giovedì 22 gennaio 2009

Umanisti contro Tecnici


5 anni fa, iniziando un dottorato PhD in economia applicata, ho deciso di saltare a bordo della carovana rivale dei “tecnici”.
Dopo gli studi e i primi progetti di ricerca nelle discipline della comunicazione, mi sembrava di non riuscire piu' a sopportare i lati che consideravo negativi degli umanististi: inclinazione alle generalizzazioni, difficolta' a vedere i dettagli, testa sulle nuvole...
Lasciando una culla dell’umanesimo, l’Italia, ho iniziato a gravitare verso le piu’ “empiriche” terre dell’Olanda e degli Stati Uniti.
Sentivo che la mia formazione “qualitativa”, fondata sulla narrazione, andava completata con quella “quantitativa”, fondata sull’osservazione dei fatti. Basta parlare di punti di vista ma di piuttosto di assunzioni. Stop all’estetica e alla ricercatezza nel linguaggio, via libera alla precisione e all'univocita' dei significati. Basta occuparsi del “rapporto tra l’utilizzo di tecnologie mobili e sostenibilita’ ambientale”, ma piuttosto il tema del PhD diventa “misurazione dell’impatto dell’uso di telefoni cellulari e laptop sul comportamento umano di mobilita’”.

Imparo quello di cui sono alla ricerca, con soddisfazione.
I colleghi si occupano in modo eccellente di sviluppo di tecnologia. Attraverso di loro scopro che un fine ultimo dell’ingegnere e del tecnico e’ quello di fare succedere le cose, "make things happen" come dicono negli Usa. Fondamentale e' il "workflow", inperniato su un ragionamento lineare e incrementale: da A passo a B, da B passo a C, da C arrivo al risultato.
Non c’e’ bisogno di porsi domande, se questo e’ il modo in cui le cose funzionano: il perche’ e’ sotteso nella catena degli eventi. A volte ho l'impressione che se a un tecnico chiedessi “perche’ tutto questo succede?” potrebbe rispondermi “perche’ e’ cosi’”.

Se A e’ necessario quanto B e C per raggiungere il risultato, se tutto e’ importante allo stesso modo, non esiste essenziale e superfluo e potrebbe essere difficile darsi delle priorita'. Paradossalmente, potrebbe contare di piu’ arrivare da qualche parte nel modo giusto, piuttosto che arrivare nel posto giusto ma con il metodo sbagliato. Il metodo e' piu' importante del fine.
Il portato di questa conclusione, per quanto essa sia necessariamente parziale e semplicistica, potrebbe avere vaste implicazioni per come gira il mondo industrializzato di oggi.
Quello che mi sembra manchi a molti tecnici rispetto agli umanisti, e’ l'abitudine a chiedersi il perche’ si faccia quello che si fa e dove si voglia veramente arrivare, a volte non distinguendo l’essenza dal dettaglio e finanche il bene dal male.
Se gli umanisti si chiedono "quale societa' vogliamo costruire?", i tecnici sposano la stessa filosofia che ci propone la Nike: "Just do it!" (semplicemente, costruiscila!).
Per molti tecnocrati e economisti che governano il mondo, va sempre bene cosi’.

Probabilmente, invece di chiedersi se fosse giusto o sbagliato quello che facevano, molti finanzieri artefici della recente bolla speculativa si crogiolavano dei propri metodi sempre piu' avanzati di ingegneria finanziaria. I soldi che arrivavano non facevano altro che confermarne la bonta', piuttosto che sollevare dubbi morali.
In ogni caso, quello che credo sia certo e' che al mondo servono sia gli umanisti che i tecnici.
Senza i giusti fini prendiamo la strada sbagliata, ma senza il giusto metodo facciamo ben pochi passi. Una ragione in piu' per considerare fondamentale l'interdisciplinarieta', che pero' dovrebbe essere prima di tutto interdisciplinarieta' personale, relativa alla formazione di una stessa persona. Potrebbe non bastare mettere insieme persone di discipline diverse, per il rischio che gli umanisti si alleino con gli umanisti e i tecnici con i tecnici.
Speriamo che nel futuro agli umanisti e ai tecnici si affianchi anche chi li possa far comunicare.

sabato 17 gennaio 2009

Gli europei? Sono "cute", carini

Mi chiedo spesso perche' per noi Europei sia cosi' facile criticare gli americani e l'America, con ottime ragioni, eppure continuiamo a centinaia di migliaia a frequentare l'altra sponda dell'Oceano.
Per una volta ho provato a mettermi nei loro panni, in una immaginaria visione del mondo alla rovescia...

