sabato 21 febbraio 2009

Cosa significa essere occidentali?

Il viaggiare mi ha insegnato che per capire te stesso devi immedesimarti nell’altro.
Attraverso le esperienze di vita in altri paesi europei, mi sembrava di cogliere l’essenza dell'essere italiano; in America per la prima ho creduto di capire cos’era l’Europa; durante il mio soggiorno lavorativo a Milano ho scoperto il Veneto senza metropoli. Mi e’ rimasta la curiosita’ di scoprire l’occidente attraverso un’ esperienza di vita al di fuori dei suoi confini, magari in Asia o in Africa.

Poi e’ capitato che dopo tanto tempo, grazie alle sollecitazioni di Jenny, ho ripreso a leggere romanzi e attraverso di essi mi sono immedesimato in modi di vedere la vita lontani dal mondo occidentale consumistico. Il cacciatore di aquiloni, sull’Afghanistan; La citta’ della gioia, sull’India; Neve, sul mondo musulmano. Prima, risultava difficile immaginarsi che addirittura 4 su 5 persone al mondo potessero condurre una vita tanto diversa dalla nostra, senza doccia, senza macchina, senza educazione ne’ informazione. Senza riuscire a vederseli ne’ immaginarseli era come se non esistessero: ma dove sono tutti questi poveri del mondo?

Quello che piu’ mi ha colpito dalle letture e’ una singola dimensione del rapporto tra mondo moderno e “resto del mondo”: la dimensione dell’individualismo.
In occidente tutto e’ possibile: godere delle comodita’ e dei piaceri di qualsiasi tipo di bene materiale; conoscere e apprezzare il mondo attraverso la cultura e l’esperienza diretta.
La nostra vita e’ piena di cose da fare ed e’ fantastica per questo. Ma forse ci lascia poco tempo per amare, nel senso di prendersi cura degli altri e della natura oltre che di noi stessi, senza aspettarci nulla in cambio.

Un proverbio indiano recita: “tutto quello che non e’ dato, e’ perso”.
Completamente controccorente rispetto alla logica materialistica, peraltro comprensibile, dell’accumulazione. In un regime di competizione, tipicamente sul lavoro, le persone pensano alla propria posizione a discapito degli altri, che finiscono per diventare seccatura (se ci chiedono di fare qualcosa per loro) e termine di paragone (sono meglio o peggio di noi?), se non minaccia e ostacolo ai nostri fini. Forse e’ proprio questo piu’ di altre cose che il mondo “povero” ci recrimina: la capacita’ di rinunciare, per dare agli altri.

La gioia altruista arriva dalla condivisione e dalla fratellanza, il sentirsi uguali a dei “fratelli” piuttosto che superiori o inferiori a degli “estranei”. Il dare finirebbe per distrarsi dalle nostre sofferenze di autocentrati. Invece per noi occidentali la vita e’ cosi’ sofisticata e piena di cose da fare, che finiamo per essere immersi nei nostri pensieri. E' forse straordinariamente difficile non diventare prigionieri delle cose da fare e di quelle che abbiamo, nonche’ delle altre persone (dell’ansia di prestazione verso di loro). Non perdere il senso e la bellezza delle “piccole” cose:
di un sorriso, dell’acqua della doccia, di una parola, di un colore. Il costruito e la tecnologia onnipresente si frappongono tra noi e la natura, i medicinali ci mettono in fuga da qualsiasi forma di sofferenza.

E’ come se fossimo anestetizzati.
E’ inevitabile, ed e’ giusto che sia cosi’ (non credo si possa pretendere tutto dalla vita), ma forse e’ proprio questo che salta agli occhi di noi nel resto del mondo. Mentre in occidente non abbiamo piu’ tempo da sacrificare per fare figli. Mentre guardiamo alla loro miseria e al loro degrado e non riusciamo a capacitarci di come un essere umano possa vivere in quelle condizioni.
Abbiamo progresso, cultura e benessere, e credo dobbiamo goderceli con orgoglio e senza sensi di colpa. Ma nella consapevolezza che la vita resta qualcosa di straordinariamente piu’ grande, che offre strade alternative, e forse piu' semplici, alla felicita'.

