77 Massachusetts Avenue: scendi dalla macchina e ti si para davanti un tempio di scienza e di tecnologia.
Ti arrampichi a grandi passi sulla scalinata, schivi una delle possenti colonne a capitello ionico, entri nell’atrio del Massachusetts Institute of Technology. Schermi e manifesti promuovono gli eventi del giorno e del trimestre, ti accorgi che fa da padrone la ricerca sull'efficienza energetica e le energie rinnovabili. Ti salta all'occhio la pubblicita' della M.I.T. Energy Initiative: "mettiamo insieme scienza, innovazione e politica per trasformare i sistemi energetici del mondo".
Poi, improvvisamente, forse per l’emozione, senti l’esigenza di andare in bagno. L’insegna maschile sporge sul “corridoio infinito”: entri e fai per appoggiare lo zaino sul lungo termos che corre sotto la finestra, ma questo e’ talmente bollente che ti rovinerebbe il portatile. Ma come? Ti domandi. E’ fine aprile e fuori ci sono 20 gradi. Guarda un po’: la finestra e’ aperta. Questa si’ che e’ efficienza energetica.
Si sa, tra il dire e il fare c’e’ una bella differenza, ma qualche volta mi sembra che solo gli Stati Uniti, il paese dove tutto e’ piu’ grande, siano capaci di contraddizioni tanto evidenti.
Basta sintonizzarsi sull’agenda politica mondiale, cosa che gli americani fanno piu’ distrattamente di altri popoli a parita’ di scolarizzazione e su base statistica. In materia di energia apprendo che: “e’ necessario fermare l’IRAN nella produzione dell’energia nucleare a scopi bellici”. Passando alla salute: “obesita’ in aumento in tutti i paesi avanzati, necessarie nuove abitudini alimentari e stili di vita”. Finendo con l’economia: “Cina nuovo gigante dell’economia, sempre piu’ posti di lavoro “dirottati” dagli USA ai paesi emergenti”.
Facile lamentarsi, ma ci siamo mai chiesti perche’ le cose stiano cosi’?
Ci facciamo campioni di un nuovo futuro energetico, ma intanto teniamo le finestre aperte con il thermos acceso. Promuoviamo la denuclearizzazione, ma intanto i dati vedono il budget USA per la sicurezza nucleare 14 volte piu’ grande di quello per la ricerca e lo sviluppo in ambito energetico(stime di Schwartz e Choubey, per l’anno fiscale 2008). Tessiamo le lodi di di uno stile di vita piu’ sano, ma intanto al supermercato abbondano le taniche di latte, i sacchetti di carne, le offerte 5 per 4, gli snack e le bevande ipercaloriche frutto degli ultimi ritrovati della ricerca scientifica in materia di nuovi sapori. Ci lamentiamo della crescita della Cina, ma intanto facciamo a gara per attrarre i migliori scienziati e ingegneri cinesi nelle nostre universita’, coloro che una volta rientrati in patria diventeranno gli artefici del riscatto cinese.
E’ quindi tutto sbagliato?
Piu’ che sbagliato, e' forse la logica conseguenza di un sistema fatto di mondi che non comunicano tra di loro, ciascuno con i propri obiettivi ed incentivi.
Gli accademici si preoccupano delle pubblicazioni e di attrarre i migliori scienziati per arrivare ad ottenerle, prima ancora che della propria efficienza energetica e della competizione cinese. Le aziende di produzione di cibi si preoccupano di massimizzare il profitto, prima ancora della salute della gente. Il governo americano si preoccupa della propria sicurezza, prima ancora di quella del mondo in generale.
E’ come un’orchestra senza un direttore: manca una figura super-partes capace di fare convergere i solisti verso un unico spartito; mancano obiettivi condivisi di ordine superiore, dai quali tutti possano beneficiare.
Che gli Stati Uniti e molte realta' del mondo occidentale soffrano di un “eccesso di democrazia”? Che sotto questo profilo una Cina non democratica sia un bene per il mondo?
Senza una pianificazione verso un fine superiore, la democrazia sembra diventare anarchica: tutti fanno quello che ritengono importante e nessuno si sente responsabile del risultato complessivo...