The Europeans? They are cute.
Gli Europei? Sono “cute”, carini. A volte fanno tenerezza. Son quelli lì, un po’ vecchio stampo e amarcord, che vanno dietro alle buone maniere, che non disdegnano il perdere tempo coltivando cose come le tradizioni e la cultura. Ma cosa sarà mai la cultura? Credo si riferiscano al loro passato millenario. Eh sì, sono un po’ così, certe volte fanno sorridere. Forse sono semplicemente un po’ ingessati e “all’antica”.

E’ comprensibile che molti americani ci vedano così. Solo quando ti confronti con loro ti rendi conto quando peso abbiano per noi la nostra storia e gli artefatti che la rappresentano, in altre parole quello che noi chiamiamo cultura.
La prima constatazione quando atterro da Boston a Amsterdam o Milano è la presenza di Olandesi e Italiani. Chi sono invece gli americani? Sono bianchi, gialli o di colore? Sono alti o bassi? Come si vestono? Che religione professano? Atterrato in una grande città statunitense, non sarei in grado di rispondere a queste domande. Forse opterei per un generico “un po’ di tutto questo” concludendo che il popolo americano non è comparabile con quelli europei.

Il cemento invisibile che lo tiene insieme non va ricercato nell’identità storico-linguistica e negli artefatti che la rappresentano quanto piuttosto, ancora una volta, nel fatto di essere tutti immigrati in America alla ricerca di una vita migliore. A volte in America ho la sensazione che “siamo tutti nella stessa barca”. Siamo arrivati e continuiamo ad arrivare qui per la stessa ragione; qualcuno di noi crede di essersi preso una cantonata, ma per definizione non possiamo essere infelici dal momento che siamo scappati da una situazione di infelicità, fiduciosi di raggiungere una vita gratificante e dignitosa qui in terra. In America.

Siamo gente che crede nelle proprie possibilità. Siamo americani.
L’ottimismo e la fiducia sono nel nostro DNA, l’intraprendenza e la capacità di sognare sono il nostro braccio armato, Dio è con noi; per questi motivi decidiamo di investire le nostre vite in missioni che faranno grandi noi e il mondo. Ci sacrificheremo, rinunciando a goderci la vita e tralasciando sofisticazioni o sfarzi che non farebbero altro che corrompere l’animo.

Chi arriva dall’Europa rimane inconsapevolmente abbagliato dal senso di solidarietà del “si tira tutti avanti” che si respira nell’aria. E’ affascinato dal gusto per la semplicità e la sostanza e dal rendersi conto che non è importante come vivi e chi sei ma quello che fai. Agli occhi degli americani più convinti, l’Europa di oggi, opulenta, super-ordinata, essenzialmente bianca, dalle 35 ore lavorative e amante del bello e del passato non può che sembrare oziosa, se non un po’ debosciata e codarda.

Gli europei sono quelli che hanno deciso di rimanersene a casa, optando per la vita facile e scendendo a compromessi con la mediocrità e gli antichi privilegi.
Gli europei? Sono “cute”. Carini.

sabato 3 gennaio 2009

Piu' sviluppo, piu' emigrazione?

E’ comprensibile che ci sorprenda vedere gli africani riversarsi in massa in Europa, i latino-americani negli Stati Uniti e gli asiatici del sud-Est nei paesi del Golfo.

Allo stesso tempo, credo sia giusto ricordarsi che, per molto tempo attraverso il colonialismo, e tuttora attraverso la globalizzazione, ci siamo serviti delle loro risorse naturali ed umane per creare il nostro sviluppo.
Cosa sarebbero le societa’ occidentali senza il te’ e il caffe’, il tantalio per i telefonini e i computer portatili, il petrolio per la benzina e la plastica, il gas per il riscaldamento, la cocaina? Senza le badanti nelle case, gli operai a basso costo nelle fabbriche e i raccoglitori nei campi? Senza i viaggi intercontinentali?

