giovedì 11 ottobre 2012

Il prezzo dell'iniquita': provo a ricostruirne la storia

Il prezzo dell’inequita’. Questo il titolo di un recente libro di Joseph Stiglitz, premio nobel per l’economia che apprezzo sempre per la sua straordinaria capacita’ di rendere comprensibili i complessi fenomeni del mondo odierno e arricchire le mie intuizioni. Il libro mette a nudo lo sbilanciamento di potere e di ricchezza creatosi negli ultimi decenni a favore delle banche, degli operatori finanziari e del top management d’impresa, a discapito di quello che lui e gli attivisti di Occupy Wall Street quantificano nel restante 99% di tutti noi.

Argomenti quanto mai di attualita’ in Europa, anche considerando le proteste sempre piu’ violente dei giovani greci e spagnoli contro i modi in cui i propri governi intendono ripagare i debiti accumulati. Gli anni 90 e 2000 hanno visto una grande trasformazione nei soggetti che si sono fatti prestatori di denaro agli stati: in Italia, per esempio, gli stranieri sono passati a detenere oltre il 50% del debito pubblico (ne detenevano circa il 5% nel 1991), e ben l’85% dell’intero debito e’ ora nelle mani di investitori istituzionali italiani o stranieri, quali banche, assicurazioni e fondi pensione (dati Bankitalia, 2010).

Se in passato obbligazioni e BOT rappresentavano soprattutto la cassaforte dei cittadini italiani, oggi sono per la maggior parte fonte di reddito e di speculazione per grandi soggetti finanziari potenzialmente estranei alla societa’ e all’economia reale del paese. Come tutti i creditori, anch’essi hanno un interesse a far fruttar bene il proprio prestito, e quindi ad una crescita dei tassi di interesse pagati loro dal governo italiano. Questi soggetti potrebbero quindi gradire un aumento del differenziale (“spread”) di rendimento tra i titoli di stato italiani e gli equivalenti tedeschi, e potrebbero addirittura favorirlo attraverso la speculazione e con il possibile aiuto delle agenzie di rating.

L’indebitamento complessivo dello stato italiano, in misura relativa al PIL, e’ raddoppiato tra il 1982 e il 2010 (Dati Min. Economia e Finanze, 2011). Aprendo le porte ai grandi capitali globali, l’Italia e molti altri stati sovrani hanno creato le migliori condizioni per finire sotto ricatto del mondo finanziario, la cui principale e legittima preoccupazione e’ quella di vedere il proprio prestito propriamente ripagato.

Di qui nel 2011 la nomina di Mario Monti in Italia e di Lucas Papademos in Grecia, economisti chiamati a sistemare i conti dei propri paesi. Di qui le rigide posizioni di Angela Merkel, che oltre ad altri motivi ha anche un interesse a proteggere le banche tedesche, molto esposte verso i governi del Sud Europa. Di qui i “referendum” del mercato finanziario ogni volta che i governi sotto osservazione fanno una nuova dichiarazione o azione macro-economica: un aumento dello spread equivale a un NO, una sua diminuzione a un SI’. Di qui i voti di buona condotta emessi dalle agenzie di rating, in teoria super-partes, in pratica finanziate dai propri clienti privati (settore finanziario incluso) e quindi vittime di un incentivo a soddisfare i loro desideri.

In Europa tale situazione  e’ aggravata dall’appartenenza degli stati ad una moneta unica: se mai uno di essi dovesse dichiarare bancarotta e decidere di non ripagare i creditori, le conseguenze sarebbero difficili da prevedere e potenzialmente molto gravi per tutti. Una ragione in piu’ per rimettere i riga gli stati debitori, attraverso politiche economiche orientate all’austerita’.

Ma proviamo a ricostruire la storia in modo ancora piu’ ampio. Cominciamo con l’accettare quello che e’ successo, ovvero un equilibrio che per molto tempo andava bene a tutti. Nel 1989 crolla il muro di Berlino: i grandi capitali divengono globali e cominciano a bussare piu’ insistentemente alle porte degli stati sovrani.  A questi l’idea di emettere ulteriore debito non dispiace: in fin dei conti consente uno stile di vita piu’ alto sia alla classe politica che ai cittadini. Poi, poco a poco, scoppia il boom economico dei paesi emergenti, e con esso la paura che le vecchie economie europee non generino piu’ sufficiente ricchezza per ripagare tutti i debiti contratti.

Di qui l’urgenza da parte degli stati di salvare la propria reputazione e riuscire a ripagare i debiti contratti, racimolando denaro in tutti i modi e nel minor tempo possibile. Denaro da spedire per meta’ all’estero, nelle casse di banche e fondi di investimento di per se’ gia’ straordinariamente ricchi, e di li’ in misura sproporzionata nei conto correnti dei loro amministratori. A ben vedere, i soldi tornano nelle tasche di chi li aveva originariamente prestati, e cosi’ si chiude il cerchio: prima i soggetti economici fanno un sacco di soldi; poi si rendono conto che ne hanno talmente tanti da prestarli in misura sempre maggiore in giro per il mondo, incluso agli stati sovrani; infine li pretendono indietro e sono disposti a farlo a tutti i costi, compreso mettere a repentaglio la tenuta economico-sociale degli stati debitori.