E’ facile per un visitatore far notare agli americani contraddizioni tanto evidenti.
Ma non sorprendiamoci se essi stessi non riescono o non vogliono vedere tale “elefante in salotto”. Dopo tutto, sono esseri umani tali e quali a noi, e l’ultima cosa che vogliamo augurarci e’ che il terreno ci crolli sotto i piedi. In fin dei conti, il DNA del sogno e della civilta’ occidentale e’ la valorizzazione del dio dentro di noi, delle straordinarie capacita’ esprimibili dall'uomo quando lasciato libero di fare di testa propria. Abbiamo fatto grandi cose, la maggior parte di noi in buona fede, ma l’inizio del nuovo millennio sembra averci riportato con i piedi per terra.
La strada imboccata non e’ sostenibile, perche’ strada non e'.
Armiamoci quindi di nuove carte e bussole, il nuovo cammino non puo' piu' aspettare.
venerdì 30 ottobre 2009
venerdì 23 ottobre 2009
Una grande ossessione
La rotta e’ sempre la stessa. Entro, tiro dritto fino all’ultimo corridoio e inizio il mio “grocery shopping” dalla sezione dei latticini, per poi spostarmi ai succhi di frutta e quindi al reparto “food from the world”.
Le mie prime battaglie allo Star Supermarket di Cambridge (Massachusetts) cominciano dagli yogurt: rovisto gli scaffali in tutte le direzioni, perche' non riesco a trovare dei vasetti che consentano di essere finiti una volta aperti. Vanno tutti oltre le mie capacita’: troppo grandi. Poi scorro i prezzi: tutti sistematicamente piu’ alti dei loro cugini vasetti residenti nei supermercati italiani. Yogurt piu’ grande, prezzo piu’ grande: non fa una piega.
Sembra banale, ma ho l'impressione che la storia dello yogurt la dica lunga rispetto a quella che potrei considerare un’ ossessione della moderna societa’ globalizzata: la grandezza. Il trend e’ abbastanza chiaro, in molta parte dei settori economici: quando possibile, invece di semplici casette a due piani si costruiscono grattacieli; invece di normali automobili, si propongono SUV; invece di pagare le singole telefonate, si ipotizzano rate fisse di “traffico illimitato”.
Non importa se tutta questa grandezza non ci serve, verra’ sotto-utilizzata o esaurira’ le risorse del pianeta prima che queste possano rigenerarsi. La grandezza ha una giustificazione commerciale: consente al produttore di “scalare” i costi (quindi di risparmiare in termini relativi) e rappresenta la ragione piu’ ovvia per aumentare il prezzo.
La ragione commerciale pero’ non basta. Ci dovra’ essere qualcuno disposto a spendere di piu’ per aquistare questi prodotti piu’ grandi. Negli Stati Uniti, il problema e’ facilmente risolto: le persone non hanno abbastanza soldi? Glieli prestiamo noi!
Sembra che sia stato questo l’assunto alla base delle politiche della crescita (non a caso) promosse dalla Banca Centrale Americana e dalle banche in generale: tassi d’interesse bassi, quindi prestiti e mutui molto convenienti; carte di credito spedite direttamente a casa delle persone, che ne finiscono per collezionare molteplici e usano le une per ripagare i debiti accumulati con le altre.
Dove non arrivano gli incentivi finanziari, gioca a supporto una cultura della grandezza.
Reduce dal suo primo viaggio in Europa, un caro amico peruviano rifugiato politico a Boston da molti anni mi racconta: “In Germania, mi ha colpito la citta’ di Costanza, sul lago omonimo. E' popolata da persone ricchissime - facile a dirlo a giudicare dalle automobili e dai ristoranti presenti - ma anche disposte a vivere nelle case alte e strette del borgo storico. In America la prima cosa a cui si pensa appena si fa qualche soldo e’ … GOING BIG: casa piu’ grande, macchina piu’ grande, tutto piu’ grande.”
