle di mucca in Sud America, il Sud America produce le scarpe, le scarpe vengono vendute in Italia
- Tanti paesi iniziano a corteggiare la Cina per partnership su attività di Ricerca e Sviluppo; attraverso i manager delle multinazionali insediate la Cina risponde “solo quello che ancora non ha fatto nessuno”
- Un businessman in viaggio per l’Iran mi spiega che se prima vendeva componentistica per elettrodomestici ora si è riconvertito all’intermediazione sul mercato dell’acciaio
- Ching Wong, 32 anni, chimico con un dottorato PhD e un’azienda informatica, viene richiamato dalla California dai dirigenti del partito, per progettare da zero una città del futuro da 200.000 abitanti
- Da Pudong al Shanghai Intl Airport viaggio a 434 km/h su un treno a lievitazione magnetica; peccato che il tragitto sia di soli 34 km, 7 minuti di cui 5 in frenata
- Le multinazionali vengono qui per pagare il lavoro 1 anziché 10; noi qui contrattiamo per un maglione in cashmere un prezzo di 0,8 anziché 1 quando da noi costerebbe 10 (distorsione del valore?)
- Sulla scintillante strip di Shanghai intravedo un vicolo completamente buio che vi confluisce perpendicolarmente, all’altezza del negozio Rolex. Lo imbocco. Sento che sto camminando sulla spazzatura, l’odore è fortissimo, intravedo persone che dormono in un magazzino.

Di ritorno, sull’aereo per Francoforte, apro la cartina del mondo appena comprata: al centro l’Oceano Pacifico, sul lato sinistro la Cina, su quello destro gli Stati Uniti, grandi più o meno uguali. Trovo ironico pensare a quanto l’America abbia contribuito a far crescere quello che sarebbe diventato il suo principale concorrente: formando gli ingegneri nelle sue università, esportando le tecnologie attraverso le multinazionali, creando una dipendenza finanziaria facendosi finanziare il debito pubblico. Questo la dice lunga rispetto al fatto che in fin dei conti
chi governa il mondo non sia l’America, quanto piuttosto un apolide capitalismo globale?

Allo stesso tempo e’ difficile accettare lo scempio dell’ambiente che si stia facendo in Cina (e altrove nel mondo cosiddetto in via di sviluppo), nonche’ le consequenze devastanti sul surriscaldamento globale. Non potrebbe essere altrimenti visto che i PIL, cosi’ come le popolazioni, crescono esponenzialmente, non linearmente: il 10% equivale a 10 quest’anno
ma a 11 il prossimo, perche’ nel frattempo la base passa da 100 a 110. E se si parla di basi dell’ordine di milioni se non di miliardi, quella differenza si fa enorme.

Siamo nelle mani dell’etica?
Mentre noi cerchiamo una risposta, “tomorrow is happening today”, come recita il manifesto all’ingresso del museo della città del futuro a Shanghai.

sabato 13 dicembre 2008

Paese che vai usanza che trovi...

Rifletto sulle differenti abitudini quanto a relazioni sul lavoro, nei paesi che ho conosciuto di prima persona.

Le due cose che mi colpiscono di più in Austria sono da una parte la burocrazia, dall’altra l’efficienza. Sembra che per gli austriaci si tratti delle due facce di una stessa medaglia: la burocrazia si manifesta in una serie di regole e passaggi formali, mentre l’efficienza non è altro che l’operare precisamente e sistematicamente all’interno di quella cornice di regole.

Pensando all’Italia, noto che in Austria la burocrazia è più efficiente. Dalla mia esperienza, in Italia spesso i confini dei ruoli professionali non sono chiari e fissati una volta per tutte. Puo' accadere, per esempio, che più di una persona si trovi coinvolta nel fare le regole o a farle rispettare, in uno stesso ambito di competenza. Cosi' facendo le regole crescono, così come la possibilità che ognuno le interpreti a modo suo.

Al contrario che in Italia e in Austria, in Olanda mi capita molto meno spesso di notare la burocrazia. Mi si dice che la società olandese si fonda sul motto del “vivi e lascia vivere”: io non ti rompo le scatole, tu non le rompi a me. Le regole vengono chiamate in causa solo se qualcosa va storto. Ogni persona opera come meglio crede, in un paese dove tutti sono bene accorti nel non calpestare i diritti altrui.