Se le cose stanno cosi’ sembra esserci una sola uscita per gli stati sovrani: affrontare il problema alla sorgente e impedire che i soggetti privati accumulino cosi’ tanta ricchezza in prima battuta. In altre parole: tassare di piu’ le imprese piu’ grandi e i cittadini ultra-ricchi, in tutti i modi e in tutte le forme possibili; limitare i trattamenti fiscali privilegiati nei loro confronti; rimuovere acquisite rendite di posizione e barriere anti-concorrenza; mettere fuori legge i loro comportamenti sconsiderati, in primis le speculazioni finanziarie.  In altre parole, regolamentare in tutti i modi l’attuale regime ultra-liberista, che consente una sproporzionata accumulazione della ricchezza generata dal lavoro di tutti nelle tasche di un numero troppo ristretto di soggetti. Credo che solo in questo modo il bene pubblico potra’ liberarsi dal giogo del bene privato, e potremo tornare a forme piu’ civili di convivenza.

C’e’ quindi da accogliere con grande ottimismo e speranza la decisione del presidente francese Francois Hollande di aumentare le aliquote per le classi sociali a cui e’ stata recentemente consentita una tale fuga stellare. C’e’ da augurarsi che Obama possa riuscire a portare gli Stati Uniti, baluardo liberista del mondo, sulla stessa linea politica. C’e’ da brindare per il recente annuncio della prossima introduzione in Europa della Tobin Tax, l’elementare tassa sulle transazioni finanziarie di cui si parla dal 1972 (ben 30 anni ci abbiamo messo, ma finalmente ce l’abbiamo fatta!).

C’e’ invece da preoccuparsi ancora di piu’, a mio avviso, se le politiche di austerita’ degli stati sovrani dovessero impattare i capitali a disposizione dei comuni cittadini e delle normali imprese dell’economia reale, a maggior ragione in un momento di contrazione delle loro attivita’. Una regola fondamentale delle politiche fiscali dovrebbe infatti essere quella di dare la precedenza alla tassazione dei capitali inutilizzati: impianti e immobili vuoti, terreni incolti, soldi fermi in banca, e qualsiasi altro patrimonio che le persone potrebbero utilizzare per fare girare l’economia, in primis quella reale. Tale tassazione fungerebbe da incentivo per mobilizzare questa ricchezza potenziale.
Al contrario, qualsiasi tipo di proprieta’ o asset reale che contribuisce a fare crescere il PIL andrebbe tutelato il piu’ possibile, compresi i soldi pubblici: tagliare i costi di ospedali e scuole non solo impoverisce socialmente il paese, ma impatta economicamente tutte le imprese che lavorano per e con essi.

Che i Mario Monti del mondo non l’abbiano capito? Che abbiano letto i libri sbagliati?
Non posso saperlo, ma forse gli uomini di potere attualmente al timone di paesi debitori non sono cosi’ liberi nel fare quello che ritengono giusto, ma sono piuttosto “costretti” a fare quello che gradiscono i mercati. Mercati fatti dai ricchi del mondo e sempre pronti a vanificare i loro sforzi attraverso il referendum dello spread.

Sembra che solo alleandosi gli stati sovrani potranno uscire dall’impasse.
Due giorni fa ci sono finalmente riusciti, con la Tobin Tax. Poco a poco sembra che stiano riuscendo a regolamentare anche altri aspetti della gigantesca economia finanziaria globale. L’Europa si sta facendo leader del mondo che cambia. Parte del mondo sta gia’ salpando verso un futuro che promette piu’ equita’ e giustizia.

giovedì 26 luglio 2012

L'altra faccia della medaglia

Dritto in mezzo ai boschi corre il nostro treno in una bellissima giornata di sole. Si inclina leggermente e dalla macchia verde spunta timido il grattacielo della BMW. Siamo gia’ entrati a Monaco di Baviera, ma quasi senza accorgercene: i boschi di conifere e latifoglie si estendono senza discontinuita’ dalle Alpi alla citta’. Una citta’ nascosta nel verde. Scesi dal treno, Monaco si fa immediatamente riconoscere all’olfatto: l’inconfondibile profumo di wurstel profuso dal chiosco piu’ vicino; il singolare odore di gomma di cui sono pervase le stazioni dell’immensa rete metropolitana.

Tutto il resto non sembra essere fatto per violare la sensibilita’ degli abitanti, a cominciare dall’utilizzo ultra-parsimonioso se non inesistente dei clacson delle auto. La natura e’ dappertutto: tra un isolato e l’altro, sistematicamente, spesso piu’ estesa degli edifici stessi; dentro i locali, i famosi bier garten in cui si cena e si beve in mezzo agli alberi; all’Englischer Garden, il piu’ grande parco pubblico d’Europa; dentro le stanze degli alberghi e delle case, dove la fanno volentieri da padrone il legno semplice (dei letti, degli armadi, dei parquet) e il silenzio (anche grazie allo spessore delle pareti).