Se il nostro benessere dipende cosi' tanto dal resto del mondo, verrebbe da dire che è arrivato il momento di assumersi la responsabilita’delle conseguenze: l’emigrazione stessa dimostra che gli altri popoli - per l’una o l’altra ragione (e non e’ questa l’occasione di approfondire) - non sempre hanno guadagnato abbastanza dallo scambio. L’alternativa attuale e’ quella di esportare il nostro sviluppo nelle loro terre, in gioco che dovrebbe essere vantaggioso per entrambe le parti.
Lo facciamo, tra altre cose, impiantando catene alberghiere e stabilimenti manifatturieri.

Al riguardo, mi chiedo: cosa diamo ai paesi piu’ deboli?
Dare un lavoro (il pesce) a chi non ce l’ha e’ cosa lodevole, ma insegnare a pescare e’ molto di piu'. In altre parole, quanto conoscenza e know-how si trasferiscono attraverso questo modello di sviluppo? Credo che, in parte, il processo di apprendimento sia inevitabile (le persone osservano ed elaborano), in parte vada considerato che enti pubblici come l’Unione Europea e le varie ONG integrano l’operato delle aziende private attraverso partenariati per l’educazione e la formazione. D’altronde, in un sistema competitivo, i privati non sono incentivati a sviluppare la concorrenza. E se, inoltre, questa nostra conoscenza non fosse voluta?

Gli stati dello Yucatan e del Chiapas, nel Messico Meridionale, incarnano bene questo tipo di problematiche. Il primo si sta sviluppando attraverso il turismo, il secondo cerca di resistere allo sviluppo in nome di una antica cultura locale.
Io e Jenny non dimenticheremo facilmente la faccia sconsolata di un prete di S.Cristobal de las Casas che parlando del proprio paese concludeva con un mesto “nos falta el know how!” (ci manca il saper fare). Ahime’, come dargli torto: osservando fetide capanne e baracche ai bordi dei siti archeologici Maya, ti viene da dire “ma come e’ possibile? vengo io a sistemartela la casa!”.

Certo, tutto cambia se le persone sono felici della propria condizione: e’ il caso degli indigeni delle foreste del Chiapas, orgogliosi della propria cultura pre-moderna.
Perche’ pensare che debbano “svilupparsi” ad ogni costo? Facendo arrivare televisione e telefonino fino sotto la loro casa si correrebbe il rischio di creare ex-novo un senso di insoddisfazione per la propria condizione, favorendo una migrazione in massa verso citta’ gia’ troppo affollate o addirittura verso l’occidente.

Credo che sia proprio questo uno dei rischi piu’ grandi dell’attuale modello di sviluppo esogeno, imposto dall’esterno attraverso una globalizzazione che - per definizione - deve arrivare dappertutto: il richiamo della modernita’ e’ troppo potente, e lascia poche alternative all’insoddisfazione e alla fuga, soprattutto dei giovani piu’ intraprendenti.
Ed e’ proprio questo che spesso non sappiamo noi dei paesi ospitanti: chi arriva spesso sono persone che si contraddistinguono per intelligenza, idee e spirito di iniziativa. Molti di loro finiranno nell’applicarle in campi sbagliati, a soddisfamento di una domanda di mercato delle popolazioni ospitanti: spaccio di droga, prostituzione, mercato nero. Molti di loro si troveranno in difficolta’ nel conciliare gli insegnamenti tradizionali e quelli della loro religione con la modernita’.

Anche se molto piu' complessa di quanto descritto (basti pensare ai profughi di guerra e ai criminali in fuga dal proprio paese), credo che la situazione si possa migliorare. Forse il primo passo e’ quello di accettarla per quella che e’, da parte di chi emigra e di chi riceve. Chi sposa la globalizzazione, come tutti noi facciamo piu’ o meno consapevolmente o positivamente, dovrebbe accettarne non solo le opportunita’ ma anche le conseguenze negative.