In un mercato globale in cui il valore delle aziende e dei paesi si misura in termini prettamente quantitativi (fatturato, valore dei titoli azionari, PIL) , ancora prima che un’ossessione la grandezza sembra essere una necessita’. A valle del crollo finanziario globale dello scorso anno, l’amministratore delegato di Bank of America, Ken Lewis, rivela all’emittente PBS che “nell’economia di oggi o diventi sempre piu’ grande o muori”.
D’altronde, e’ quello che gli economisti italiani da ormai molti anni continuano a ripetere alle nostre Piccole e Medie Imprese (PMI): se non andate oltre il modello di gestione famigliare su piccola scala siete destinate a sparire.
Anche se questo non vale per tutti i settori - piu’ la tua conoscenza e’ specializzata e di alto profilo, meno e’ sostituibile -, il trend verso la grandezza sembra avere facile giustificazione: nell’economia globale dominata dalla finanza la quantita’ conta piu’ della qualita’.
Prima ci si preoccupa di fare piu’ soldi possibile (massimizzare l’investimento), poi, eventualmente, di come si e' arrivati a farli. Machiavelli docet.
Quindi, come possono artigiani e PMI competere con le multinazionali, maestre di economie di scala e dominatrici di media di massa?
Fino a qui, il quadro puo’ apparire solo negativo, soprattutto agli occhi di un italiano e di un abitante del vecchio continente. Che fine faranno l’artigiano e l’impresa-famiglia? Tutti coloro che il proprio lavoro lo fanno con passione ed amore prima ancora che per denaro? Tutti quelli che di diventare grandi proprio non ne vogliono sapere?
Seppure spietato e in urgente necessita’ di modifiche strutturali, il sistema attuale non manca di offrire il buono e il bello. La conoscenza delle multinazionali si e’ talmente evoluta negli ultimi decenni, che esse stesse sono diventate i nuovi gioelli del mondo produttivo, in cui il lavoratore si misura non solo con le ultime tecnologie e pratiche, ma altre con un ambiente multiculturale aperto e collaborativo. Anche se il loro obiettivo ultimo e’ la quantita’, non vuol dire che al proprio interno la qualita’ non possa essere perseguita a molteplici livelli. Al contrario, deve esserlo, per garantirsi di produrre sempre piu'.
E’ cosi’ che le multinazionali possono diventare ambienti di lavoro straordinari, soprattutto per i lavori piu’ specializzati, piu’ scolarizzati e per tutti coloro che lavorano con la testa e con il computer. Per chi lavora con le mani, la realta’ e’ probabilmente molto diversa, come spesso riportano le organizzazioni umanitarie contro lo sfruttamento dei lavoratori nei paesi in via di sviluppo.
Insomma sembra che la storia della grandezza sia una storia grande, una di quelle che ti permette di tagliare tutti i problemi in un colpo solo. E’ una storia di ambizione e avidita’ umane, ma rivela anche la capacita’ dell'uomo di “puntare in grande” e in un certo modo il suo amore per l’abbondanza del mondo.
E’ una storia che e' necessario contestualizzare in questo momento storico: crescita esponenziale della popolazione mondiale (US Census Bureau stima che domani sabato saremo 6 milioni in piu’ di oggi venerdi’); dominio della mentalita’ anglosassone, basata sui fatti e sul presente, nel bene e nel male; trend ecologicamente insostenibile, perche’ procediamo nel progresso troppo veloci e senza visione di lungo termine.
Sembra che gli uomini e a maggior ragione le societa’ umane siano esseri fondalmente conservatori: per cambiare rotta ci vuole un grande trauma. C’e’ chi attende rivoluzioni in Cina, chi disastri climatici in occidente.
Senza alcun malaugurio, speriamo di imparare dai nostri errori, riuscendo a trovare la forza di perdonarceli. Prima ancora che gli uni con gli altri, verso l’imperfetta ma pur straordinaria specie umana.
Le mie prime battaglie allo Star Supermarket di Cambridge (Massachusetts) cominciano dagli yogurt: rovisto gli scaffali in tutte le direzioni, perche' non riesco a trovare dei vasetti che consentano di essere finiti una volta aperti. Vanno tutti oltre le mie capacita’: troppo grandi. Poi scorro i prezzi: tutti sistematicamente piu’ alti dei loro cugini vasetti residenti nei supermercati italiani. Yogurt piu’ grande, prezzo piu’ grande: non fa una piega.
