sabato 19 dicembre 2009

Copenhagen mostra i suoi limiti: e adesso che si fa?

Ed e’ cosi’ che il summit di Copehagen tradi’ le aspettative e i bisogni del mondo. Sembra che l'accordo non preveda ne’ un tetto massimo di emissioni inquinanti, ne’ una data limite per raggiungere alcuni obiettivi, ne’ sanzioni che vincolino i paesi a rispettare gli impegni.

Cosa potevamo aspettarci da un consesso di 192 paesi che operano in regime di competizione economica tra loro? Forse e’ gia’ un risultato straordinario il fatto che cosi’ tanti capi di stato siano accorsi a Copenhagen, riconoscendo l’importanza del problema e la necessita’ di fare qualcosa, anche a scapito di limitare la competitivita' delle proprie aziende e la capacita’ di creare lavoro per le persone che rappresentano. In un certo senso, non e’ tanto colpa loro se non l'accordo non ci porta molto lontano, ma del sistema in cui si trovano ad operare.

Una cosa mi lascia perplesso: si parla dei paesi del mondo come suoi principali inquinatori, in primo luogo di USA e di Cina; a ben vedere, pero', non sono invece le industrie che vi operano e le persone che si avvalgono dei prodotti inquinanti? I responsabili fattuali dell’inquinamento globale sono l’industria automobilistica, quella energetica (specie per le centrali a carbone), quella degli impianti di riscaldamento e condizionamento, quella di produzione di legname attraverso deforestamento, quella delle compagnie aeree. Insieme a tutti noi che guidiamo l’automobile, ricarichiamo i nostri molteplici dispositivi elettronici, teniamo le luci accese, riscaldiamo e raffreddiamo i nostri appartamenti.
Quindi: perche’ al summit di Copenhagen dovrebbero essere protagonisti i capi di stato e non quelli delle multinazionali, delle Shell, General Electric, Wolkswagen ed ENEL di tutto il mondo?

La risposta piu’ ovvia e’ che sono i governi gli enti preposti a stabilire le regole del gioco per le multinazionali e per le imprese nazionalizzate, cosi' come per i propri elettori. La responsabilita’ ultima delle decisioni spetta a loro. Il problema e’ quello dell’impotenza dei governi rispetto alla volonta’ delle imprese e della societa’ civile: dipendono troppo da loro per schierarvisi contro; sono una loro emanazione e hanno un interesse costituito nella loro permanenza. Perche’ la Cina dovrebbe bandire le centrali a carbone e i SUV? Entrambe le industrie contribuiscono alla creazione di lavoro, agli introiti fiscali, alle tangenti che arricchiscono i politici stessi che dovrebbero limitarne la liberta’ d’azione.

Sembra non esserci via d’uscita.
Per un momento, immaginiamoci pero’ il consesso di Copehagen popolato dagli amministratori delegati di tutte le principali industrie del mondo. Normalmente, le imprese creano alleanze e cartelli per un tutelare i propri interessi e bloccare i cambiamenti a loro sfavorevoli. E se questi stessi cartelli venissero usati per promuovere un cambiamento favorevole al mondo?
Supponiamo che a Copehagen l’industria automobilistica decidesse che nessun produttore immettera’ piu’ in nessun mercato del mondo un veicolo che inquini oltre un certo livello. Tale decisione andrebbe a vantaggio di alcuni - quelli che non producono tali veicoli - e a svantaggio di altri - quelli che li producono -: potrebbe trovarsi un modo per cui chi ci guadagna compensa chi perde? Le aziende e i loro indotti destinate a fallire potrebbero essere rilevate da quelle destinate a prosperare: la dirigenza compensata con participazioni azionarie; gli operai e i lavoratori riassunti e riqualificati.
Fermi tutti: tale operazione non e’ forse cio’ che gia’ normalmente avviene nel mercato globale?
Recentemente, la Fiat in grado di produrre veicoli poco inquinanti ha rilevato parte dalla Chrysler, che immetteva sul mercato veicoli ad alti consumi che gli americani non compravano piu’ a sufficienza.