Passeggio per le vie del centro e penso che  c’e’ qualcosa di speciale in questa citta’ che fa innamorare il visitatore. Non puo’ essere solo l’architettura, mi dico. A parte i bei monumenti principali di Marien Platz e dintorni, la citta’ e’ stata ricostruita dopo la guerra. Piu’ che bella quanto tante altre grandi citta’ europee, Monaco mi appare semplice e poco pretenziosa, nelle connotazioni piu’ positive. Sembra avere una capacita’ di mettere a proprio agio le persone: e’ raramente frenetica, raramente gridata, raramente rimossa dalla quiete della natura. Lo intuisco osservando il comportamento degli abitanti in metropolitana nelle ore di punta: in pochi sembrano andare di fretta, forti della puntualita’ dei mezzi pubblici e della propria capacita’ di pianificazione; mode tedesche a parte, in pochi danno nell’occhio per come sono vestiti, tanto che a volte ti chiedi se sei veramente in una metropoli o piuttosto in una cittadina in mezzo alla campagna. “Un paesino con 1 milione e mezzo di abitanti” dicono i monachesi, in molti orgogliosi del proprio provincialismo. Sorseggiando litri di birra all’ombra dei castagni dei bier garten, i bavaresi inneggiano “Ein Prosit, der Gemütlichkeit!”, “Un brindisi, l'agiatezza!”. Lo fa pure il direttore dell’orchestra del famoso Hofbräuhaus, alzandosi in piedi, con fare pacato e modesto.

Parlo con i monachesi e mi confronto ulteriormente con l’immagine che hanno di se’ stessi: piace loro pensare a Monaco come la citta’ piu’ a nord d’Italia e alle montagne della Baviera come una “terrazza” sul Mediterraneo. Sembrano guardare a Sud piuttosto che a Nord: chi me lo fa fare di andare a Berlino o sul mare del Nord, se con le stesse ore di macchina arrivo in Toscana o in Piemonte?  Perlomeno queste sono le preferenze di un collega. Secondo lui, l’attitudine relativamente rilassata dei bavaresi e’in parte dovuta all’essere cattolici invece che protestanti: vuoi mettere avere l’opportunita’ di confessarsi, piuttosto che dovere rispondere delle proprie azioni direttamente a Dio?

In realta’, i bavaresi come d’altronde molti altri tedeschi danno l’impressione di prendere la vita tutt’altro che alla leggera, ma molto sul serio. Mi torna in mente un amico monachese che rimproverava al commentatore televisivo delle partite della nazionale tedesca di essere troppo “emozionale”, come se esprimere le proprie emozioni fosse un atteggiamento socialmente sconveniente, al contrario della freddezza di carattere. Combattendo l’imperfezione nelle sue molte forme, molti tedeschi mancano di auto-ironia, ma piuttosto privilegiano disciplina e severita’. Molto impegnati a pianificare e a tenere in perfetto ordine la propria vita e le proprie cose, a volte danno l’impressione di vivere poco il presente per cosi’ com’e’. In misura maggiore di quanto non lo siano molte persone in altri paesi, sembrano sintonizzati sul canale dell’“io devo” piuttosto che su quello dell’”io voglio”, vittime di un fardello di doverizzazioni che grava sulla propria spensieratezza e forse quindi anche sulla felicita’.

E’ forse per questi motivi che ai monachesi piace pensare alla loro citta’ come a quella piu’ a Nord d’Italia? Forse vorrebbero essere un po’ di piu’ come gli italiani? Forse si’, un po’ come noi italiani che spesso vorremmo essere piu’ simili a loro (a maggior ragione nel vicino Nordest, che piu’ ne risente dell’influsso). Quel di cui piu’ mi lamento ultimamente e’ il fatto che in Italia, pur esistendo, le leggi non vengano fatte rispettare: perche’ mai il mio vicino deve parcheggiare ogni giorno in sosta vietata e non prendere mai una multa? La sua macchina ostruisce la visuale e potrebbe causare incidenti. Poche multe, poca preoccupazione. In Germania: multe garantite, molta severita’, e grande attenzione da parte di tutti nel rispettare le regole. A loro non viene concesso di sbagliare, e hanno una societa’ piu’ ordinata, ma anche molto piu’ seria. A noi viene concesso di fare quello che ci pare, e abbiamo una societa’ piu’ anarchica, ma anche piu’ spensierata. Loro (forse) invidiano noi perche’ piu’ rilassati, noi (forse) invidiamo loro perche’ piu’ civili. Loro (a volte) ci invidiano perche’ piu’ vivaci e alla moda, noi (a volte) li invidiamo perche’ piu’ affidabili e precisi. Loro potrebbero invidiare l’architettura e l’arte dei nostri centri storici, noi il verde e trasporto pubblico delle loro citta’. Ne’ noi ne’ loro raggiungiamo la perfezione, ma forse non ci rendiamo conto che siamo gia’ perfetti cosi’?

Di questi tempi di battaglie economiche tra una Germania “forte” e un’Italia “debole”, che sembrano rinforzare preesistenti complessi di superiorita’ o inferiorita’, forse aiuterebbe essere piu’ consapevoli delle tante altre facce della medaglia e dell’utopismo della perfezione. Ci aiuterebbe ad accettarci per come siamo, e forse anche ad imboccare la strada del miglioramento.

martedì 5 giugno 2012

Mondo monopolio

Finestre; mela; libro delle facce; io-telefono; io-tavoletta; cultura veloce; amazzone.
Vale a dire: Windows, Apple, Facebook, i-Phone, i-Pad, Wikipedia, Amazon. Parole molto concrete che utilizziamo tutti i giorni, riferendoci a nuove tecnologie frutto dell’inventiva e del pragmatismo americani.
E anche frutto della globalizzazione, che ha spianato loro la strada per conquistare buona parte dei mercati del mondo.