Sembra banale, ma ho l'impressione che la storia dello yogurt la dica lunga rispetto a quella che potrei considerare un’ ossessione della moderna societa’ globalizzata: la grandezza. Il trend e’ abbastanza chiaro, in molta parte dei settori economici: quando possibile, invece di semplici casette a due piani si costruiscono grattacieli; invece di normali automobili, si propongono SUV; invece di pagare le singole telefonate, si ipotizzano rate fisse di “traffico illimitato”.
Non importa se tutta questa grandezza non ci serve, verra’ sotto-utilizzata o esaurira’ le risorse del pianeta prima che queste possano rigenerarsi. La grandezza ha una giustificazione commerciale: consente al produttore di “scalare” i costi (quindi di risparmiare in termini relativi) e rappresenta la ragione piu’ ovvia per aumentare il prezzo.
La ragione commerciale pero’ non basta. Ci dovra’ essere qualcuno disposto a spendere di piu’ per aquistare questi prodotti piu’ grandi. Negli Stati Uniti, il problema e’ facilmente risolto: le persone non hanno abbastanza soldi? Glieli prestiamo noi!
Sembra che sia stato questo l’assunto alla base delle politiche della crescita (non a caso) promosse dalla Banca Centrale Americana e dalle banche in generale: tassi d’interesse bassi, quindi prestiti e mutui molto convenienti; carte di credito spedite direttamente a casa delle persone, che ne finiscono per collezionare molteplici e usano le une per ripagare i debiti accumulati con le altre.
Dove non arrivano gli incentivi finanziari, gioca a supporto una cultura della grandezza.
Reduce dal suo primo viaggio in Europa, un caro amico peruviano rifugiato politico a Boston da molti anni mi racconta: “In Germania, mi ha colpito la citta’ di Costanza, sul lago omonimo. E' popolata da persone ricchissime - facile a dirlo a giudicare dalle automobili e dai ristoranti presenti - ma anche disposte a vivere nelle case alte e strette del borgo storico. In America la prima cosa a cui si pensa appena si fa qualche soldo e’ … GOING BIG: casa piu’ grande, macchina piu’ grande, tutto piu’ grande.”
In un mercato globale in cui il valore delle aziende e dei paesi si misura in termini prettamente quantitativi (fatturato, valore dei titoli azionari, PIL) , ancora prima che un’ossessione la grandezza sembra essere una necessita’. A valle del crollo finanziario globale dello scorso anno, l’amministratore delegato di Bank of America, Ken Lewis, rivela all’emittente PBS che “nell’economia di oggi o diventi sempre piu’ grande o muori”.
D’altronde, e’ quello che gli economisti italiani da ormai molti anni continuano a ripetere alle nostre Piccole e Medie Imprese (PMI): se non andate oltre il modello di gestione famigliare su piccola scala siete destinate a sparire.
Anche se questo non vale per tutti i settori - piu’ la tua conoscenza e’ specializzata e di alto profilo, meno e’ sostituibile -, il trend verso la grandezza sembra avere facile giustificazione: nell’economia globale dominata dalla finanza la quantita’ conta piu’ della qualita’.
Prima ci si preoccupa di fare piu’ soldi possibile (massimizzare l’investimento), poi, eventualmente, di come si e' arrivati a farli. Machiavelli docet.
Quindi, come possono artigiani e PMI competere con le multinazionali, maestre di economie di scala e dominatrici di media di massa?
Fino a qui, il quadro puo’ apparire solo negativo, soprattutto agli occhi di un italiano e di un abitante del vecchio continente. Che fine faranno l’artigiano e l’impresa-famiglia? Tutti coloro che il proprio lavoro lo fanno con passione ed amore prima ancora che per denaro? Tutti quelli che di diventare grandi proprio non ne vogliono sapere?