Piu’ che cambiare il mondo, si tratterebbe quindi di accelerare i processi per cui i “cattivi” attori sul mercato sopravvivono piu’ del dovuto. Il cambiamento necessario potrebbe essere implementato poco a poco: l’industria energetica potrebbe darsi l’obiettivo di smantellare e riconvertire le centrali a carbone entro un certo numero di anni, altrimenti l’economia cinese si troverebbe ferma dall’oggi al domani. La dirigenza politica cinese non accetterebbe di rinuciare al controllo diretto della sua industria? Adesso come adesso forse no, ma i trend della finanza globale - con l’avanzare di strumenti quali i “fondi sovrani” investiti direttamente dai governi nelle multinazionali - sembrano suggerire il contrario: se tutti ci guadagnano, perche’ no?

L’attuale strada di Copehagen - governi nazionali che tentano di contenere l’industria globale - ha dimostrato tutti i suoi limiti. Potrebbe valere la pena testare la strada contraria, con l’industria globale chiamata ad espandere le sue migliori pratiche verso tutti i mercati nazionali? Perche’ le principali catene di supermercati non potrebbero essere stesse porsi l’obiettivo per far sparire dagli scaffali di tutto il mondo le lampadine ad alto consumo energetico? I governi, nel frattempo, potrebbero pensare a far crescere la sensibilita’ della societa’ civile sul problema...

L’industrializzazione globale e’ all’origine dei cambiamenti climatici. Se non possiamo combatterla, forse potremmo spingerla a tirare fuori il meglio di se’, accelerando il successo della globalizzazione piu’ sostenibile e il fallimento di quella piu’ nociva. Invece di colpevolizzare i capitani d’industria, potremmo provare a trasferire loro piu’ responsabilita’, lasciando un’opportunita’ di riscatto. Potremmo elevare anche loro a “governo del mondo”, esplicitamente e sotto i riflettori, privando i politici di parte delle prime pagine dei giornali e del ruolo di capro espiatorio di problemi che non possono controllare.
Copenhagen ha dimostrato che le sfide globali sono troppo grandi per i governi nazionali: credo che la ricerca di ulteriori strade, senza pregiudizio, sia ora un imperativo di tutti.

giovedì 17 dicembre 2009

Copenhagen tornasole del mondo

Copenhagen, 17 dicembre 2009.
I leader stanno per arrivare, comincia il conto alla rovescia verso la conclusione di COP15, inedito summit sui cambiamenti climatici. Il mondo e’ in bilico, l’opportunita’ e’ unica per prendere decisioni in grado di riportare il pianeta su una rotta sostenibile.

Le tensioni negoziali dei giorni precedenti fanno presagire che l'evento potra' passare alla storia come “fallimento” piuttosto che come “successo”: le aspettative sono grandi, ma sembra un test fin troppo difficile per una tavola rotonda di 192 paesi chiamati ad essere tutti d’accordo sul da farsi.

Il punto piu’ delicato delle negoziazioni riguarda da una parte l’esborso di fondi per combattere il surriscaldamento globale, dall’altra il contenimento di quello sviluppo economico inquinante che continua a contribuirvi. Il problema e’ sorprendentemente chiaro:

- il clima sta cambiando anche per colpa delle attivita’ umane;
- il cambiamento del clima ha conseguenze devastanti, specialmente sui paesi del Sud del mondo che meno hanno contribuito a generarlo;
- e’ necessaria una rivoluzione tecnologica “verde”, insieme alla messa a punto di nuovi incentivi per inquinare meno, insieme al cambiamento comportamentale di tutti.