Trovo su Wikipedia la lista delle 186 aziende piu’ grandi del mondo per quantita’ di revenue lorde. Ho un momento di smarrimento nel tradurre “revenue” in italiano, devo andare su Google e digitare “revenue italiano traduzione” (si dice entrate, lo sapevo). Conto ad occhio 53 aziende americane e 71 aziende europee, nonostante il frastuono mediatico sul declino economico dell’occidente e l’inarrestabile ascesa dei paesi emergenti. Curioso poi nel ranking delle universita’ mondiali considerato piu’ autorevole, l’Academic Ranking of World Universities: 29 dei primi 40 istituti sono statunitensi.

Mi avventuro alla ricerca delle cause di tali concentrazioni di ricchezza e di conoscenza. Se il mondo fosse considerato un unico mercato (e lo e’ sempre di piu’), ci troveremmo probabilmente di fronte a condizioni di monopolio, ovvero scarsa concorrenza nella fornitura dei beni e dei servizi. Situazione piuttosto paradossale se consideriamo che i monopoli dovrebbero essere considerati un nemico da combattere da parte degli economisti pro-globalizzazione. Wikipedia, questa volta in italiano, mi propone 4 possibili motivi all’origine dei monopoli:

- esclusivita’ nell’accesso alle materie prime e ai fattori di produzione.
Penso alle universita’ americane, che con grande merito attraggono i ricercatori piu’ produttivi di tutto il mondo;
- economie di scala e di scopo, attraverso cui le imprese sono in grado di aumentare i volumi ed estendersi a prodotti contigui senza un proporzionale aumento dei costi.
Mi viene in mente Amazon, che cominciando dalla rivendita on-line dei libri in USA, ha poi espanso le proprie rivendite a molti altri paesi del mondo, aggiungendo anche CD, DVD e molto altro;
- brevetti, ovvero concessioni di esclusivita’ nella commercializzazione delle invenzioni.
Penso al conteso accordo internazionale “Trips” del 1994, che ha facilitato il rispetto dei brevetti nei paesi del mondo aderenti all’Organizzazione Mondiale per il Commercio. Penso all’inarrestabile crescita del numero di brevetti concesso dall’autorita’ USA competente, nonche’ al ruolo sempre piu’ importante giocato dai brevetti nelle strategie industriali delle multinazionali;
- licenze governative, per lo sfruttamento dei beni pubblici.
Penso a quelle che ciascun paese concede agli operatori televisivi o radiofonici, attraverso la cessione delle frequenze di trasmissione.

Ce ne sono altre, ma mi limito ad aggiungere una sola ulteriore ragione a monte dei monopoli:

- fusioni o acquisizioni industriali.
Penso ai giganti Facebook e Google e alla loro facilita’ di assorbimento delle start-up piu’ innovative nei settori digitali. E non solo delle start-up: si al recente acquisto da parte di Google di Motorola Mobility, motivato anche dal fatto che quest’ultima fosse in possesso di un portafoglio brevetti che consente ora a Google di competere nei settori “mobile”.

Discorso sulle licenze governative a parte, la globalizzazione in atto sembra quindi accelerare tutti gli altri fattori propedeutici i monopoli.
E’ anche merito di Internet e della convergenza dei settori tecnologici: la facilita’ di integrazione di prodotti diversi fatti pero’ tutti di bits facilita le acquisizioni e le espansioni di scopo. L’economia globale sta diventano troppo concentrata? L’Unione Europea crede di si’, per lo meno a  giudicare dalle battaglie legali che sta conducendo contro i nuovi monopolisti d’oltreoceano. Si pensi a quella attuale contro Google, che provvede all’85% delle ricerche on-line degli Europei. L’India e molti paesi in via di sviluppo, invece, se la prendono con le multinazionali farmaceutiche: i loro brevetti impediscono la nascita di concorrenti locali per la fornitura di medicinali fondamentali. In USA la percezione del problema sembra diversa: negli ultimi decenni la de-regolamentazione generale dell’economia sembra avere favorito i processi di concentrazione, cavalcando la filosofia meritocratica secondo cui devono esserci meno regole possibile affinche’ vinca chi e’ veramente piu’ forte.

Un’importante argomentazione a favore delle multinazionali e’ che i monopoli di cui esse beneficiano si traducono in vantaggio per i consumatori. Grande scala e grandi profitti sarebbero garanzia di qualita’, professionalita’ e sufficienti risorse per le innovazioni e progetti piu’ ambiziosi. Questo puo’ essere anche vero (posti i necessari distinguo), ma resta il fatto che un sistema di questo tipo possa “prosciugare” il mercato del lavoro globale. Se tutto il lavoro da fare nel mondo (e il profitto che ne deriva) si concentra nelle mani di un piccolo numero di multinazionali, come si puo’ garantire la creazione in massa di posti di lavoro per una popolazione mondiale che ha ormai raggiunto i 7 miliardi?
Il problema e’ esacerbato dal fatto che nei nuovi settori digitali e dell’hi-tech, il lavoro viene fatto  soprattutto dagli algoritmi piuttosto che dalle persone. E’ impressionante costatare che un’azienda come Facebook che e’ appena stata quotata in borsa con un valore stimato di 104 miliardi di dollari, dia lavoro a poco piu’ di 2000 persone.