giovedì 12 febbraio 2009

Diario di Leo: i primi due mesi


Poco più di due mesi fa è nato Leonardo e sono stata talmente assorbita da lui che solo adesso riesco a fermarmi per pensare a quanta ricchezza c’è stata in quest’ultimo periodo della mia vita.
Appena l’ho visto in sala operatoria ci ho messo un po’ a riconoscerlo: l’avevo immaginato così tante volte quando era nella mia pancia, avevo pronunciato così tante volte il suo nome che adesso dovevo imparare ad associare l’immagine che mi ero fatta di lui con quell’esserino che mi guardava con aria interrogativa. E soprattutto dovevo imparare a capire che non era più parte integrante di me ma era un individuo autonomo che da quel momento cominciava il suo cammino nella vita.
I primi giorni a casa mi chiedevo come avrei fatto a capire quello di cui aveva bisogno ma poi mi sono messa dal suo punto di vista e ho pensato che per lui era ancora più difficile. Aveva aperto gli occhi in un mondo sconosciuto e gli unici suoi punti di riferimento erano la mia voce e il suono del battito del mio cuore che gli ricordavano il periodo passato in pancia e che erano gli unici strumenti che avevo per comunicare con lui: il calore e l’amore della sua mamma era ciò di cui aveva bisogno e abbracciarlo e parlargli l’avrebbero fatto sentire al sicuro e non da solo nella sua nuova avventura.
Adesso Leonardo ha iniziato a conoscere i suoi bisogni, ha acquisito più sicurezza e può iniziare ad investire le sue energie nello scoprire nuove forme di comunicazione: i primi versetti con cui cerca di instaurare una relazione con chi gli sta vicino, i capricci con cui ha capito di poter ottenere quello che vuole, i sorrisi che mi illuminano la giornata.
Ha iniziato anche a capire che il mondo è un luogo pieno di suoni, colori, luci, sensazioni tutte da scoprire: a volte fissa un oggetto per un tempo indefinito, altre volte il suo sguardo si muove frenetico per cercare di cogliere più cose possibili.
Quando lo guardo e penso alla meraviglia di una vita che è appena iniziata mi sento privilegiata per avere la possibilità di “ripartire da zero”, di riscoprire il mondo dal principio e rivedere tutto quello che a volte ci sembra “normale” e scontato attraverso i suoi occhi, gli occhi dello stupore.

martedì 10 febbraio 2009

Idee radicali per problemi radicali?

Stamattina alla CNN mi e’ sorpreso ascoltare questo intervento di Obama: “Senatori, non abbiamo bisogno di un decreto di 4 miliardi di dollari per salvare gli equilibri politici, ma piuttosto per creare 4 milioni di posti di lavoro”.
Ha molto senso, ho pensato, la gente prima di tutto.
Ma perche’ pensare che il sistema economico cosi’ com’e’ possa generare posti di lavoro solo perche’ puo’ contare sui soldi che gli presta il governo? Se la pentola ha delle falle, l’acqua che tu ci butti da sopra, la dovrebbe perdere da sotto, come un colabrodo.

In linea generale, se le quotazioni di banche e industrie automobilistiche sono in calo, calera’ progressivamente anche il valore dei soldi che vengono loro prestati, a maggior ragione se sottoforma di azioni. Inoltre, se un’azienda si riduce a elemosinare i soldi al governo, significa che deve essere veramente in crisi, e quindi tutti si affrettano a venderne le azioni, accentuandone la caduta.
Sembra la stessa storia di Alitalia, ma su scala globale?
Certo, un prestito puo’ avere mille vincoli e, nel caso delle banche, potrebbe proprio essere finalizzato a liquidare i "toxic assets" responsabili della crisi, possibilmente ristabilendo la fiducia degli investitori. Forse...

In ogni caso, l’ “understatement” o verita’ ovvia di cui pochi parlano l’ha forse detta il premier messicano Calderon lo scorso 4 febbraio a Davos: “I soldi prestati alle aziende in crisi, il governo
li dovra’ pure generare in qualche modo”. In altre parole, per quanto ne capisca io:

· o contrae debito, con il mercato (emettendo titoli di stato) o con la Banca Centrale (che puo' stampare moneta), ma l’ipotesi del debito di questi tempi sembra sempre piu' problematica, almeno che non si sottovaluti il rischio di bancarotta;
· o - guarda caso - aumenta le tasse e riduce le spese, oltretutto su una base imponibile minore perche' il PIL si e' contratto;
· o (piu’ realisticamente) un mix delle due precedenti.

Il rischio potrebbe quindi essere che Obama, e chi per lui in altri paesi, abbia si' progetti ambiziosi ma non abbia i soldi per realizzarli. Perche’ se ne e' giocati troppi a salvare aziende in crisi, pensando di dirimere il male non trattandone le cause ma somministrando ancora piu’ medicinali.

Mi viene da dire: se l’obiettivo ultimo e’ creare posti di lavoro per chi e’ rimasto a casa, perche’ non e’ lo stato a farsi carico di assumere? Perche’ invece che mettere i soldi in aziende in cui non si sa che fine faranno, non paga lui direttamente li stipendi a chi ne ha bisogno?
Pensando alle nuove forme avanzate di partenariato pubblico-privato, potrebbe non essere cosi' difficile trovare qualcosa di sensato e sostenibile da far fare ai nuovi impiegati dello stato. O in alternativa si potrebbe finanziare il terzo settore, del no-profit e del sociale.
Perlomeno fino a quando non si saranno riscritte le regole del gioco del capitalismo globale e tornera’ la fiducia...

Mi viene in mente un messaggio di un ascoltatore del programma di Quest sulla CNN:
“La versione estrema del socialismo e’ fallita nel 1989. Il capitalismo estremo nel 2008. Ora prepariamoci a un "socialismo capitalista" o un "capitalismo socialista"”. Solleverei solo un’obiezione: visto l’attuale comportamento di aziende e governi, il capitalismo estremo non e’ ancora fallito. E allora che la crisi continui piu’ velocemente possibile, cosi’ che quando toccheremo il fondo sara’ forse la volta buona che cominceremo a risalire.



In una vignetta dello scorso 5 febbraio l'Economist ironizza "la rincorsa avida a fare i soldi e' stato un fattore determinante la crisi economica, e ora il piano del congresso spera di cambiare le cose mettendo in palio ancora piu' soldi..."