In misura diversa il problema riguarda tutti, ma il punto e’: chi si sacrifica per risolverlo?
Tutti guardano al paese leader del mondo, nonche’ principale inquinante: gli Stati Uniti. Il congresso sembra far chiare le proprie intenzioni ad Obama: “l’America non paghera’ soldi che finiranno all’estero”. Tale dichiarazione conferma al mondo l’egoismo degli USA, ma il momento non e’ dei piu’ propizi: sbancatasi per salvare le banche, l’amministrazione Obama e’ chiamata a contrastare l'alto tasso di disoccupazione sull’onda lunga del crollo finanziario del 2008.

Il congresso si preoccupa dell’opinione pubblica americana, prima ancora di quella mondiale, perche’ il suo futuro a fine legislatura dipendera’ dalla prima e non dalla seconda. Tale constatazione rivela una grande contraddizione del mondo odierno: siamo chiamati a risolvere dei problemi globali attraverso delle istituzioni - i governi - il cui fine e’ quello di tutelare gli interessi nazionali. Come uscire dall'impasse?

Si potrebbe rispondere: se gli interessi globali coincidessero con quelli nazionali, i governi si allineerebbero nell’affrontarli. Se gli USA avessero sufficientemente a cuore i cambiamenti climatici, si farebbero promotori di un accordo al rialzo. Compresibilmente, invece, l’amministrazione Obama da' la priorita' al problema del lavoro per tutti i cittadini americani.
E cosi’ fa anche l’amministrazione cinese. Una volta ancora la questione del lavoro sembra diventare discriminante, anche e soprattutto perche’ al giorno d’oggi una delle piu’ grandi paure dei governi nazionali e’ quella di perdere posti di lavoro a discapito dei paesi contro cui si ritrovano a competere economicamente. Penso alle recenti reazioni del governo tedesco all’annuncio che la multinazionale americana GM avrebbe potuto lasciare fallire la OPEL. Penso alle proteste operaie nei paesi piu' ricchi contro le delocalizzazioni nei paesi piu' poveri.

E se i fondi richiesti al summit di Copenhagen aiutassero a creare lavoro nei paesi che li sborsano? Potrebbero essere di sussidio alla creazione della "green economy" di casa propria, finendo nelle tasche degli istituti di ricerca e delle multinazionali esistenti e nasciture, i soli soggetti in grado di produrre soluzioni tecnologiche contro i cambiamenti climatici globali. In parte si potrebbero destinare ad azioni comunicative e educative volte a promuovere i cambiamenti comportamentali per inquinare meno, con conseguente creazione di lavoro in quei settori. Sono probabilmente queste le azioni piu’ facilmente approvabili a livello nazionale.
Tale modello non ci si allontanerebbe molto da quello gia’ utilizzato per combattere la poverta’ in Africa e nei paesi in via di sviluppo: io Stati Uniti ed Europa vi trasferisco dei fondi, anche a patto che voi con questi facciate lavorare le nostre organizzazioni ed aziende.

Il paradosso odierno e’ che c’e’ sempre meno garanzia che i datori di lavoro che recepiscono sussidi nazionali assumano delle persone di quella nazione per fare il lavoro. In un sistema in cui si compete globalmente, prevale la logica efficientistica e tecnocratica: si assumono coloro che sono in grado di portare a termine il lavoro nel miglior modo possibile, piu’ velocemente possibile e per meno soldi possibile. Quale probabilita’ c’e’ che questi super lavoratori si trovino a casa propria?
Ed e’ cosi’ che i governi vanno rassicurati due volte: la prima sul fatto che i fondi pubblici sborsati per le cause globali finiscano anche alle imprese nazionali; la seconda che tali imprese vadano effettivamente a impiegare i connazionali.

Probabilmente, l’unica via d’uscita e’ quella della creazione di un governo globale. Se chi crea e da’ lavoro opera a livello globale, perche’ il governo di queste dinamiche non dovrebbe essere tale? Forse piu’ di ogni altra cosa, il “teatrino” di Copenhagen ci racconta di una missione impossibile, quella di mettere d’accordo la bellezza di 192 paesi sul destino di 1 solo pianeta. La logica egostica su cui i paesi si fondati - prima gli interessi del paese poi quelli di tutti gli altri - non puo’ che palesarsi con sconcertante chiarezza.