E' sempre interessante notare come nell’azienda di Amsterdam che frequento non sia possibile riconoscere chi sia il capo, visto che 20 persone siedono in uno stesso open-space senza alcuna traccia di gerarchia o relazione di potere. In Austria, invece, per due settimane mi si e' chiesto quale fosse l’equivalente austriaco del mio titolo italiano di dottore, una dicitura che un paese "ossessionato" dai titoli come il nostro riconosce ai laureati anziché unicamente a chi ha un dottorato.

Negli Stati Uniti sembra che tutto quello detto finora trovi il tempo che trovi.
Oltreoceano, infatti, la regola numero uno è il pragmatismo. Dalla mia limitata esperienza, le regole servono se sono funzionali a uno scopo, altrimenti e' possibile applicarsi per renderle tali. E’ un po’ come in Italia, con la differenza che se in USA gli aggiustamenti si apportano per agevolare la missione di un gruppo di lavoro, dai noi a volte anche per favorire una o piu' persone. In entrambi i casi, le organizzazioni risultano più flessibili e più facilmente riconfigurabili, rispetto a quello che ho osservato in Austria e Olanda.

Una differenza che invece distingue tutti gli altri paesi che ho conosciuto dall’Italia è la cosiddetta “accountability”, ovvero il valutare l’operato delle persone sul lavoro sulla base di standard oggettivi definiti a priori, piuttosto che valutazioni più o meno soggettive ex-post.
L'accountability ha indubbiamente difficoltà ad attecchire nella nostra cultura latina, che vuole che “ci sia sempre una porta aperta per negoziare” e che “le cose si possano sempre aggiustare”.

Forse molte di queste comunanze e differenze si possano spiegare partendo dai macro-raggruppamenti culturali a cui i paesi appartengono: cattolici contro protestanti; latini contro anglosassoni; europei contro americani. In particolare, il confronto tra Austria e Olanda mi fa riflettere sull’importante ruolo giocato dalla religione: nei paesi cattolici abbiamo ereditato gerarchie e il formalismi dalla Chiesa e dal Papato; nei paesi a maggioranza protestante, la responsabilità delle proprie azioni è anzitutto individuale.

lunedì 8 dicembre 2008

Leonardino alla scoperta del mondo...


Ed eccoci finalmente a casa! Con il nuovo arrivato...
La magia della nuova vita continua. Leonardo ancora non vede, ma ci guarda negli occhi. Non capisce, ma sa che deve attaccarsi al seno. E ora fa anche le prove del sorriso muovendo i muscoli facciali! E’ amore a prima vista e quello che ci spaventava, cambio pannolini e ritmi da nottambuli, piu’ spesso si trasforma in momento di intimita’ con lui. E a guardarlo ci si fa anche delle grosse risate! Certo, alla mamma serve una dose extra di energie, ma ora che siamo a casa ha un po’ piu’ di tempo per recuperare.
Presto nuovi aggiornamenti…

venerdì 5 dicembre 2008

"Bolle personali al campus" (Sole24Ore Nova, 10.04.2008)