Credo che di queste dinamiche si legga troppo poco nella stampa e nelle pubblicazioni specialistiche. Al contrario, forse troppi economisti si occupano delle economie nazionali in competizione tra di loro, privilegiando la chiave di lettura del PIL. Molta microeconomia si concentra sull’analisi della competitivita’ delle imprese sui mercati dei beni e dei capitali, piu’ raramente delle ripercussioni dei loro comportamenti sul mercato globale del lavoro. I monopoli vengono ancora troppo spesso problematizzati sul piano nazionale, piuttosto che globale, con la situazione contraddittoria per cui gli stessi economisti liberisti che promuovono lo smantellamento dei monopoli nazionali pubblici, tollerano o addirittura sostengono i monopoli globali privati.

Sono poi da considerare le conseguenze sul piano della produzione culturale. Nella sua “corsa disperata” per la saturazione del mercato (cosi’ la definisce un blog della rete), la Sky Television di Robert Murdoch ha finito per schiacciare i produttori indipendenti. In un’economia globale di questo tipo gli operatori economici piccoli e alternativi possono trovarsi di fronte a una scelta difficile: o si allineano con le strategie industriali dei grandi (puntando per esempio ad essere acquisiti o partecipati), o rischiano di non trovare alcuno spazio di mercato. Lo stesso dilemma si pone a molte start-up e imprese di successo, in tutti i settori: stando ai numeri recentemente proposti dall’Economist, sempre piu’ si preferisce farsi acquisire da un grande gruppo piuttosto che la quotarsi in borsa come azienda indipendente.

Ritengo infine che occorra rimettere in discussione il concetto di monopolio cosi’ come e’ stato utilizzato finora. Se continuiamo ad associare prezzi alti e qualita’ bassa come principali sintomi negativi dei monopoli, potremmo non accorgerci piu’ di loro. Se i  suoi brevetti escludono i concorrenti, il monopolista Google non puo’ che offrire una qualita’ a prima vista imbattibile. Oltretutto si tratta di un servizio gratuito per i consumatori, quindi perche’ mai dovrebbe essere un problema?
I problemi a mio avviso vengono alla luce quando allarghiamo il focus delle nostre considerazioni economiche. Non dimenticandoci che l’economia e le persone hanno anche bisogno di lavoro, oltre che di consumo. Considerando le singole decisioni micro-economiche in relazione al macro-quadro economico globale, non solo come fini a se’ stesse.

giovedì 19 aprile 2012

Capitale globale contro esigenze locali

Non glielo avessi mai detto. Ma forse lo avrebbe fatto lo stesso. L’autista sfreccia spericolato sui viali di Milano, cercando di non farmi perdere il treno. In un battibaleno siamo gia’ in stazione Centrale: scendo e mi affretto verso i binari al piano superiore. Fine della corsa: un’enorme scala mobile fiancheggiata di negozi si para sulla mia strada, non sale dritta ma in uno strano e lunghissimo zig-zag. Cerco le indicazioni dell’ascensore, ma non le trovo. Non mi resta che prendere l’improbabile nastro, che mi costringe ad ammirare le diecine di nuovi negozi di questa stazione ferroviaria recentemente tramutata in centro commerciale.

Arrivato al binario, scopro che il treno e’ in ritardo. Poco male, mi dico, ne approfitto per comprare uno di quei eccezionali panini che vende il supermercato sui primi binari. Mi giro e scopro a malincuore che la rivendita di panini e’ sparita: al suo posto, Geox. Rimango colpito da come le ragioni commerciali siano riuscite a prevalere su ogni logica di buon senso: in una stazione ferroviaria dovrebbero avere precedenza le vie di accesso e deflusso dai treni, non da ultimo per ragioni di sicurezza. Le rivendite di bibite e panini rispondono a un bisogno immediato dei viaggiatori; assumo che chi prende un treno sia gia’ dotato di scarpe…

A proposito di scarpe. Sono in cerca di un nuovo paio nel centro di Padova. Finisco in una bottega storica di corso Vittorio Emanuele. Il titolare chiacchiera e mi racconta di come molti negozi del centro siano a rischio estinzione: arrivano i grandi marchi con tanti soldi e si comprano i loro spazi. Sommariva, bellissimo caffe’ e pasticceria storica, ha appena venduto a Tommy Hilfinger, e la stessa fine potrebbero farla presto i colleghi di Baessato. A suo tempo, Ricordi Media Store, storico negozio di musica, aveva gia’ ceduto a Prada. Beni di lusso e di alto profilo scalzano esercizi commerciali orientati alla socializzazione e alla cultura.