Seppure spietato e in urgente necessita’ di modifiche strutturali, il sistema attuale non manca di offrire il buono e il bello. La conoscenza delle multinazionali si e’ talmente evoluta negli ultimi decenni, che esse stesse sono diventate i nuovi gioelli del mondo produttivo, in cui il lavoratore si misura non solo con le ultime tecnologie e pratiche, ma altre con un ambiente multiculturale aperto e collaborativo. Anche se il loro obiettivo ultimo e’ la quantita’, non vuol dire che al proprio interno la qualita’ non possa essere perseguita a molteplici livelli. Al contrario, deve esserlo, per garantirsi di produrre sempre piu'.
E’ cosi’ che le multinazionali possono diventare ambienti di lavoro straordinari, soprattutto per i lavori piu’ specializzati, piu’ scolarizzati e per tutti coloro che lavorano con la testa e con il computer. Per chi lavora con le mani, la realta’ e’ probabilmente molto diversa, come spesso riportano le organizzazioni umanitarie contro lo sfruttamento dei lavoratori nei paesi in via di sviluppo.
Insomma sembra che la storia della grandezza sia una storia grande, una di quelle che ti permette di tagliare tutti i problemi in un colpo solo. E’ una storia di ambizione e avidita’ umane, ma rivela anche la capacita’ dell'uomo di “puntare in grande” e in un certo modo il suo amore per l’abbondanza del mondo.
E’ una storia che e' necessario contestualizzare in questo momento storico: crescita esponenziale della popolazione mondiale (US Census Bureau stima che domani sabato saremo 6 milioni in piu’ di oggi venerdi’); dominio della mentalita’ anglosassone, basata sui fatti e sul presente, nel bene e nel male; trend ecologicamente insostenibile, perche’ procediamo nel progresso troppo veloci e senza visione di lungo termine.
Sembra che gli uomini e a maggior ragione le societa’ umane siano esseri fondalmente conservatori: per cambiare rotta ci vuole un grande trauma. C’e’ chi attende rivoluzioni in Cina, chi disastri climatici in occidente.
Senza alcun malaugurio, speriamo di imparare dai nostri errori, riuscendo a trovare la forza di perdonarceli. Prima ancora che gli uni con gli altri, verso l’imperfetta ma pur straordinaria specie umana.
venerdì 2 ottobre 2009
Il mondo secondo Google
Accendiamo il computer. Clicchiamo sull’icona di Internet Explorer. Digitiamo google.com nella barra degli indirizzi. Inseriamo una A nello spazio bianco. Leggiamo i suggerimenti comparsi a completamento della nostra A. Nel mio caso:
Ansa; Agenzia delle entrate; Alitalia; Animedb - the streaming paradise; Autoscout24 - marketplace europeo delle auto nuove e usate; Air One; Alice Adsl; Alice Mail.
Ogni secondo, ogni giorno, in ogni angolo del mondo, la storia si ripete: milioni di persone contribuiscono con le loro richieste a determinare la classifica delle ricerche piu’ cliccate, alcune delle quali ci sono appena state prosposte da “Google suggerimenti”. Altre vengono censurate. Altre ancora appaiono perche’ qualcuno ha pagato per pubblicizzarle, piuttosto che per meriti sul campo.
Google ha cambiato il mondo.
Ansa; Agenzia delle entrate; Alitalia; Animedb - the streaming paradise; Autoscout24 - marketplace europeo delle auto nuove e usate; Air One; Alice Adsl; Alice Mail.
Ogni secondo, ogni giorno, in ogni angolo del mondo, la storia si ripete: milioni di persone contribuiscono con le loro richieste a determinare la classifica delle ricerche piu’ cliccate, alcune delle quali ci sono appena state prosposte da “Google suggerimenti”. Altre vengono censurate. Altre ancora appaiono perche’ qualcuno ha pagato per pubblicizzarle, piuttosto che per meriti sul campo.
Google ha cambiato il mondo.
Non solo: ha reso il mondo in grado di capire come sta cambiando.