L’America piu’ di ogni altro paese al mondo ha saputo fare di Internet
e della rivoluzione informatica uno straordinario volano di sviluppo. L’America ospita la Silicon Valley e ha regalato al mondo Google, Amazon e il Web 2.0. Si stima che i contenuti in lingua inglese contribuiscano a oltre il 50% del web.
L’America ci ha aperto le porte del mondo. Sono venuto in America a capire perche’ e in che modo.
Una domanda che mi sta a cuore e’ in che grado Internet contribuisca ad allargare i nostri orizzonti mentali ma anche a gonfiare la nostra bolla personale. Qui, con “personal bubble” qualche accademico creativo intende uno spazio in continua espansione di manifestazione dei propri interessi e della propria personalita’ per perseguire obiettivi e desideri .
Penso al contenitore per eccellenza di personal bubble: il web 2.0 di MySpace e Facebook. In una societa' iper competitiva e individualista come quella americana, queste comunita’ soddisfano un bisogno tanto creativo quanto esibizionistico, sul principio per cui “eccomi qui, guarda quanto sono cool”.
Poi mi domando quanto tempo gli americani trascorrano giornalmente su Internet, per tenere costantemente aggiornati i propri blog e web 2.0. Lavorano già come matti, scrivono e rispondono a centinaia di e-mail e instant messages, aprono link, parlano e scrivono al telefono e al telefonino. Troveranno mai il tempo per staccare la spina? Trascorrendo buona parte del mio tempo a Boston, capisco quanto il concetto di personal bubble sia figlio dell’attuale capitalismo cosiddetto “post-fordista”, la cui parola chiave e’ personalizzazione. Cio’ che conta e’ creare ed offrire prodotti ed esperienze sempre più ritagliate sull’individualità delle persone, continuando a gonfiare la loro bolla.
Il problema è che questa societa' già accoglie le persone in un altro genere di bolle, altrettanto totalizzanti. Si tratta delle scuole e università in cui gli americani studiano nonché delle aziende per cui lavorano, che provvedono totalmente a loro in cambio di altrettanto totale dedizione. Nell’assenza di stato sociale, aziende e scuole ti prendono per mano fin dalla tua entrata, garantendoti assistenza ospedaliera, prendendosi cura dei tuoi bambini negli asili corporate, offrendoti un alloggio e strutture sportive e ricreative all’interno dei campus.
Se in questo modo le persone si sentono maggiormente parte di una comunità con un’identità, una cultura e degli obiettivi condivisi (esemplari al riguardo le magliette che gli studenti indossano con il nome e lo stemma della propria università), pagano però lo scotto di finire per trascorrere la stragrande maggioranza del proprio tempo tra le mura del campus.
Le universita’ di MIT e Harvard ospitano l’elite della ricerca mondiale. Qui le cose effettivamente funzionano come gli esperti dicono dovrebbero funzionare. Gli studenti di MIT e Harvard , in due passi dal centro di Boston, vivono pero’ in un altro mondo: esemplare l’aneddoto di un ragazzo a cui lo psicologo consiglia terapeuticamente di camminare per la prima volta al di là del ponte che separa il campus da downtown.
L'altro lato della medaglia degli altresi' favolosi campus universitari o aziendali americani è quindi quello che ti isolano in un ambiente familiare in cui entri in contatto esclusivamente con persone con il tuo stile di vita e le tue preoccupazioni, che parlano, si comportano e pensano sulla tua stessa lunghezza d’onda. Il resto lo ignori, a volte nella presunzione di conoscerlo già. Chi abita all’interno del campus potra’ fare a meno dell’automobile e dei mezzi pubblici (evitando di inquinare), ma perderà anche l’ultimo treno offerto dal pendolarismo per leggersi un giornale o entrare il contatto con “the world out there”.
E’ così che il campus per molti diventa prigione e il proprio argomento ultra-specialistico di studio o di lavoro l’unico filtro per leggere il mondo, con il rischio di diventare intransigenti e radicali sulle proprie idee. Complici i ritmi cosiddetti “24/7” (in attività 24 ore su 24, 7 giorni su 7, motivo di vanto nella east coast), sono in molti coloro che non hanno letteralmente il tempo per pensare ad altro, tanto meno per interrogarsi sul perché si sta facendo quello che si fa.
Mi chiedo quindi quando mai molti americani trovino occasione di allargare i propri orizzonti, impegnati come sono a coltivare le proprie bolle individuali all’interno delle bolle istituzionali e corporative a cui appartengono.
Spesso ho l’impressione che oltreoceano non esista una “società” nel modo in cui siamo abituati a pensarla in Europa, con i suoi momenti collettivi di discussione dei temi del giorno (nei bar, nei caffè o nelle piazze, in famiglia), quando piuttosto un insieme di mondi incomunicanti tra loro centrati sulle singole culture individuali e aziendali.
In definitiva, mi sembra che Internet porti con se’ questo paradosso dell’America: puoi fare di tutto, ma spesso e volentieri finisci per fare esclusivamente quello che ti e’ piu’ utile e gradito.