In assenza di politiche di contenimento e di visioni alternative sembra che nel mondo odierno tutto sia destinato a soccombere a logiche esclusivamente commerciali. I grandi capitali hanno talmente “bisogno” di essere investiti, che in assenza di paletti spazzano qualsiasi resistenza. Potrebbe andare bene se queste dinamiche fossero allineate con i bisogni piu’ importanti della maggior parte della popolazione, nel rispetto e nella valorizzazione del patrimonio culturale e ambientale. Non e’ questo il caso il piu’ delle volte: aree verdi su cui si potrebbero costruire parchi a beneficio di tutti vengono sacrificate ad enormi edifici contenenti moderni uffici, negozi, residenze e hotel, che non si capisce quanto possano essere utilizzati e da chi. Il tutto si trascina dietro altrettanto enormi vie di accesso, strade, rotonde, ponti, parcheggi, stazioni di servizio e di ristoro. I committenti sono sempre piu’ spesso i grandi gruppi multinazionali, distanti dal territorio e pilotati da un’urgenza di crescere ad ogni costo per soddisfare ancora piu’ lontani investitori e portatori di interesse. Si concorre per il portafoglio dei cittadini: fatta 100 la capacita’ di spesa dei visitatori di Padova, i pochi giganti globali competono direttamente con le molte botteghe locali, prefigurando uno scenario per cui se prima del profitto totale beneficiavano in 100, adesso ne beneficiano in 10. Posto che il cambio di offerta commerciale puo’ impattarne la domanda: non trovando piu’ Sommariva e Baessato in molti potrebbero rinunciare alla socializzazione dell’aperitivo; trovando Prada in pochi si concederanno una borsa di lusso.

Sembra quindi che l’entrata dei grandi marchi multinazionali nelle economie locali abbia, tra molte altre, due conseguenze importanti: da una parte la concentrazione dei profitti in meno tasche, frontiera elitistica del capitalismo che si auto-alimenta (saranno le stesse elite che poi acquisteranno da Prada); dall’altra l’allontanamento della nuova offerta commerciale dai bisogni e dalla cultura del territorio. La logica commerciale di molte imprese multinazionali a partecipazione azionaria e’ puramente quantitativa: se il proprietario di un’attivita’ locale potrebbe preoccuparsi delle tante qualita’ della propria citta’ (se non altro perche’ vi ci risiede), gli stakeholders lontani potrebbero essere esclusivamente preoccupati che cresca il valore delle proprie azioni (se un’azienda quotata non cresce potrebbe presto essere venduta o fallire).

Un’altra possibile conseguenza di tale orientamento esclusivo ai volumi e’ che le aree urbane vengano sempre preferite alle altre per ogni tipo di investimento commerciale. Piu’ la citta’ e’ grande, piu’ ci sono soldi da fare, piu’ e’ interessante. In assenza di interessi personali da parte del potenziale investitore, piu’ una citta’ e’ piccola, piu’ diventa irrilevante. Ed e’ anche forse per questo motivo che il divario tra centri e periferie incrementa sempre di piu’, e lo sviluppo del mondo odierno e’ sbilanciato verso le grandi aree metropolitane. Stando ad alcune stime, nel 2050 il 70% della popolazione mondiale potrebbe vivere all’interno di una qualche urbanizzazione.

Come prevedibile, inoltre, il fenomeno di espropriazione di risorse e infrastrutture locali da parte dei capitali globali non si limita ai settori commerciali. Intacca anche il settore abitativo: acquisendo immobili nelle localita’ piu’ desiderate e prestigiose, le elite mettono fuori mercato le popolazione locali. Basti pensare a molte giovani coppie di Venezia, Cortina o Parigi: sarebbero felici di costruire famiglia nelle loro citta’, ma sono costretti a farsi da parte per i prezzi troppo alti pagati da persone benestanti non locali che cercano un pied-à-terre da utilizzare poche volte l’anno. A riprova della lontananza del capitale globale dai bisogni del territorio.

A questo punto, la soluzione sembra ovvia: ci vuole piu’ politica, piu’ norme per tutelare il territorio. Citta’ e regioni dovrebbero alzare i paletti e dotarsi di una nuova vision del futuro. Non fosse altro promuovendo esercizi commerciali che fondono tradizione locale e nuove sensibilita’, come la boutique “Ethik kusst Asthetic” (“L’etica bacia l’estetica”) in cui mi imbatto nel cuore di Zurigo, o il negozio d’abbigliamento “Natura” che scopro a Santiago di Compostela. Il problema sembra essere quello che molte amministrazioni locali non vedono molte altre opzioni per fare cassa e creare nuovi posti di lavoro che non quella di aprire le porte ai capitali globali. Capitali che a volte arrivano da attivita’ illegali in altre zone del mondo, e hanno un’urgenza di essere smaltiti. Quello che leggo e’ che dietro parte della cementificazione in corso in regioni italiane quali il Veneto, la Lombardia o il Lazio si nascondono anche i soldi delle mafie meridionali. Dietro parte dei bar rilevati da cittadini cinesi, si potrebbe nascondere il denaro della mafia cinese. In Spagna si parla ormai di “ghost towns”, costruite dalla bolla immobiliare e per nessuno. Nei paesi emergenti e in via di sviluppo, lo stesso problema potrebbe assumere dimensioni colossali. Purtroppo, con la svendita del territorio si sancisce la definitiva sconfitta sia della politica che dell’economia: la prima perche’ non tutela e non offre visioni alternative; la seconda perche’ non risponde a nessun tipo di bisogno, contro ogni logica di buon senso.