Sara’ mai pronta l’umanita’ per il grande salto?
Il progressivo rafforzamento di istituzioni globali quali la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale ci fa pensare che un governo globale stia gia’ prendendo forma, ma probabilmente questi istituti sposano una politica e una filosofia economica che giocano troppo a favore delle nazioni piu’ forti.

Quello che forse manca di piu’ e’ una nuova filosofia al contempo globalistica e altruistica, una mentalita’ da “cittadino del mondo” per il quale gli interessi di tutti e del tutto contino quanto gli interessi propri. Alla domanda “chi si sacrifica?” dovremmo essere in tanti pronti ad offrirsi, gratificati dalla consapevolezza che il nostro sacrificio fara’ il bene del mondo e forse anche di noi stessi. Cosi' i potenti del mondo, come tutti i loro elettori nella vita di tutti i giorni.

Se serve una rivoluzione, credo che questa debba partire da dentro di noi. E la forza della nuova cultura dovra’ essere tale da riuscire a trovare l’accordo di tutti.


Sull'importanza della questione del lavoro, confronta in questo blog l'articolo su "Fine del lavoro".
Su quella del governo globale, confronta l'articolo "Mercato comune. Regole diverse"

giovedì 3 dicembre 2009

Complessita': che fare?

Obama finalmente delibera: 30.000 soldati per vincere la guerra in Afghanistan. Michael Ware, inviato della CNN a Kabul, commenta la notizia con un mezzo sorriso sulla bocca: l’invio di nuovo soldati puo’ essere utile, ma e’ lontano dall’essere sufficiente per risolvere i problemi dell’Afghanistan. Michael si scalda, il suo e’ un approccio da “frontline”, giornalista al fronte disilluso che comprende la complessita’ della situazione perche’ ci vive dentro.

L’Afghanistan e’ indirettamente anche il terreno della grande battaglia tra India e Pakistan, che supportano fazioni rivali. L’Afghanistan e’ obiettivo di egemonia economica e culturale dell’Iran. Con grande lucidita’, Ware ci persuade ad ampliare il punto di vista prima di pensare alle possibili soluzioni. Si smarca dalla corrente dominante nei media che vuole opinionisti e pubblico schierati a favore o contro la guerra, come se il miglioramento della situazione potesse solo dipendere da questa. L'Afghanistan e' un problema complesso e richiede una strategia interdisciplinare, a molteplici livelli.

Complessita’ e interdisciplinarita’.
Due concetti tanto importanti quanto forse abusati nel giornalismo contemporaneo, cosi’ come nella letteratura scientifica. Due chiavi di volta per comprendere il mondo di oggi. Da ricercatore nelle scienze sociali, ho posto grande attenzione a entrambi. Definirei "complessita’" il fatto che le determinanti di un problema sono normalmente molte piu’ di quanto ci possiamo immaginare, e il risultato della loro combinazione non e’ necessariamente la somma delle parti. "Interdisciplinarita’" il bisogno di mettere in gioco diverse prospettive e discipline per la comprensione del problema complesso, sia nel suo merito tecnico che nel suo ruolo sistemico.

Crediamo che le cose siano semplici?
Prendiamo una questione apparentemente meno sofisticata della guerra in Afghanistan, quella del lancio di un nuovo modello di blue jeans sul mercato globale. L’azienda produttrice dovra’ considerare che un paio di jeans al contempo sono: un insieme di tessuti e materiali; un oggetto di moda; il risultato di un processo industriale manifatturiero; un prodotto su uno scaffale con un prezzo; un capo di abbigliamento per pubblici diversi, e via di questo passo. Piu’ tale merito tecnico viene approfondito in modo coordinato dagli esperti disciplinari, maggiori saranno le chances di successo. Ed e’ cosi’ che la Levi's del caso si avvale di scienziati dei materiali, designer, esperti di logistica e controllo di gestione, esperti di marketing, e cosi’ via.