Agendo da sensore dell’opinione pubblica mondiale, Google ci racconta che cosa occupi la mente delle persone. I suoi dati sono una miniera d’oro per la ricerca sociale e per le ricerche di mercato. La storia di Google nasce dall’assunzione del “do good” (fare del bene), promossa dai suoi fondatori: consentendo il reperimento della conoscenza mondiale messa in rete, Google si fa vassallo di cultura e di democrazia, su scala mai conosciuta prima.
Siamo pero' sicuri di sapere che cosa questo veramente significhi?
L'implicazione a tutt’oggi piu' studiata e’ il fatto che Internet - reso significativo da Google e dagli altri motori di ricerca - sposti il bilanciamento di potere dalle istituzioni ai singoli individui.
E' piu' difficile nascondersi: l’informazione in rete consente ai cittadini e consumatori di avere un quadro piu’ ampio e completo della situazione, di confrontare prezzi e caratteristiche dei prodotti, cosi’ come l’offerta e l'operato politico. E' piu' difficile ignorarsi: la voce di cittadini e consumatori organizzati in social networks puo’ diventare importante agente di cambiamento.
Improvvisamente, le istituzioni - pubbliche o private che siano - si potrebbero ritrovare il fiato sul collo. Come loro, i ruoli “istituzionali”: dal medico all’avvocato, dall’insegnante al padre di famiglia. Non necessariamente ne sanno piu’ di noi.
Tale pressione e’ problematica per tutti: e’ occasione per migliorarsi, ma potrebbe sconvolgere delicati equilibri sociali. Puo’ renderla piu' stimolante, ma puo’ anche aumentare lo stress nella nostra vita. Una vita che probabilmente Internet ha gia’ contribuito a scuotere, negli equilibri personali: tempo trascorso davanti al computer; interazioni e confronti con nuovi contatti e conoscenze in rete; totale accesso alla pornografia.
In qualche modo, persone e istituzioni dovranno ricostruirsi un nuovo equilibrio.
Mi chiedo: in che misura la situazione e' veramente quella descritta?
Se tutto e’ possibile, non e’ detto che tutti possano o vogliano fare tutto.
In particolare, mi domando perche' Internet dovrebbe aumentare la nostra gamma di interessi.
Se non conosco la musica classica, non andro’ a cercarla in rete; se non mi interesso di politica, forse non diventero’ mai un attivista in rete; se non ho molta curiosita' probabilmente non mi spingero' molto oltre lo scambio di messaggi all'interno della mia cerchia di amici; ma se conosco l’inglese mi si spalancheranno le porte di un mondo infinito.
Da questo punto di vista credo che Internet sia molto piu’ simile alla televisione di quanto normalmente pensiamo: ciascuno sintonizzato sul canale che piu’ preferisce. Certo, c'e' sempre piu' zapping da fare, ma alla fine e' probabile che i nostri interessi e limiti ci facciano approdare ai porti sicuri (torno a rileggermi gli 8 suggerimenti che Google mi propone digitando la A…).
E’ forse quindi arrivato il momento di allargare la discussione dal piano tecnologico a quelli educativo e formativo?
Agendo da sensore dell’opinione pubblica mondiale, Google ci racconta che cosa occupi la mente delle persone. I suoi dati sono una miniera d’oro per la ricerca sociale e per le ricerche di mercato. La storia di Google nasce dall’assunzione del “do good” (fare del bene), promossa dai suoi fondatori: consentendo il reperimento della conoscenza mondiale messa in rete, Google si fa vassallo di cultura e di democrazia, su scala mai conosciuta prima.
Siamo pero' sicuri di sapere che cosa questo veramente significhi?
L'implicazione a tutt’oggi piu' studiata e’ il fatto che Internet - reso significativo da Google e dagli altri motori di ricerca - sposti il bilanciamento di potere dalle istituzioni ai singoli individui.
E' piu' difficile nascondersi: l’informazione in rete consente ai cittadini e consumatori di avere un quadro piu’ ampio e completo della situazione, di confrontare prezzi e caratteristiche dei prodotti, cosi’ come l’offerta e l'operato politico. E' piu' difficile ignorarsi: la voce di cittadini e consumatori organizzati in social networks puo’ diventare importante agente di cambiamento.
Improvvisamente, le istituzioni - pubbliche o private che siano - si potrebbero ritrovare il fiato sul collo. Come loro, i ruoli “istituzionali”: dal medico all’avvocato, dall’insegnante al padre di famiglia. Non necessariamente ne sanno piu’ di noi.
Tale pressione e’ problematica per tutti: e’ occasione per migliorarsi, ma potrebbe sconvolgere delicati equilibri sociali. Puo’ renderla piu' stimolante, ma puo’ anche aumentare lo stress nella nostra vita. Una vita che probabilmente Internet ha gia’ contribuito a scuotere, negli equilibri personali: tempo trascorso davanti al computer; interazioni e confronti con nuovi contatti e conoscenze in rete; totale accesso alla pornografia.
In qualche modo, persone e istituzioni dovranno ricostruirsi un nuovo equilibrio.
Mi chiedo: in che misura la situazione e' veramente quella descritta?
Se tutto e’ possibile, non e’ detto che tutti possano o vogliano fare tutto.
In particolare, mi domando perche' Internet dovrebbe aumentare la nostra gamma di interessi.
Se non conosco la musica classica, non andro’ a cercarla in rete; se non mi interesso di politica, forse non diventero’ mai un attivista in rete; se non ho molta curiosita' probabilmente non mi spingero' molto oltre lo scambio di messaggi all'interno della mia cerchia di amici; ma se conosco l’inglese mi si spalancheranno le porte di un mondo infinito.
Da questo punto di vista credo che Internet sia molto piu’ simile alla televisione di quanto normalmente pensiamo: ciascuno sintonizzato sul canale che piu’ preferisce. Certo, c'e' sempre piu' zapping da fare, ma alla fine e' probabile che i nostri interessi e limiti ci facciano approdare ai porti sicuri (torno a rileggermi gli 8 suggerimenti che Google mi propone digitando la A…).
E’ forse quindi arrivato il momento di allargare la discussione dal piano tecnologico a quelli educativo e formativo?
Al riguardo, la mia limitata esperienza mi ha insegnato che piu’ sai, piu’ Internet ti permette di sapere, attivando un circolo virtuoso esponenziale. Parallelamente a una spinta di democratizzazione, sembra quindi che Internet porti con se’ anche una forza di segregazione: le elite acculturate e cosmopolite potrebbero saperne sempre di piu’, mentre la posizione di tutti gli altri non cambierebbe di molto. Come nel ciclismo: pochi in fuga, i piu’ rimangono dentro la lunga coda del gruppo.
Le fughe non sono pero' sempre vincenti. L'istruzione potrebbe non bastare.
L’altra sera nessuno aveva voglia di cucinare. Mi sono messo le scarpe e sono sceso alla pizzeria vicino casa. Nell’attesa del mio turno, ho osservato la preparazione delle nostre pizze: maestria e velocita’ straordinarie. Ho fatto i complimenti al pizzaiolo. Lui mi ha chiesto che lavoro facevo.
Gli ho risposto: il ricercatore. Ha replicato: bel lavoro, tu usi la testa, io le mani. Ha poi aggiunto: non dimenticarti, pero’, nella vita essere istruiti non vuol dire essere saggi.
La saggezza ci potra' arrivare anche dalla rete, ma meglio non farci completo affidamento.
Le fughe non sono pero' sempre vincenti. L'istruzione potrebbe non bastare.
L’altra sera nessuno aveva voglia di cucinare. Mi sono messo le scarpe e sono sceso alla pizzeria vicino casa. Nell’attesa del mio turno, ho osservato la preparazione delle nostre pizze: maestria e velocita’ straordinarie. Ho fatto i complimenti al pizzaiolo. Lui mi ha chiesto che lavoro facevo.
Gli ho risposto: il ricercatore. Ha replicato: bel lavoro, tu usi la testa, io le mani. Ha poi aggiunto: non dimenticarti, pero’, nella vita essere istruiti non vuol dire essere saggi.
La saggezza ci potra' arrivare anche dalla rete, ma meglio non farci completo affidamento.
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