Il paradosso e’ che con tutti questi nuovi edifici e strade scintillanti in molti siamo portati a credere che si stia andando nella direzione giusta, quella dell’”inevitabile” modernizzazione. Nessuno vuole negare che, nella giusta dose, l’architettura e il design moderni non portino nuova bellezza, energia e vitalita’ alle nostre citta’. Nei modi corretti, le grandi catene commerciali contribuiscono ad abbassare i prezzi per i consumatori, elevare un certo standard di servizio e creare lavoro nei paesi piu’ poveri del mondo. Se ben utilizzata, una certa concentrazione di capitale nelle mani di pochi puo’ diventare massa critica per le grandi innovazioni del futuro, piuttosto che per fondazioni culturali o iniziative umanitarie. Il punto, a mio avviso, e’ proprio questo: nei giusti modi e nella giusta misura. E con grande sensibilita’ culturale ed etica.

Capitale globale? Si’, ma come, dove e quando decido io, il territorio. Nel frattempo, consoliamoci nel fatto che, da quel che sembra, tutto il mondo sia nella stessa barca: se e’ vero che se non controllati i capitali globali possono giocare a sfavore dei singoli territori, e’ anche vero che i capitali globali, per definizione, uniscono e accomunano il mondo. Se oggi non abbiamo guerre mondiali, forse e’ anche e soprattutto merito della globalizzazione.

venerdì 3 febbraio 2012

Sotto le ali del Cristo

E’ ormai notte fonda. Lancio un ultimo sguardo fuori dal finestrino prima di chiudere la tendina e cercare di dormire qualche ora. Sotto di noi il porto algerino di Orano disegna eleganti geometrie di luci. Sullo sfondo, il bagliore delle coste andaluse: il nostro aereo sta spaccando Africa e Europa, in una corsa forsennata verso Dakar, l’Atlantico Meridionale, Recife e, come meta, Rio De Janeiro.

Dalla pista di atterraggio si ha un primo assaggio della magnificenza dello scenario naturale: la Serra da Mantiqueira cinge pedissequamente l’area metropolitana di Rio; il suo profilo e’ cosi’ fitto e seghettato che ricorda le montagne disegnate da un bambino. Circumnavigando la Baia de Guanabara, il taxi mi conduce a Santa Tereza, quartiere del centro citta’ abbarbicato su una collina. Mi lascio sorprendere dal suo flavour tutto speciale quanto improbabile, una sorta di “decadenza eclettica tropicale”: vecchie ville barocche e nuove baracche in lamiera costellano un angolo immutato di foresta tropicale, pregnante negli odori, nella luce e nei suoni che emana.

Esco dalla pousada in infradito e maglietta consunta, conformandomi al vestire semplice e spesso misero di buona parte della popolazione locale. Oggi e’ domenica ed e’ l’unico giorno a mia disposizione per esplorare la citta’. Da domani affianchero’ una delegazione della Banca Mondiale, per avviare una collaborazione sui temi del trasporto sostenibile tra lo Stato di Rio de Janeiro e il laboratorio di MIT per cui lavoro. Ancora frastornato dal viaggio, mi immolo nelle consacrate spiagge di Copacabana e Ipanema, dove continuano ad affluire gli abitanti delle due sovrastanti favelas. Il litorale e’ tripudio di vita, trasuda dell’energia di quel mondo che noi occidentali chiamiamo “in via di sviluppo”: ragazzi, famiglie e tanti bambini si precipitano e si accalcano in ogni tipo di divertimento. In acqua, sulla sabbia, sulla passeggiata lungomare, sugli scogli. La folla e’ immensa, il vociare assordante. Il melting pot delle tanti sezioni di spiaggia mi ricorda che cosa e’ veramente il mondo.

Sono quasi le nove e mezza, e io sono ancora bloccato dentro un taxi nella downtown di Rio. Nell’ultimo quarto d’ora abbiamo percorso 20 metri, presumibilmente a causa dei lavori in corso. Scendo esasperato, chiamo l’organizzatrice della missione per comunicare il ritardo, corro verso la sede dell’Estado do Rio de Janeiro. Solo per scoprire che non e’ arrivato ancora nessuno. Sono tutti in ritardo. I partecipanti alla nostra prima riunione arriveranno a singhiozzo nel corso dell’ora e mezza successiva, con calma e con grandi abbracci per tutti. Scopro la fluidita’, l’imprevedibilita’ e il vivere alla giornata del Brasile. Si entra in ufficio come si entra in casa, ricercando il calore e l’informalita’ di una grande famiglia. Perlomeno negli uffici pubblici di Rua Mexico.