Sara’ sufficiente tale interdisciplinarita’ a fare del nuovo prodotto un successo?
Non necessariamente, il lancio di un nuovo modello di blue jeans resta una questione piu’ complessa... Dipendera’ anche infatti dall’abbinabilita’ di quel pantalone con altri capi di abbigliamento; dalle fluttuazioni del cambio Euro-Dollaro che renderanno quel prodotto piu’ o meno economico in certi paesi; dalle mode emergenti a livelli globale e dalle strategie della concorrenza; dalla capacita’ di spesa dei clienti, che verra’ a sua volta influenzata da variabili macroeconomiche come l’espansione o contrazione dei salari, e via di questo passo.
Il “sistema mondo” in continua evoluzione rende l'operazione una scommessa ancora piu’ grande di quanto essa gia’ sia...

Ho l’impressione che se da un lato la complessita’ e l’interdisciplinarita’ tecnica vengano sempre piu’ comprese e gestite, dall’altro la complessita’ e l’interdisciplinarita’ sistemica restino questioni ancora spesso sottovalutate.
Paradossalmente, questo potrebbe essere piu’ vero nelle nazioni anglosassoni piu’ avanzate del mondo, dove la forma mentis e’ dominata un approccio scientifico e tecnico che alcuni non a caso definiscono “riduzionista” della complessita’. Una ragione di ordine pragmatico c’e’: le dinamiche sistemiche o “di ordine superiore” sono meno facilmente individuabili e controllabili di quelle tecniche, quindi...in definitiva...why caring? Perche’ preoccuparsene se comunque non ci si puo’ fare molto?

Una tale conclusione potrebbe essere quantomai rischiosa. Torniamo in Afghanistan...
Sul tavolo di Obama saranno sicuramente arrivati numerosi rapporti tecnici sulla complessita’ della guerra in Afghanistan e sull’esigenza di un strategia interdisciplinare: le caratteristiche del nemico e del territorio; il dispiego dei soldati e delle armi; le diverse tattiche adottabili; la tenuta psicologica dei soldati, e cosi’ via. Auspicabilmente, sono anche arrivati alcuni rapporti sistemici: il ruolo della guerra sullo scacchiere geo-politico mondiale; gli interessi di Iran, India e Iran; le conseguenze della guerra sull’economia mondiale; le implicazioni sull’elettorato americano e sull’immagine di Obama nel mondo.

Nutrendo forti speranze in Obama, non posso che augurarmi che la scelta di dislocare 30.000 nuovi soldati sia giustificata da un ragionamento strategico che contempli l’evoluzione di tutte le variabili. Resta sempre il dubbio che forse Obama avesse potuto fare a meno di immischiarsi con tutta questa complessita’ e fare una scelta etica contro la guerra, scelta che avrebbe a sua volta avuto ripercussioni sistemiche...

Insomma, e’ un bel casino.
Paradossalmente, piu’ il mondo si fa complesso, piu’ i “quick fix”, le soluzioni tecniche rapide all’americana potrebbero trovare adito. Se tanto le ripercussioni sono imprevedibili, meglio perlomeno agire e lanciare un messaggio inequivocabile, no?
Mi auguro che sempre piu' giornalisti, scienziati e consulenti possano distanziarsi da tale approccio univoco: per comprendere il mondo di oggi occorre uno sforzo supplementare di sintesi della complessita’.

Ma anche con le migliori analisi sul tavolo, c'e' forse da augurarsi che i potenti del mondo mettano in gioco anche il proprio cuore al momento di prendere le decisioni piu' importanti.
Forse un mondo con piu' etica e piu' umanita' sarebbe anche un mondo piu' semplice.

Un mio articolo su questi temi verra' pubblicato in un libro di prossima uscita intitolato "Visions of Transdisciplinarity'", insieme ai contributi di alcuni Premi Nobel (!)
Il libro e' il risultato del Dialogo Mondiale sulla Conoscenza a cui ho partecipato nel 2008: