Arriva il momento del promo della rete e le facce degli anchor internazionali si alternano ad enunciare il motto CNN: “Go beyond borders!”, ovvero “spingiti oltre i confini”. A giudicare dai loro nomi e cognomi, essi stessi rappresentano uno straordinario ventaglio di provenienze culturali e nazionali: sono il volto della globalizzazione. Poi sfoglio recenti numeri dell’Economist e dell’Atlantic e leggo dell’ascesa finanziaria e reputazionale della “classe globale”: una sempre piu’ folta elite multilingue e in costante mobilita’, che valorizza merito, idee, progresso ed efficienza.
Sono imprenditori, manager e ricercatori che pilotano l’economia globale verso i settori creativi del futuro: competitivi, irriverenti verso l’ordine costituito e spesso fondamentalisti sulla valorizzazione del talento e del potenziale. Imprenditori di se’ stessi e on-line 24 ore su 24 ore, sono i promotori della cultura americana delle aziende start-up: buttati, rischia, dai tutto, fallisci, vinci e fai del tuo lavoro una missione di vita. Sono intelligenti e amano giocare all’”out-smarting”, al lasciare al palo l’avversario a furia di colpi di genio. Il loro lavoro e’ fatto di altissima tecnica e altissima tecnologia, ed e’ indispensabile che queste rimangano focus assoluto della loro attenzione professionale e spesso anche personale. L’inefficienza, la pigrizia e lo spreco sono il nemico da combattere; il pragmatismo e’ l’unica filosofia possibile, in un’arena competitiva globale tanto dinamica e agguerrita in cui non c’e’ piu’ tempo per pensare. Accumulano migliaia di miglia aeree, si connettono ovunque al Wi-Fi, conducono videconferenze dagli aeroporti, guardano a Google e a Apple come massimi modelli da imitare, perche’ hanno prodotto “world-changing technologies”. Il loro obiettivo ultimo e’ cambiare il mondo, tutto il mondo, attraverso nuove tecniche e tecnologie tanto potenti da superare i limiti dell’uomo.
Tale descrizione perentoria e monolitica si addice probabilmente a un segmento minoritario dell’emergente elite economica globale. La realta’ rimane piu’ complessa e sfaccettata, anche considerato che ogni settore produttivo vive di una cultura propria. Resta pero’ il fatto che la rivoluzione globale di Internet, e il crollo del muro di Berlino (e quello dei costi dei voli aerei) hanno spianato la strada a quello che qualche sociologo definirebbe “iper-capitalismo”.
Le caratteristiche “iper” sembrano se non altro riflettersi nell’acuirsi della forbice di reddito tra dirigenza e lavoratori: picchi di concentrazione di ricchezza impensabili fino a qualche decennio fa (al proposito, si pensi ai tanti deprecati stipendi dei top-manager delle banche d’affari e si legga "La coscienza di un liberal" di Paul Krugman); salari medi stagnanti; salari bassi sempre pronti a essere delocalizzati in qualche paese in cui il costo del lavoro e’ piu’ basso.
Tale prepotente ascesa dei tecnocrati della classe creativa globale sembra mettere in difficolta’ la classe politica “vecchio stampo”, spesso senza riconoscerne i meriti e le ragioni d'essere profonde. Non solo ne mette direttamente o indirettamente a nudo le inefficienze, il sistema di privilegi, le incompetenze e il presunto provincialismo. Ma la tiene sotto scacco minacciando di trasferire le attivita’ produttive in qualche altro paese del mondo, almeno che non si rispettino le proprie condizioni. Sergio Marchionne docet.
E qui si arriva a una delle caratteristiche della nuova elite che mi fa piu’ riflettere: il suo cosmopolitismo tout curt, per cui tutto il mondo deve beneficiare del proprio lavoro, che non deve necessariamente andare a favore della nazione e la cultura di appartenenza (alla quale sono invece tenuti a rispondere i politici). E’ una visione delle cose molto consona ai campus americani, che se da una parte racchiude elementi democratici ed egualitari, dall’altra spesso finisce per ignorare quei peculiari elementi culturali, inclusi stile di pensiero e di vita, tipici di ogni popolo del mondo. L’assunzione del cosmopolita e’ che cio’ che egli propone sia talmente alto, avanzato e universale, da dovere essere immediatamente adottato in tutto il pianeta. Chi non lo comprende e argomenta altrimenti va solo aiutato a capire.
In realta’, spesso il globalista sfreccia a tutta velocita’ per la propria strada, ma, forse inevitabilmente, con i paraocchi. Pur girando instancabilmente il mondo, entra molto poco in relazione con le culture locali, finendo per vivere nelle bolle degli aeroporti, dei vari hotel Marriot o Best-Western, o di iper-tecnologici campus aziendali o universitari. Tale sovra-esposizione a chi la pensa come lui, puo’ indurlo a pensare che tutti la pensino come lui, rassicurandosi costantemente della bonta’ della propria missione. A volte pero' finisce per essere “out of touch” con la realta’, lontano da un certo buon senso comune che vuole che il valore delle cose sia relativo e non necessariamente assoluto.
Sembra che i nuovi giovani leader globalisti siano tanto parte dei problemi del mondo, quanto delle soluzioni che vanno promuovendo. Nonostante tutto mi chiedo: chi puo’ essere certo di non esserlo? Personalmente credo vada attribuito loro grande rispetto, in nome di brillantezza, energia imprenditoriale e fiducia nelle possibilita' umane. I loro prodigi tecnici e tecnologici finiscono spesso per suscitare meraviglia, ed essere di ispirazione e motivazione per generazioni a venire.
Credo anche pero’ che sia indispensabile che i loro sforzi vengano incanalati nella direzione giusta: si pensi ad alcune recenti innovazioni nei prodotti finanziari (derivate e simili), che pur geniali e straordinarie nella tecnica hanno contribuito a creare la bolla immobiliare globale, spianando la strada a dinamiche perniciose per la societa’ e per l’ambiente.
Ritengo altresi’ necessario che l’elite economica globale agisca nel rispetto di tutti gli altri. Per esempio recuperando una nozione piu' ampia di equita’, guardano oltre i risultati e oltre al merito, due concetti che consentono alle dirigenze delle multinazionali di auto-giustificarsi stipendi centinaia di volte maggiori di quelli dei lavoratori. Per esempio prestando attenzione alle istanze delle comunita’ locali, mantenendo in vita la ricchezza di cui sono portatrici, invece di rimpiazzarla esclusivamente con soluzioni universali e preconfezionate.
A volte, leggendo l’Economist, massimo organo portavoce dei seguaci della globalizzazione, percepisco che di questi problemi ci renda in ultima istanza conto, e questo mi legittima a ben sperare per il futuro. Nel frattempo, non perdere tempo: go beyond borders.
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