Non serve molto tempo per cogliere la vastita’ delle trasformazioni e delle sfide che stanno investendo questo angolo di mondo. La principale preoccupazione degli esperti di urbanistica e trasporti che incontro e’ la “governance” dell’area metropolitana di Rio, ovvero come pilotare lo sviluppo di una citta’ diffusa che gia’ ospita oltre 11 milioni di abitanti. E’ il settore privato quello che traina la crescita: la recente scoperta del petrolio sottomarino al largo della costa, insieme alla costruzione di nuovi poli siderurgici e petrolchimici (da parte di multinazionali alla ricerca di normative ambientali meno stringenti di quelle occidentali), richiama immigrazione non qualificata e genera insediamenti abitativi spontanei come quelli delle favelas. Al settore pubblico non resta che rincorrere queste dinamiche, costruendo case, ospedali e scuole al servizio dei nuovi insediamenti, e aprendo nuove direttrici geografiche intorno alle quali progettare il futuro sviluppo.

C’e’ pero’ un problema di disincronia tra tempi del mercato e tempi della pianificazione: le esigenze produttive non aspettano i piani regolatori, e se necessario si corrompono i funzionari governativi. La tecnologia, le competenze e l’univocita’ di scopo delle multinazionali battono sui tempi i processi decisionali partecipativi e (spesso) l’impreparazione delle pubbliche amministrazioni. A pensarci bene, potrebbe essere uno dei motivi per cui il dibattito sulle “smart cities” sta prendendo cosi’ piede in tutto il mondo in via di sviluppo: si tratta anche e soprattutto di imprese multinazionali che costruiscono dal nulla citta’ pensate in funzione delle proprie esigenze, sopperendo a un deficit del settore pubblico. Una mancanza non solo di velocita’ ma anche, spesso, di denaro: rimango impressionato di fronte ai budget messi a disposizione della Banca Mondiale per lo Stato di Rio de Janeiro, per guadagnare una qualche capacita’ di regia dello sviluppo, ma a volte solo per tappare i buchi creati dal mercato. Il risultato assomiglia sempre piu’ a un patchwork o pot-pourri: megalopoli che crescono alla velocita’ della luce attraverso spinte dal basso piuttosto che come frutto di un progetto, intervallando grattacieli a baraccopoli. In un paese poco abituato alle segregazioni spaziali e razziali come il Brasile, il contrasto e’ onnipresente.

E’ mercoledi’, sono le 11 di mattina e io sto per intraprendere la mia ultima visita sul campo. Appuntamento a “Central do Brasil”, la stazione centrale di Rio, per montare sul treno suburbano diretto al Complexo do Alemão. Si tratta di un insediamento di 5 comunidades – parola che si vuole sostituire a favelas – che dal 2010 vivono in relativa tranquillita’ sotto occupazione militare. Prima del successo del programma UPP (Unidad de Policia Pacificadora) molte persone vi circolavano solo se munite di 1 o 2 fucili al collo: il controllo dei narcotrafficanti sulla comunita’ era assoluto. L’esperienza del breve viaggio in treno e’ commovente: solo il rumore della vecchia ferraglia e le grida dei venditori di caramelle rompono il silenzio senza speranza dei poveri e dei disperati di ogni sorte che popolano i vagoni. L’umanita’ dell’esperienza e’ dirompente e non posso trattenermi dal pensare a quanto illusoria sia la maggior parte dei nostri problemi di persone agiate di fronte a tali realta’. La tragedia e’ che, nei paesi ricchi, nostro malgrado, non ce ne rendiamo conto. Per un istante si ha la sensazione di mettere i piedi per terra.

Scesi dal treno, mi aspetta un giro in funivia. Non potevo sottrarmi dal montare sulla “periferica do Alemão”, una delle piu’ grandi innovazioni trasportistiche e sociali a cui riesco a pensare; gli occhi del mio accompagnatore brillano di orgoglio e di entusiasmo. Copiata da Medellin in Colombia, la funivia collega le 5 colline che ospitano le 5 favelas con altrettante fermate. Consente di risparmiarsi percorsi in salita e a zig-zag che a piedi richiedevano ore, se non mezze giornate per gli abitanti delle comunita’ piu’ interne. La linea e i piloni spaccano i centri abitanti in due meta’ speculari, rendendoli piu’ facilmente monitorabili e sbrogliando l’intrico urbanistico che li rende cosi’ vulnerabili alla soggiogazione malavitosa. La mia visita e’ breve, e’ gia’ ora di rimontare in treno. Osservo la statua del Cristo Redentore che domina la citta’ da ovunque gli si rivolga lo sguardo. Ora sembra assumere tutta un’altra valenza.

Lascio il Brasile travolto dal samba del taxi per l’aeroporto. La mattina successiva sono gia’ a Parigi Charles de Gaulles, e quindi in Italia. Mi si chiede in tono preoccupato se sto bene, e io domando perche’. Apprendo che alle 8 di sera del giorno precedente e’ crollato un vecchio grattacielo della downtown di Rio, trascinandosene giu’ altri due. A due isolati dal vecchio edificio di Rua Mexico dove fino a due ore prima c’ero dentro anch’io. Ringrazio anch’io il Cristo Rendentore e dedico un ultimo pensiero all’incredibilta’ e improbabilita’ di questa metropoli: “con nessun’altra citta’ al mondo sono state la natura e l’uomo cosi’ generose che come a Rio De Janeiro” dicono i carioca. Distillato di sublimazioni e di paradossi del mondo.