Argomenti quanto mai di attualita’ in Europa, anche considerando le proteste sempre piu’ violente dei giovani greci e spagnoli contro i modi in cui i propri governi intendono ripagare i debiti accumulati. Gli anni 90 e 2000 hanno visto una grande trasformazione nei soggetti che si sono fatti prestatori di denaro agli stati: in Italia, per esempio, gli stranieri sono passati a detenere oltre il 50% del debito pubblico (ne detenevano circa il 5% nel 1991), e ben l’85% dell’intero debito e’ ora nelle mani di investitori istituzionali italiani o stranieri, quali banche, assicurazioni e fondi pensione (dati Bankitalia, 2010).
Se in passato obbligazioni e BOT rappresentavano soprattutto la cassaforte dei cittadini italiani, oggi sono per la maggior parte fonte di reddito e di speculazione per grandi soggetti finanziari potenzialmente estranei alla societa’ e all’economia reale del paese. Come tutti i creditori, anch’essi hanno un interesse a far fruttar bene il proprio prestito, e quindi ad una crescita dei tassi di interesse pagati loro dal governo italiano. Questi soggetti potrebbero quindi gradire un aumento del differenziale (“spread”) di rendimento tra i titoli di stato italiani e gli equivalenti tedeschi, e potrebbero addirittura favorirlo attraverso la speculazione e con il possibile aiuto delle agenzie di rating.
L’indebitamento complessivo dello stato italiano, in misura relativa al PIL, e’ raddoppiato tra il 1982 e il 2010 (Dati Min. Economia e Finanze, 2011). Aprendo le porte ai grandi capitali globali, l’Italia e molti altri stati sovrani hanno creato le migliori condizioni per finire sotto ricatto del mondo finanziario, la cui principale e legittima preoccupazione e’ quella di vedere il proprio prestito propriamente ripagato.
Di qui nel 2011 la nomina di Mario Monti in Italia e di Lucas Papademos in Grecia, economisti chiamati a sistemare i conti dei propri paesi. Di qui le rigide posizioni di Angela Merkel, che oltre ad altri motivi ha anche un interesse a proteggere le banche tedesche, molto esposte verso i governi del Sud Europa. Di qui i “referendum” del mercato finanziario ogni volta che i governi sotto osservazione fanno una nuova dichiarazione o azione macro-economica: un aumento dello spread equivale a un NO, una sua diminuzione a un SI’. Di qui i voti di buona condotta emessi dalle agenzie di rating, in teoria super-partes, in pratica finanziate dai propri clienti privati (settore finanziario incluso) e quindi vittime di un incentivo a soddisfare i loro desideri.
In Europa tale situazione e’ aggravata dall’appartenenza degli stati ad una moneta unica: se mai uno di essi dovesse dichiarare bancarotta e decidere di non ripagare i creditori, le conseguenze sarebbero difficili da prevedere e potenzialmente molto gravi per tutti. Una ragione in piu’ per rimettere i riga gli stati debitori, attraverso politiche economiche orientate all’austerita’.
Ma proviamo a ricostruire la storia in modo ancora piu’ ampio. Cominciamo con l’accettare quello che e’ successo, ovvero un equilibrio che per molto tempo andava bene a tutti. Nel 1989 crolla il muro di Berlino: i grandi capitali divengono globali e cominciano a bussare piu’ insistentemente alle porte degli stati sovrani. A questi l’idea di emettere ulteriore debito non dispiace: in fin dei conti consente uno stile di vita piu’ alto sia alla classe politica che ai cittadini. Poi, poco a poco, scoppia il boom economico dei paesi emergenti, e con esso la paura che le vecchie economie europee non generino piu’ sufficiente ricchezza per ripagare tutti i debiti contratti.
Di qui l’urgenza da parte degli stati di salvare la propria reputazione e riuscire a ripagare i debiti contratti, racimolando denaro in tutti i modi e nel minor tempo possibile. Denaro da spedire per meta’ all’estero, nelle casse di banche e fondi di investimento di per se’ gia’ straordinariamente ricchi, e di li’ in misura sproporzionata nei conto correnti dei loro amministratori. A ben vedere, i soldi tornano nelle tasche di chi li aveva originariamente prestati, e cosi’ si chiude il cerchio: prima i soggetti economici fanno un sacco di soldi; poi si rendono conto che ne hanno talmente tanti da prestarli in misura sempre maggiore in giro per il mondo, incluso agli stati sovrani; infine li pretendono indietro e sono disposti a farlo a tutti i costi, compreso mettere a repentaglio la tenuta economico-sociale degli stati debitori.
Se le cose stanno cosi’ sembra esserci una sola uscita per gli stati sovrani: affrontare il problema alla sorgente e impedire che i soggetti privati accumulino cosi’ tanta ricchezza in prima battuta. In altre parole: tassare di piu’ le imprese piu’ grandi e i cittadini ultra-ricchi, in tutti i modi e in tutte le forme possibili; limitare i trattamenti fiscali privilegiati nei loro confronti; rimuovere acquisite rendite di posizione e barriere anti-concorrenza; mettere fuori legge i loro comportamenti sconsiderati, in primis le speculazioni finanziarie. In altre parole, regolamentare in tutti i modi l’attuale regime ultra-liberista, che consente una sproporzionata accumulazione della ricchezza generata dal lavoro di tutti nelle tasche di un numero troppo ristretto di soggetti. Credo che solo in questo modo il bene pubblico potra’ liberarsi dal giogo del bene privato, e potremo tornare a forme piu’ civili di convivenza.
C’e’ quindi da accogliere con grande ottimismo e speranza la decisione del presidente francese Francois Hollande di aumentare le aliquote per le classi sociali a cui e’ stata recentemente consentita una tale fuga stellare. C’e’ da augurarsi che Obama possa riuscire a portare gli Stati Uniti, baluardo liberista del mondo, sulla stessa linea politica. C’e’ da brindare per il recente annuncio della prossima introduzione in Europa della Tobin Tax, l’elementare tassa sulle transazioni finanziarie di cui si parla dal 1972 (ben 30 anni ci abbiamo messo, ma finalmente ce l’abbiamo fatta!).
C’e’ invece da preoccuparsi ancora di piu’, a mio avviso, se le politiche di austerita’ degli stati sovrani dovessero impattare i capitali a disposizione dei comuni cittadini e delle normali imprese dell’economia reale, a maggior ragione in un momento di contrazione delle loro attivita’. Una regola fondamentale delle politiche fiscali dovrebbe infatti essere quella di dare la precedenza alla tassazione dei capitali inutilizzati: impianti e immobili vuoti, terreni incolti, soldi fermi in banca, e qualsiasi altro patrimonio che le persone potrebbero utilizzare per fare girare l’economia, in primis quella reale. Tale tassazione fungerebbe da incentivo per mobilizzare questa ricchezza potenziale.
Al contrario, qualsiasi tipo di proprieta’ o asset reale che contribuisce a fare crescere il PIL andrebbe tutelato il piu’ possibile, compresi i soldi pubblici: tagliare i costi di ospedali e scuole non solo impoverisce socialmente il paese, ma impatta economicamente tutte le imprese che lavorano per e con essi.
Non posso saperlo, ma forse gli uomini di potere attualmente al timone di paesi debitori non sono cosi’ liberi nel fare quello che ritengono giusto, ma sono piuttosto “costretti” a fare quello che gradiscono i mercati. Mercati fatti dai ricchi del mondo e sempre pronti a vanificare i loro sforzi attraverso il referendum dello spread.
Sembra che solo alleandosi gli stati sovrani potranno uscire dall’impasse.
Due giorni fa ci sono finalmente riusciti, con la Tobin Tax. Poco a poco sembra che stiano riuscendo a regolamentare anche altri aspetti della gigantesca economia finanziaria globale. L’Europa si sta facendo leader del mondo che cambia. Parte del mondo sta gia’ salpando verso un futuro che promette piu’ equita’ e giustizia.