giovedì 11 ottobre 2012

Il prezzo dell'iniquita': provo a ricostruirne la storia

Il prezzo dell’inequita’. Questo il titolo di un recente libro di Joseph Stiglitz, premio nobel per l’economia che apprezzo sempre per la sua straordinaria capacita’ di rendere comprensibili i complessi fenomeni del mondo odierno e arricchire le mie intuizioni. Il libro mette a nudo lo sbilanciamento di potere e di ricchezza creatosi negli ultimi decenni a favore delle banche, degli operatori finanziari e del top management d’impresa, a discapito di quello che lui e gli attivisti di Occupy Wall Street quantificano nel restante 99% di tutti noi.

Argomenti quanto mai di attualita’ in Europa, anche considerando le proteste sempre piu’ violente dei giovani greci e spagnoli contro i modi in cui i propri governi intendono ripagare i debiti accumulati. Gli anni 90 e 2000 hanno visto una grande trasformazione nei soggetti che si sono fatti prestatori di denaro agli stati: in Italia, per esempio, gli stranieri sono passati a detenere oltre il 50% del debito pubblico (ne detenevano circa il 5% nel 1991), e ben l’85% dell’intero debito e’ ora nelle mani di investitori istituzionali italiani o stranieri, quali banche, assicurazioni e fondi pensione (dati Bankitalia, 2010).

Se in passato obbligazioni e BOT rappresentavano soprattutto la cassaforte dei cittadini italiani, oggi sono per la maggior parte fonte di reddito e di speculazione per grandi soggetti finanziari potenzialmente estranei alla societa’ e all’economia reale del paese. Come tutti i creditori, anch’essi hanno un interesse a far fruttar bene il proprio prestito, e quindi ad una crescita dei tassi di interesse pagati loro dal governo italiano. Questi soggetti potrebbero quindi gradire un aumento del differenziale (“spread”) di rendimento tra i titoli di stato italiani e gli equivalenti tedeschi, e potrebbero addirittura favorirlo attraverso la speculazione e con il possibile aiuto delle agenzie di rating.

L’indebitamento complessivo dello stato italiano, in misura relativa al PIL, e’ raddoppiato tra il 1982 e il 2010 (Dati Min. Economia e Finanze, 2011). Aprendo le porte ai grandi capitali globali, l’Italia e molti altri stati sovrani hanno creato le migliori condizioni per finire sotto ricatto del mondo finanziario, la cui principale e legittima preoccupazione e’ quella di vedere il proprio prestito propriamente ripagato.

Di qui nel 2011 la nomina di Mario Monti in Italia e di Lucas Papademos in Grecia, economisti chiamati a sistemare i conti dei propri paesi. Di qui le rigide posizioni di Angela Merkel, che oltre ad altri motivi ha anche un interesse a proteggere le banche tedesche, molto esposte verso i governi del Sud Europa. Di qui i “referendum” del mercato finanziario ogni volta che i governi sotto osservazione fanno una nuova dichiarazione o azione macro-economica: un aumento dello spread equivale a un NO, una sua diminuzione a un SI’. Di qui i voti di buona condotta emessi dalle agenzie di rating, in teoria super-partes, in pratica finanziate dai propri clienti privati (settore finanziario incluso) e quindi vittime di un incentivo a soddisfare i loro desideri.

In Europa tale situazione  e’ aggravata dall’appartenenza degli stati ad una moneta unica: se mai uno di essi dovesse dichiarare bancarotta e decidere di non ripagare i creditori, le conseguenze sarebbero difficili da prevedere e potenzialmente molto gravi per tutti. Una ragione in piu’ per rimettere i riga gli stati debitori, attraverso politiche economiche orientate all’austerita’.

Ma proviamo a ricostruire la storia in modo ancora piu’ ampio. Cominciamo con l’accettare quello che e’ successo, ovvero un equilibrio che per molto tempo andava bene a tutti. Nel 1989 crolla il muro di Berlino: i grandi capitali divengono globali e cominciano a bussare piu’ insistentemente alle porte degli stati sovrani.  A questi l’idea di emettere ulteriore debito non dispiace: in fin dei conti consente uno stile di vita piu’ alto sia alla classe politica che ai cittadini. Poi, poco a poco, scoppia il boom economico dei paesi emergenti, e con esso la paura che le vecchie economie europee non generino piu’ sufficiente ricchezza per ripagare tutti i debiti contratti.

Di qui l’urgenza da parte degli stati di salvare la propria reputazione e riuscire a ripagare i debiti contratti, racimolando denaro in tutti i modi e nel minor tempo possibile. Denaro da spedire per meta’ all’estero, nelle casse di banche e fondi di investimento di per se’ gia’ straordinariamente ricchi, e di li’ in misura sproporzionata nei conto correnti dei loro amministratori. A ben vedere, i soldi tornano nelle tasche di chi li aveva originariamente prestati, e cosi’ si chiude il cerchio: prima i soggetti economici fanno un sacco di soldi; poi si rendono conto che ne hanno talmente tanti da prestarli in misura sempre maggiore in giro per il mondo, incluso agli stati sovrani; infine li pretendono indietro e sono disposti a farlo a tutti i costi, compreso mettere a repentaglio la tenuta economico-sociale degli stati debitori.

Se le cose stanno cosi’ sembra esserci una sola uscita per gli stati sovrani: affrontare il problema alla sorgente e impedire che i soggetti privati accumulino cosi’ tanta ricchezza in prima battuta. In altre parole: tassare di piu’ le imprese piu’ grandi e i cittadini ultra-ricchi, in tutti i modi e in tutte le forme possibili; limitare i trattamenti fiscali privilegiati nei loro confronti; rimuovere acquisite rendite di posizione e barriere anti-concorrenza; mettere fuori legge i loro comportamenti sconsiderati, in primis le speculazioni finanziarie.  In altre parole, regolamentare in tutti i modi l’attuale regime ultra-liberista, che consente una sproporzionata accumulazione della ricchezza generata dal lavoro di tutti nelle tasche di un numero troppo ristretto di soggetti. Credo che solo in questo modo il bene pubblico potra’ liberarsi dal giogo del bene privato, e potremo tornare a forme piu’ civili di convivenza.

C’e’ quindi da accogliere con grande ottimismo e speranza la decisione del presidente francese Francois Hollande di aumentare le aliquote per le classi sociali a cui e’ stata recentemente consentita una tale fuga stellare. C’e’ da augurarsi che Obama possa riuscire a portare gli Stati Uniti, baluardo liberista del mondo, sulla stessa linea politica. C’e’ da brindare per il recente annuncio della prossima introduzione in Europa della Tobin Tax, l’elementare tassa sulle transazioni finanziarie di cui si parla dal 1972 (ben 30 anni ci abbiamo messo, ma finalmente ce l’abbiamo fatta!).

C’e’ invece da preoccuparsi ancora di piu’, a mio avviso, se le politiche di austerita’ degli stati sovrani dovessero impattare i capitali a disposizione dei comuni cittadini e delle normali imprese dell’economia reale, a maggior ragione in un momento di contrazione delle loro attivita’. Una regola fondamentale delle politiche fiscali dovrebbe infatti essere quella di dare la precedenza alla tassazione dei capitali inutilizzati: impianti e immobili vuoti, terreni incolti, soldi fermi in banca, e qualsiasi altro patrimonio che le persone potrebbero utilizzare per fare girare l’economia, in primis quella reale. Tale tassazione fungerebbe da incentivo per mobilizzare questa ricchezza potenziale.
Al contrario, qualsiasi tipo di proprieta’ o asset reale che contribuisce a fare crescere il PIL andrebbe tutelato il piu’ possibile, compresi i soldi pubblici: tagliare i costi di ospedali e scuole non solo impoverisce socialmente il paese, ma impatta economicamente tutte le imprese che lavorano per e con essi.

Che i Mario Monti del mondo non l’abbiano capito? Che abbiano letto i libri sbagliati?
Non posso saperlo, ma forse gli uomini di potere attualmente al timone di paesi debitori non sono cosi’ liberi nel fare quello che ritengono giusto, ma sono piuttosto “costretti” a fare quello che gradiscono i mercati. Mercati fatti dai ricchi del mondo e sempre pronti a vanificare i loro sforzi attraverso il referendum dello spread.

Sembra che solo alleandosi gli stati sovrani potranno uscire dall’impasse.
Due giorni fa ci sono finalmente riusciti, con la Tobin Tax. Poco a poco sembra che stiano riuscendo a regolamentare anche altri aspetti della gigantesca economia finanziaria globale. L’Europa si sta facendo leader del mondo che cambia. Parte del mondo sta gia’ salpando verso un futuro che promette piu’ equita’ e giustizia.

giovedì 26 luglio 2012

L'altra faccia della medaglia

Dritto in mezzo ai boschi corre il nostro treno in una bellissima giornata di sole. Si inclina leggermente e dalla macchia verde spunta timido il grattacielo della BMW. Siamo gia’ entrati a Monaco di Baviera, ma quasi senza accorgercene: i boschi di conifere e latifoglie si estendono senza discontinuita’ dalle Alpi alla citta’. Una citta’ nascosta nel verde. Scesi dal treno, Monaco si fa immediatamente riconoscere all’olfatto: l’inconfondibile profumo di wurstel profuso dal chiosco piu’ vicino; il singolare odore di gomma di cui sono pervase le stazioni dell’immensa rete metropolitana.

Tutto il resto non sembra essere fatto per violare la sensibilita’ degli abitanti, a cominciare dall’utilizzo ultra-parsimonioso se non inesistente dei clacson delle auto. La natura e’ dappertutto: tra un isolato e l’altro, sistematicamente, spesso piu’ estesa degli edifici stessi; dentro i locali, i famosi bier garten in cui si cena e si beve in mezzo agli alberi; all’Englischer Garden, il piu’ grande parco pubblico d’Europa; dentro le stanze degli alberghi e delle case, dove la fanno volentieri da padrone il legno semplice (dei letti, degli armadi, dei parquet) e il silenzio (anche grazie allo spessore delle pareti).

Passeggio per le vie del centro e penso che  c’e’ qualcosa di speciale in questa citta’ che fa innamorare il visitatore. Non puo’ essere solo l’architettura, mi dico. A parte i bei monumenti principali di Marien Platz e dintorni, la citta’ e’ stata ricostruita dopo la guerra. Piu’ che bella quanto tante altre grandi citta’ europee, Monaco mi appare semplice e poco pretenziosa, nelle connotazioni piu’ positive. Sembra avere una capacita’ di mettere a proprio agio le persone: e’ raramente frenetica, raramente gridata, raramente rimossa dalla quiete della natura. Lo intuisco osservando il comportamento degli abitanti in metropolitana nelle ore di punta: in pochi sembrano andare di fretta, forti della puntualita’ dei mezzi pubblici e della propria capacita’ di pianificazione; mode tedesche a parte, in pochi danno nell’occhio per come sono vestiti, tanto che a volte ti chiedi se sei veramente in una metropoli o piuttosto in una cittadina in mezzo alla campagna. “Un paesino con 1 milione e mezzo di abitanti” dicono i monachesi, in molti orgogliosi del proprio provincialismo. Sorseggiando litri di birra all’ombra dei castagni dei bier garten, i bavaresi inneggiano “Ein Prosit, der Gemütlichkeit!”, “Un brindisi, l'agiatezza!”. Lo fa pure il direttore dell’orchestra del famoso Hofbräuhaus, alzandosi in piedi, con fare pacato e modesto.

Parlo con i monachesi e mi confronto ulteriormente con l’immagine che hanno di se’ stessi: piace loro pensare a Monaco come la citta’ piu’ a nord d’Italia e alle montagne della Baviera come una “terrazza” sul Mediterraneo. Sembrano guardare a Sud piuttosto che a Nord: chi me lo fa fare di andare a Berlino o sul mare del Nord, se con le stesse ore di macchina arrivo in Toscana o in Piemonte?  Perlomeno queste sono le preferenze di un collega. Secondo lui, l’attitudine relativamente rilassata dei bavaresi e’in parte dovuta all’essere cattolici invece che protestanti: vuoi mettere avere l’opportunita’ di confessarsi, piuttosto che dovere rispondere delle proprie azioni direttamente a Dio?

In realta’, i bavaresi come d’altronde molti altri tedeschi danno l’impressione di prendere la vita tutt’altro che alla leggera, ma molto sul serio. Mi torna in mente un amico monachese che rimproverava al commentatore televisivo delle partite della nazionale tedesca di essere troppo “emozionale”, come se esprimere le proprie emozioni fosse un atteggiamento socialmente sconveniente, al contrario della freddezza di carattere. Combattendo l’imperfezione nelle sue molte forme, molti tedeschi mancano di auto-ironia, ma piuttosto privilegiano disciplina e severita’. Molto impegnati a pianificare e a tenere in perfetto ordine la propria vita e le proprie cose, a volte danno l’impressione di vivere poco il presente per cosi’ com’e’. In misura maggiore di quanto non lo siano molte persone in altri paesi, sembrano sintonizzati sul canale dell’“io devo” piuttosto che su quello dell’”io voglio”, vittime di un fardello di doverizzazioni che grava sulla propria spensieratezza e forse quindi anche sulla felicita’.

E’ forse per questi motivi che ai monachesi piace pensare alla loro citta’ come a quella piu’ a Nord d’Italia? Forse vorrebbero essere un po’ di piu’ come gli italiani? Forse si’, un po’ come noi italiani che spesso vorremmo essere piu’ simili a loro (a maggior ragione nel vicino Nordest, che piu’ ne risente dell’influsso). Quel di cui piu’ mi lamento ultimamente e’ il fatto che in Italia, pur esistendo, le leggi non vengano fatte rispettare: perche’ mai il mio vicino deve parcheggiare ogni giorno in sosta vietata e non prendere mai una multa? La sua macchina ostruisce la visuale e potrebbe causare incidenti. Poche multe, poca preoccupazione. In Germania: multe garantite, molta severita’, e grande attenzione da parte di tutti nel rispettare le regole. A loro non viene concesso di sbagliare, e hanno una societa’ piu’ ordinata, ma anche molto piu’ seria. A noi viene concesso di fare quello che ci pare, e abbiamo una societa’ piu’ anarchica, ma anche piu’ spensierata. Loro (forse) invidiano noi perche’ piu’ rilassati, noi (forse) invidiamo loro perche’ piu’ civili. Loro (a volte) ci invidiano perche’ piu’ vivaci e alla moda, noi (a volte) li invidiamo perche’ piu’ affidabili e precisi. Loro potrebbero invidiare l’architettura e l’arte dei nostri centri storici, noi il verde e trasporto pubblico delle loro citta’. Ne’ noi ne’ loro raggiungiamo la perfezione, ma forse non ci rendiamo conto che siamo gia’ perfetti cosi’?

Di questi tempi di battaglie economiche tra una Germania “forte” e un’Italia “debole”, che sembrano rinforzare preesistenti complessi di superiorita’ o inferiorita’, forse aiuterebbe essere piu’ consapevoli delle tante altre facce della medaglia e dell’utopismo della perfezione. Ci aiuterebbe ad accettarci per come siamo, e forse anche ad imboccare la strada del miglioramento.

martedì 5 giugno 2012

Mondo monopolio

Finestre; mela; libro delle facce; io-telefono; io-tavoletta; cultura veloce; amazzone.
Vale a dire: Windows, Apple, Facebook, i-Phone, i-Pad, Wikipedia, Amazon. Parole molto concrete che utilizziamo tutti i giorni, riferendoci a nuove tecnologie frutto dell’inventiva e del pragmatismo americani.
E anche frutto della globalizzazione, che ha spianato loro la strada per conquistare buona parte dei mercati del mondo.

Trovo su Wikipedia la lista delle 186 aziende piu’ grandi del mondo per quantita’ di revenue lorde. Ho un momento di smarrimento nel tradurre “revenue” in italiano, devo andare su Google e digitare “revenue italiano traduzione” (si dice entrate, lo sapevo). Conto ad occhio 53 aziende americane e 71 aziende europee, nonostante il frastuono mediatico sul declino economico dell’occidente e l’inarrestabile ascesa dei paesi emergenti. Curioso poi nel ranking delle universita’ mondiali considerato piu’ autorevole, l’Academic Ranking of World Universities: 29 dei primi 40 istituti sono statunitensi.

Mi avventuro alla ricerca delle cause di tali concentrazioni di ricchezza e di conoscenza. Se il mondo fosse considerato un unico mercato (e lo e’ sempre di piu’), ci troveremmo probabilmente di fronte a condizioni di monopolio, ovvero scarsa concorrenza nella fornitura dei beni e dei servizi. Situazione piuttosto paradossale se consideriamo che i monopoli dovrebbero essere considerati un nemico da combattere da parte degli economisti pro-globalizzazione. Wikipedia, questa volta in italiano, mi propone 4 possibili motivi all’origine dei monopoli:

- esclusivita’ nell’accesso alle materie prime e ai fattori di produzione.
Penso alle universita’ americane, che con grande merito attraggono i ricercatori piu’ produttivi di tutto il mondo;
- economie di scala e di scopo, attraverso cui le imprese sono in grado di aumentare i volumi ed estendersi a prodotti contigui senza un proporzionale aumento dei costi.
Mi viene in mente Amazon, che cominciando dalla rivendita on-line dei libri in USA, ha poi espanso le proprie rivendite a molti altri paesi del mondo, aggiungendo anche CD, DVD e molto altro;
- brevetti, ovvero concessioni di esclusivita’ nella commercializzazione delle invenzioni.
Penso al conteso accordo internazionale “Trips” del 1994, che ha facilitato il rispetto dei brevetti nei paesi del mondo aderenti all’Organizzazione Mondiale per il Commercio. Penso all’inarrestabile crescita del numero di brevetti concesso dall’autorita’ USA competente, nonche’ al ruolo sempre piu’ importante giocato dai brevetti nelle strategie industriali delle multinazionali;
- licenze governative, per lo sfruttamento dei beni pubblici.
Penso a quelle che ciascun paese concede agli operatori televisivi o radiofonici, attraverso la cessione delle frequenze di trasmissione.

Ce ne sono altre, ma mi limito ad aggiungere una sola ulteriore ragione a monte dei monopoli:

- fusioni o acquisizioni industriali.
Penso ai giganti Facebook e Google e alla loro facilita’ di assorbimento delle start-up piu’ innovative nei settori digitali. E non solo delle start-up: si al recente acquisto da parte di Google di Motorola Mobility, motivato anche dal fatto che quest’ultima fosse in possesso di un portafoglio brevetti che consente ora a Google di competere nei settori “mobile”.

Discorso sulle licenze governative a parte, la globalizzazione in atto sembra quindi accelerare tutti gli altri fattori propedeutici i monopoli.
E’ anche merito di Internet e della convergenza dei settori tecnologici: la facilita’ di integrazione di prodotti diversi fatti pero’ tutti di bits facilita le acquisizioni e le espansioni di scopo. L’economia globale sta diventano troppo concentrata? L’Unione Europea crede di si’, per lo meno a  giudicare dalle battaglie legali che sta conducendo contro i nuovi monopolisti d’oltreoceano. Si pensi a quella attuale contro Google, che provvede all’85% delle ricerche on-line degli Europei. L’India e molti paesi in via di sviluppo, invece, se la prendono con le multinazionali farmaceutiche: i loro brevetti impediscono la nascita di concorrenti locali per la fornitura di medicinali fondamentali. In USA la percezione del problema sembra diversa: negli ultimi decenni la de-regolamentazione generale dell’economia sembra avere favorito i processi di concentrazione, cavalcando la filosofia meritocratica secondo cui devono esserci meno regole possibile affinche’ vinca chi e’ veramente piu’ forte.

Un’importante argomentazione a favore delle multinazionali e’ che i monopoli di cui esse beneficiano si traducono in vantaggio per i consumatori. Grande scala e grandi profitti sarebbero garanzia di qualita’, professionalita’ e sufficienti risorse per le innovazioni e progetti piu’ ambiziosi. Questo puo’ essere anche vero (posti i necessari distinguo), ma resta il fatto che un sistema di questo tipo possa “prosciugare” il mercato del lavoro globale. Se tutto il lavoro da fare nel mondo (e il profitto che ne deriva) si concentra nelle mani di un piccolo numero di multinazionali, come si puo’ garantire la creazione in massa di posti di lavoro per una popolazione mondiale che ha ormai raggiunto i 7 miliardi?
Il problema e’ esacerbato dal fatto che nei nuovi settori digitali e dell’hi-tech, il lavoro viene fatto  soprattutto dagli algoritmi piuttosto che dalle persone. E’ impressionante costatare che un’azienda come Facebook che e’ appena stata quotata in borsa con un valore stimato di 104 miliardi di dollari, dia lavoro a poco piu’ di 2000 persone.

Credo che di queste dinamiche si legga troppo poco nella stampa e nelle pubblicazioni specialistiche. Al contrario, forse troppi economisti si occupano delle economie nazionali in competizione tra di loro, privilegiando la chiave di lettura del PIL. Molta microeconomia si concentra sull’analisi della competitivita’ delle imprese sui mercati dei beni e dei capitali, piu’ raramente delle ripercussioni dei loro comportamenti sul mercato globale del lavoro. I monopoli vengono ancora troppo spesso problematizzati sul piano nazionale, piuttosto che globale, con la situazione contraddittoria per cui gli stessi economisti liberisti che promuovono lo smantellamento dei monopoli nazionali pubblici, tollerano o addirittura sostengono i monopoli globali privati.

Sono poi da considerare le conseguenze sul piano della produzione culturale. Nella sua “corsa disperata” per la saturazione del mercato (cosi’ la definisce un blog della rete), la Sky Television di Robert Murdoch ha finito per schiacciare i produttori indipendenti. In un’economia globale di questo tipo gli operatori economici piccoli e alternativi possono trovarsi di fronte a una scelta difficile: o si allineano con le strategie industriali dei grandi (puntando per esempio ad essere acquisiti o partecipati), o rischiano di non trovare alcuno spazio di mercato. Lo stesso dilemma si pone a molte start-up e imprese di successo, in tutti i settori: stando ai numeri recentemente proposti dall’Economist, sempre piu’ si preferisce farsi acquisire da un grande gruppo piuttosto che la quotarsi in borsa come azienda indipendente.

Ritengo infine che occorra rimettere in discussione il concetto di monopolio cosi’ come e’ stato utilizzato finora. Se continuiamo ad associare prezzi alti e qualita’ bassa come principali sintomi negativi dei monopoli, potremmo non accorgerci piu’ di loro. Se i  suoi brevetti escludono i concorrenti, il monopolista Google non puo’ che offrire una qualita’ a prima vista imbattibile. Oltretutto si tratta di un servizio gratuito per i consumatori, quindi perche’ mai dovrebbe essere un problema?
I problemi a mio avviso vengono alla luce quando allarghiamo il focus delle nostre considerazioni economiche. Non dimenticandoci che l’economia e le persone hanno anche bisogno di lavoro, oltre che di consumo. Considerando le singole decisioni micro-economiche in relazione al macro-quadro economico globale, non solo come fini a se’ stesse.

giovedì 19 aprile 2012

Capitale globale contro esigenze locali

Non glielo avessi mai detto. Ma forse lo avrebbe fatto lo stesso. L’autista sfreccia spericolato sui viali di Milano, cercando di non farmi perdere il treno. In un battibaleno siamo gia’ in stazione Centrale: scendo e mi affretto verso i binari al piano superiore. Fine della corsa: un’enorme scala mobile fiancheggiata di negozi si para sulla mia strada, non sale dritta ma in uno strano e lunghissimo zig-zag. Cerco le indicazioni dell’ascensore, ma non le trovo. Non mi resta che prendere l’improbabile nastro, che mi costringe ad ammirare le diecine di nuovi negozi di questa stazione ferroviaria recentemente tramutata in centro commerciale.

Arrivato al binario, scopro che il treno e’ in ritardo. Poco male, mi dico, ne approfitto per comprare uno di quei eccezionali panini che vende il supermercato sui primi binari. Mi giro e scopro a malincuore che la rivendita di panini e’ sparita: al suo posto, Geox. Rimango colpito da come le ragioni commerciali siano riuscite a prevalere su ogni logica di buon senso: in una stazione ferroviaria dovrebbero avere precedenza le vie di accesso e deflusso dai treni, non da ultimo per ragioni di sicurezza. Le rivendite di bibite e panini rispondono a un bisogno immediato dei viaggiatori; assumo che chi prende un treno sia gia’ dotato di scarpe…

A proposito di scarpe. Sono in cerca di un nuovo paio nel centro di Padova. Finisco in una bottega storica di corso Vittorio Emanuele. Il titolare chiacchiera e mi racconta di come molti negozi del centro siano a rischio estinzione: arrivano i grandi marchi con tanti soldi e si comprano i loro spazi. Sommariva, bellissimo caffe’ e pasticceria storica, ha appena venduto a Tommy Hilfinger, e la stessa fine potrebbero farla presto i colleghi di Baessato. A suo tempo, Ricordi Media Store, storico negozio di musica, aveva gia’ ceduto a Prada. Beni di lusso e di alto profilo scalzano esercizi commerciali orientati alla socializzazione e alla cultura.

In assenza di politiche di contenimento e di visioni alternative sembra che nel mondo odierno tutto sia destinato a soccombere a logiche esclusivamente commerciali. I grandi capitali hanno talmente “bisogno” di essere investiti, che in assenza di paletti spazzano qualsiasi resistenza. Potrebbe andare bene se queste dinamiche fossero allineate con i bisogni piu’ importanti della maggior parte della popolazione, nel rispetto e nella valorizzazione del patrimonio culturale e ambientale. Non e’ questo il caso il piu’ delle volte: aree verdi su cui si potrebbero costruire parchi a beneficio di tutti vengono sacrificate ad enormi edifici contenenti moderni uffici, negozi, residenze e hotel, che non si capisce quanto possano essere utilizzati e da chi. Il tutto si trascina dietro altrettanto enormi vie di accesso, strade, rotonde, ponti, parcheggi, stazioni di servizio e di ristoro. I committenti sono sempre piu’ spesso i grandi gruppi multinazionali, distanti dal territorio e pilotati da un’urgenza di crescere ad ogni costo per soddisfare ancora piu’ lontani investitori e portatori di interesse. Si concorre per il portafoglio dei cittadini: fatta 100 la capacita’ di spesa dei visitatori di Padova, i pochi giganti globali competono direttamente con le molte botteghe locali, prefigurando uno scenario per cui se prima del profitto totale beneficiavano in 100, adesso ne beneficiano in 10. Posto che il cambio di offerta commerciale puo’ impattarne la domanda: non trovando piu’ Sommariva e Baessato in molti potrebbero rinunciare alla socializzazione dell’aperitivo; trovando Prada in pochi si concederanno una borsa di lusso.

Sembra quindi che l’entrata dei grandi marchi multinazionali nelle economie locali abbia, tra molte altre, due conseguenze importanti: da una parte la concentrazione dei profitti in meno tasche, frontiera elitistica del capitalismo che si auto-alimenta (saranno le stesse elite che poi acquisteranno da Prada); dall’altra l’allontanamento della nuova offerta commerciale dai bisogni e dalla cultura del territorio. La logica commerciale di molte imprese multinazionali a partecipazione azionaria e’ puramente quantitativa: se il proprietario di un’attivita’ locale potrebbe preoccuparsi delle tante qualita’ della propria citta’ (se non altro perche’ vi ci risiede), gli stakeholders lontani potrebbero essere esclusivamente preoccupati che cresca il valore delle proprie azioni (se un’azienda quotata non cresce potrebbe presto essere venduta o fallire).

Un’altra possibile conseguenza di tale orientamento esclusivo ai volumi e’ che le aree urbane vengano sempre preferite alle altre per ogni tipo di investimento commerciale. Piu’ la citta’ e’ grande, piu’ ci sono soldi da fare, piu’ e’ interessante. In assenza di interessi personali da parte del potenziale investitore, piu’ una citta’ e’ piccola, piu’ diventa irrilevante. Ed e’ anche forse per questo motivo che il divario tra centri e periferie incrementa sempre di piu’, e lo sviluppo del mondo odierno e’ sbilanciato verso le grandi aree metropolitane. Stando ad alcune stime, nel 2050 il 70% della popolazione mondiale potrebbe vivere all’interno di una qualche urbanizzazione.

Come prevedibile, inoltre, il fenomeno di espropriazione di risorse e infrastrutture locali da parte dei capitali globali non si limita ai settori commerciali. Intacca anche il settore abitativo: acquisendo immobili nelle localita’ piu’ desiderate e prestigiose, le elite mettono fuori mercato le popolazione locali. Basti pensare a molte giovani coppie di Venezia, Cortina o Parigi: sarebbero felici di costruire famiglia nelle loro citta’, ma sono costretti a farsi da parte per i prezzi troppo alti pagati da persone benestanti non locali che cercano un pied-à-terre da utilizzare poche volte l’anno. A riprova della lontananza del capitale globale dai bisogni del territorio.

A questo punto, la soluzione sembra ovvia: ci vuole piu’ politica, piu’ norme per tutelare il territorio. Citta’ e regioni dovrebbero alzare i paletti e dotarsi di una nuova vision del futuro. Non fosse altro promuovendo esercizi commerciali che fondono tradizione locale e nuove sensibilita’, come la boutique “Ethik kusst Asthetic” (“L’etica bacia l’estetica”) in cui mi imbatto nel cuore di Zurigo, o il negozio d’abbigliamento “Natura” che scopro a Santiago di Compostela. Il problema sembra essere quello che molte amministrazioni locali non vedono molte altre opzioni per fare cassa e creare nuovi posti di lavoro che non quella di aprire le porte ai capitali globali. Capitali che a volte arrivano da attivita’ illegali in altre zone del mondo, e hanno un’urgenza di essere smaltiti. Quello che leggo e’ che dietro parte della cementificazione in corso in regioni italiane quali il Veneto, la Lombardia o il Lazio si nascondono anche i soldi delle mafie meridionali. Dietro parte dei bar rilevati da cittadini cinesi, si potrebbe nascondere il denaro della mafia cinese. In Spagna si parla ormai di “ghost towns”, costruite dalla bolla immobiliare e per nessuno. Nei paesi emergenti e in via di sviluppo, lo stesso problema potrebbe assumere dimensioni colossali. Purtroppo, con la svendita del territorio si sancisce la definitiva sconfitta sia della politica che dell’economia: la prima perche’ non tutela e non offre visioni alternative; la seconda perche’ non risponde a nessun tipo di bisogno, contro ogni logica di buon senso.

Il paradosso e’ che con tutti questi nuovi edifici e strade scintillanti in molti siamo portati a credere che si stia andando nella direzione giusta, quella dell’”inevitabile” modernizzazione. Nessuno vuole negare che, nella giusta dose, l’architettura e il design moderni non portino nuova bellezza, energia e vitalita’ alle nostre citta’. Nei modi corretti, le grandi catene commerciali contribuiscono ad abbassare i prezzi per i consumatori, elevare un certo standard di servizio e creare lavoro nei paesi piu’ poveri del mondo. Se ben utilizzata, una certa concentrazione di capitale nelle mani di pochi puo’ diventare massa critica per le grandi innovazioni del futuro, piuttosto che per fondazioni culturali o iniziative umanitarie. Il punto, a mio avviso, e’ proprio questo: nei giusti modi e nella giusta misura. E con grande sensibilita’ culturale ed etica.

Capitale globale? Si’, ma come, dove e quando decido io, il territorio. Nel frattempo, consoliamoci nel fatto che, da quel che sembra, tutto il mondo sia nella stessa barca: se e’ vero che se non controllati i capitali globali possono giocare a sfavore dei singoli territori, e’ anche vero che i capitali globali, per definizione, uniscono e accomunano il mondo. Se oggi non abbiamo guerre mondiali, forse e’ anche e soprattutto merito della globalizzazione.

venerdì 3 febbraio 2012

Sotto le ali del Cristo

E’ ormai notte fonda. Lancio un ultimo sguardo fuori dal finestrino prima di chiudere la tendina e cercare di dormire qualche ora. Sotto di noi il porto algerino di Orano disegna eleganti geometrie di luci. Sullo sfondo, il bagliore delle coste andaluse: il nostro aereo sta spaccando Africa e Europa, in una corsa forsennata verso Dakar, l’Atlantico Meridionale, Recife e, come meta, Rio De Janeiro.

Dalla pista di atterraggio si ha un primo assaggio della magnificenza dello scenario naturale: la Serra da Mantiqueira cinge pedissequamente l’area metropolitana di Rio; il suo profilo e’ cosi’ fitto e seghettato che ricorda le montagne disegnate da un bambino. Circumnavigando la Baia de Guanabara, il taxi mi conduce a Santa Tereza, quartiere del centro citta’ abbarbicato su una collina. Mi lascio sorprendere dal suo flavour tutto speciale quanto improbabile, una sorta di “decadenza eclettica tropicale”: vecchie ville barocche e nuove baracche in lamiera costellano un angolo immutato di foresta tropicale, pregnante negli odori, nella luce e nei suoni che emana.

Esco dalla pousada in infradito e maglietta consunta, conformandomi al vestire semplice e spesso misero di buona parte della popolazione locale. Oggi e’ domenica ed e’ l’unico giorno a mia disposizione per esplorare la citta’. Da domani affianchero’ una delegazione della Banca Mondiale, per avviare una collaborazione sui temi del trasporto sostenibile tra lo Stato di Rio de Janeiro e il laboratorio di MIT per cui lavoro. Ancora frastornato dal viaggio, mi immolo nelle consacrate spiagge di Copacabana e Ipanema, dove continuano ad affluire gli abitanti delle due sovrastanti favelas. Il litorale e’ tripudio di vita, trasuda dell’energia di quel mondo che noi occidentali chiamiamo “in via di sviluppo”: ragazzi, famiglie e tanti bambini si precipitano e si accalcano in ogni tipo di divertimento. In acqua, sulla sabbia, sulla passeggiata lungomare, sugli scogli. La folla e’ immensa, il vociare assordante. Il melting pot delle tanti sezioni di spiaggia mi ricorda che cosa e’ veramente il mondo.

Sono quasi le nove e mezza, e io sono ancora bloccato dentro un taxi nella downtown di Rio. Nell’ultimo quarto d’ora abbiamo percorso 20 metri, presumibilmente a causa dei lavori in corso. Scendo esasperato, chiamo l’organizzatrice della missione per comunicare il ritardo, corro verso la sede dell’Estado do Rio de Janeiro. Solo per scoprire che non e’ arrivato ancora nessuno. Sono tutti in ritardo. I partecipanti alla nostra prima riunione arriveranno a singhiozzo nel corso dell’ora e mezza successiva, con calma e con grandi abbracci per tutti. Scopro la fluidita’, l’imprevedibilita’ e il vivere alla giornata del Brasile. Si entra in ufficio come si entra in casa, ricercando il calore e l’informalita’ di una grande famiglia. Perlomeno negli uffici pubblici di Rua Mexico.

Non serve molto tempo per cogliere la vastita’ delle trasformazioni e delle sfide che stanno investendo questo angolo di mondo. La principale preoccupazione degli esperti di urbanistica e trasporti che incontro e’ la “governance” dell’area metropolitana di Rio, ovvero come pilotare lo sviluppo di una citta’ diffusa che gia’ ospita oltre 11 milioni di abitanti. E’ il settore privato quello che traina la crescita: la recente scoperta del petrolio sottomarino al largo della costa, insieme alla costruzione di nuovi poli siderurgici e petrolchimici (da parte di multinazionali alla ricerca di normative ambientali meno stringenti di quelle occidentali), richiama immigrazione non qualificata e genera insediamenti abitativi spontanei come quelli delle favelas. Al settore pubblico non resta che rincorrere queste dinamiche, costruendo case, ospedali e scuole al servizio dei nuovi insediamenti, e aprendo nuove direttrici geografiche intorno alle quali progettare il futuro sviluppo.

C’e’ pero’ un problema di disincronia tra tempi del mercato e tempi della pianificazione: le esigenze produttive non aspettano i piani regolatori, e se necessario si corrompono i funzionari governativi. La tecnologia, le competenze e l’univocita’ di scopo delle multinazionali battono sui tempi i processi decisionali partecipativi e (spesso) l’impreparazione delle pubbliche amministrazioni. A pensarci bene, potrebbe essere uno dei motivi per cui il dibattito sulle “smart cities” sta prendendo cosi’ piede in tutto il mondo in via di sviluppo: si tratta anche e soprattutto di imprese multinazionali che costruiscono dal nulla citta’ pensate in funzione delle proprie esigenze, sopperendo a un deficit del settore pubblico. Una mancanza non solo di velocita’ ma anche, spesso, di denaro: rimango impressionato di fronte ai budget messi a disposizione della Banca Mondiale per lo Stato di Rio de Janeiro, per guadagnare una qualche capacita’ di regia dello sviluppo, ma a volte solo per tappare i buchi creati dal mercato. Il risultato assomiglia sempre piu’ a un patchwork o pot-pourri: megalopoli che crescono alla velocita’ della luce attraverso spinte dal basso piuttosto che come frutto di un progetto, intervallando grattacieli a baraccopoli. In un paese poco abituato alle segregazioni spaziali e razziali come il Brasile, il contrasto e’ onnipresente.

E’ mercoledi’, sono le 11 di mattina e io sto per intraprendere la mia ultima visita sul campo. Appuntamento a “Central do Brasil”, la stazione centrale di Rio, per montare sul treno suburbano diretto al Complexo do Alemão. Si tratta di un insediamento di 5 comunidades – parola che si vuole sostituire a favelas – che dal 2010 vivono in relativa tranquillita’ sotto occupazione militare. Prima del successo del programma UPP (Unidad de Policia Pacificadora) molte persone vi circolavano solo se munite di 1 o 2 fucili al collo: il controllo dei narcotrafficanti sulla comunita’ era assoluto. L’esperienza del breve viaggio in treno e’ commovente: solo il rumore della vecchia ferraglia e le grida dei venditori di caramelle rompono il silenzio senza speranza dei poveri e dei disperati di ogni sorte che popolano i vagoni. L’umanita’ dell’esperienza e’ dirompente e non posso trattenermi dal pensare a quanto illusoria sia la maggior parte dei nostri problemi di persone agiate di fronte a tali realta’. La tragedia e’ che, nei paesi ricchi, nostro malgrado, non ce ne rendiamo conto. Per un istante si ha la sensazione di mettere i piedi per terra.

Scesi dal treno, mi aspetta un giro in funivia. Non potevo sottrarmi dal montare sulla “periferica do Alemão”, una delle piu’ grandi innovazioni trasportistiche e sociali a cui riesco a pensare; gli occhi del mio accompagnatore brillano di orgoglio e di entusiasmo. Copiata da Medellin in Colombia, la funivia collega le 5 colline che ospitano le 5 favelas con altrettante fermate. Consente di risparmiarsi percorsi in salita e a zig-zag che a piedi richiedevano ore, se non mezze giornate per gli abitanti delle comunita’ piu’ interne. La linea e i piloni spaccano i centri abitanti in due meta’ speculari, rendendoli piu’ facilmente monitorabili e sbrogliando l’intrico urbanistico che li rende cosi’ vulnerabili alla soggiogazione malavitosa. La mia visita e’ breve, e’ gia’ ora di rimontare in treno. Osservo la statua del Cristo Redentore che domina la citta’ da ovunque gli si rivolga lo sguardo. Ora sembra assumere tutta un’altra valenza.

Lascio il Brasile travolto dal samba del taxi per l’aeroporto. La mattina successiva sono gia’ a Parigi Charles de Gaulles, e quindi in Italia. Mi si chiede in tono preoccupato se sto bene, e io domando perche’. Apprendo che alle 8 di sera del giorno precedente e’ crollato un vecchio grattacielo della downtown di Rio, trascinandosene giu’ altri due. A due isolati dal vecchio edificio di Rua Mexico dove fino a due ore prima c’ero dentro anch’io. Ringrazio anch’io il Cristo Rendentore e dedico un ultimo pensiero all’incredibilta’ e improbabilita’ di questa metropoli: “con nessun’altra citta’ al mondo sono state la natura e l’uomo cosi’ generose che come a Rio De Janeiro” dicono i carioca. Distillato di sublimazioni e di paradossi del mondo.

mercoledì 7 dicembre 2011

I mille volti dell'apprendimento

Seduto sull’aereo di ritorno da Boston, mi cade l’occhio sulla rivista del vicino. Si tratta di Forbes: in copertina, a tutta pagina, domina la foto commemorativa di Steve Jobs. Chiedo a prestito il giornale e scopro che ogni sua singola pagina e’ dedicata alla vita di questo grande innovatore. Ripercorro a ritroso il suo percorso lavorativo e di vita e nel farlo mi trovo a ragionare di apprendimento. Come ha fatto Jobs a costruire tale impero?

Le prime pagine sono quelle che mi colpiscono di piu’: apprendo che prima di avere successo con Apple, Jobs passa attraverso molteplici iniziative imprenditoriali senza successo. Jobs e’ uno sperimentatore, e in quanto tale e’ alla ricerca di situazioni non ancora codificate in cui si possa prendere carico in prima persona di una nuova sfida. Oltre a essere un curioso sperimentatore, Jobs viene definito unanimemente “genio”. In quanto tale sa di esserlo e fa sempre le cose di testa propria, con testardaggine e determinazione, senza cercare i consigli di chi e’ piu’ esperto di lui. Al contrario, sembra mosso dalla volonta’ di dimostrare a tutti gli altri che alla fine ha ragione lui. Nel far questo, ovviamente in quanto inesperto, commette molti errori. Da cui, pero’, impara.

Mi concedo di avanzare una prima ipotesi rilevante per il mondo dell’educazione e della formazione, senza pretendere di essere il primo e l’unico a teorizzarla, ne’ tanto meno di dare giudizi di merito. Da un certo punto di vista e in tutte le sfumature di grigio piuttosto che in bianco e nero, nell’universo dell’apprendimento si distinguono soggetti sperimentatori da soggetti “affiliati”. Questi ultimi preferiscono apprendere all’interno di percorsi ben codificati, facendo propri i punti di riferimento offerti da maestri, esperti, scuole di pensiero o discipline accademiche. I loro percorsi sono lineari e orientati al riconoscimento all’interno di comunita’ di persone e di valori ben definite. Per molti versi, gli affiliati vivono piu’ serenamente degli sperimentatori, che invece si espongono maggiormente a quello che non sanno, trovandosi a gestire piu’ incertezza e a commettere piu’ errori.

D’altro canto, pero’, incertezza ed errori sembrano essere formidabili veicoli di apprendimento. La prima perche’ ci forza a immaginare molteplici soluzioni a un problema, un po’ come e’ chiamato a fare un ricercatore. I secondi perche’ ci si imprimono nella memoria. Chi sbaglia impara, e forse non c’e’ apprendimento piu’ efficace di quello che nasce da un errore, perche’ ne abbiamo vissuto le conseguenze sulla nostra pelle. Certo, e’ necessario essere in grado di riconoscere gli errori come tali, piuttosto che rileggerli con una chiave di lettura a se’ favorevole: anche in questo mi sembra che gli sperimentatori siano agevolati (o sfavoriti, a seconda del punto di vista), perche’ a differenza degli affiliati potrebbero non avere epistemologie forti all’interno delle quali cercare giustificazioni e conforto.

Un’altra via maestra per l’apprendimento, per lo meno a giudicare dalla mia limitata esperienza professionale, e’ quella dei momenti di sintesi e di bilancio. Durante queste occasioni si e’ in grado di mettere insieme pezzi diversi di esperienza e di conoscenza, ricostruendo piu’ chiaramente le dinamiche degli eventi e individuandone le cause (quello che gli americani chiamano “connecting the dots”). Recentemente mi e’ capitato di dovere preparare una presentazione sulla mia iniziativa imprenditoriale in Olanda, a distanza di qualche mese rispetto a quando le attivita’ in quel paese si erano concluse. Anche grazie allo stacco temporale, preparare la relazione mi ha offerto l’opportunita’ di rileggere l’esperienza maturata in modo unitario e con sufficiente distacco emotivo, facilitando una comprensione di piu’ alto livello sul come erano andate le cose.

Un fenomeno simile di sintesi – per altro molto studiato dagli esperti – sembra attivarsi allorquando la mente si trova improvvisamente e interamente assorbita da qualcosa di diverso e di piacevole, dopo essere stata impegnata continuativamente da una serie di stimoli nuovi o da un problema da risolvere. Non credo sia un caso se i momenti piu’ creativi dei miei soggiorni a Boston si inneschino durante i voli notturni di ritorno in Europa, piuttosto che in autobus di ritorno dal weekend a New York. Tale apprendimento di sintesi sembra fortemente facilitato dalla scrittura o dalla conversazione, momenti che ci forzano ad esplicitare le connessioni tra concetti.

Da ultimo, considero quella dimensione dell’apprendimento legata alla visione del punto di arrivo delle proprie azioni e del proprio percorso. Lavoro da molto tempo con ingegneri e tecnici, e continuo a rimanere affascinato dalla loro grande capacita’ esecutiva. Ancorando la programmazione a un “diagramma di flusso”, individuano linearmente le azioni da intraprendere: faccio A, poi faccio B, quindi faccio C. A volte pero’ tale ingegnerizzazione porta con se’ un risvolto negativo, in quanto la visione dello step presente e di quello immediatamente successivo preclude quella dell’obiettivo finale. Di conseguenza, anche straordinari esecutori potrebbero non riuscire ad anticipare i problemi e le opportunita’ disseminati lungo il percorso, correndo il rischio di arenarsi agli step intermedi nell’attesa che venga detto loro che cosa fare.

Forse anche per questo motivo i paradigmi educativi emergenti enfatizzano il cosiddetto “pensiero laterale”, quello che consente di imboccare strade diverse per arrivare alla stessa destinazione. Questa dote potrebbe andare di pari passo con una forte visione d’insieme o olistica delle cose, che tra l’altro facilita l’ingegnerizzazione a ritroso del corso delle azioni (“reverse engineering”): avendo ben chiara la destinazione, capisco che e’ necessario passare da C, e prima da B, e prima da A. I percorsi formativi umanistici sembrano agevolare approcci olistici e finalistici, posto che un background esclusivamente umanistico potrebbe produrre grande visione strategica ma minore capacita’ esecutiva.

In definitiva, mi sembra che sperimentare, affiliarsi, sintetizzare, ingegnerizzare e “strategizzare” siano tra gli strumenti piu’ importanti per l’apprendimento di piu’ alto livello. L’indole e la storia formativa di ognuno di noi ci incanala piuttosto naturalmente verso l’uno piuttosto che l’altro, e padroneggiarne uno o due risulta gia’ molto difficile. Resta il fatto che la consapevolezza dell’esistenza dei “mille volti dell’apprendimento” puo’ allargarci gli orizzonti e spingerci verso nuovi esperimenti. Spianando la strada verso una delle esperienze piu’ gratificanti e motivanti per gli esseri umani, quella di mettere a miglior frutto le nostre conoscenze e le nostre esperienze.

martedì 15 novembre 2011

Concentrazioni di ricchezza e crisi finanziarie

Da qualche tempo sembra che non si senta parlare d'altro che di crisi finanziarie e bolle speculative. Nel 2000 scoppia la crisi della new economy; nel 2008 e’ la volta dei mutui subprime; nel 2010 tocca ai debiti sovrani nell’area dell’Unione Europea; presto forse tocchera’ alle carte di credito americane o a qualcos’altro. Il fenomeno assume forme diverse ma sembra rimanere fondamentalmente lo stesso: si fa credito a qualcuno che si scopre poi non essere in grado di ripagare. Le banche restano protagoniste, insieme a vecchi e nuovi istituti finanziari. Di volta in volta i soldi vengono messi nelle mani di: aspiranti imprenditori poco affidabili; aspiranti compratori di case poco affidabili; stati nazionali poco affidabili; consumatori poco affidabili.

Alla luce di tali premesse, mi domando: come e’ possibile che negli ultimi anni gli investitori si prendano un granchio dopo l'altro? Una risposta che reputo plausibile e’ la seguente: gli operatori hanno talmente tanta ricchezza da gestire, che quando esauriscono tutte le opzioni piu’ ragionevoli di investimento, cominciano ad abbassare i requisiti e ad assumersi piu’ rischi. Quando tutti i porti sicuri sono stati scoperti e sono gia’ in via di sfruttamento, ci si avventura verso mete piu’ incerte e rischiose. Questo e’ probabilmente tanto piu’ vero quanto i soldi che l’investitore si trova a gestire non sono i propri, e le responsabilita’ personali di un futuro fallimento non sono chiare (al riguardo, si pensi alle derivate come nuovi strumenti di frammentazione della proprieta’ e della responsabilita’).

Sintetizzando, mi chiedo: e’ possibile che – a monte di molte altre cause – la genesi delle recenti crisi finanziarie sia da ricercare nell’eccesso di capitale a disposizione degli operatori finanziari? E’ possibile che il mondo della finanza globale assomigli sempre piu’ a una vasca idromassaggio (quando a capacita’ di generare bolle) per un problema di eccessiva disponibilita’? E se questo e’ il caso, che cosa e’ ha consentito che cosi’ tanta acqua di accumulasse in tale vasca?

Cerco di darmi una risposta pensando a quello che economisti del calibro di Stiglitz e Krugman considerano uno dei portati piu’ dannosi della globalizzazione cosi’ come attualmente condotta: la concentrazione di straordinarie quantita’ di ricchezza – frutto di nuove efficienze sul lavoro e di nuove tecnologie – nelle mani di pochi. Una volta raggiunto il tetto di beni materiali acquistabili, e’ plausibile pensare che queste persone riversino in massa il resto del loro denaro nelle mani delle banche e degli istituti finanziari. Non solo tale immensa dislocazione equivale a sottrarre liquidita’ immediata all’economia reale, ma in seconda battuta (quando cioe’ quelle risorse vengono investite) puo’ addirittura sfalsarla: si pensi a quanti immobili vengono acquistati come puro investimento, contribuendo a far lievitare i prezzi a danno di chi ne avrebbe effettivamente bisogno. D’altronde, in assenza di un vaglio politico, la finanza globale punta alla massimizzazione: il capitale va dove e’ meglio compensato, piuttosto che dove c’e’ una effettiva necessita’.

Poste queste premesse, uno dei migliori stimoli all’economia reale e alla tanto agognata crescita potrebbe essere quello di rimettere il denaro in mano a chi ha effettivamente bisogno di spenderlo. Pensiamo a un milione di euro in mano a un’unica persona che ne ha gia’ dieci, piuttosto che a mille persone che non ne hanno proprio (mille euro a testa). Nel primo caso e’ altamente probabile che buona parte della somma venga dirottata in conti corrente e circuiti finanziari; nel secondo e’ altrettanto probabile che la stessa somma venga interamente spesa.

Uno dei vizi originari delle odierne crisi economiche sembra quindi risiedere nell’iniqua distribuzione della sempre maggiore ricchezza generata dal lavoro e dalla tecnologia. Lo straordinario divario negli stipendi dei lavoratori ne e’ la cartina di tornasole: se negli anni ottanta Adriano Olivetti imponeva che lo stipendio piu’ alto in azienda non potesse eccedere di 10 volte quello piu’ basso, al giorno d’oggi si parla di differenziali nell’ordine delle centinaia se non delle migliaia. Quello che rende la situazione ancora piu’ problematica e’ constatare che questo fenomeno avanza specularmente a quelli per cui, nei paesi occidentali:

- i salari medi stagnano;
- avanzano disoccupazione e incertezza nei contratti di lavoro;
- si moltiplica la delocalizzazione verso paesi in cui si i lavoratori possono essere pagati meno;
- gli stati sovrani sono costretti a smantellare lo stato sociale su richiesta dei mercati
(sempre piu’ gonfi di soldi dei super-ricchi);

In altre parole, a fronte di un eccezionale arricchimento di un’elite, si demanda un impoverimento di tutti gli altri e degli stati sovrani. Uno dei pochi risvolti pienamente positivi di un sistema tanto sbilanciato sembra essere quello dell’avvento delle fondazioni private, promosse da miliardari responsabili come Gates e Clinton, impegnate a rimettere in circolo i profitti nel mondo reale verso chi ne ha veramente bisogno.

Che cosa ha consentito di arrivare a questo punto? Krugman assegna grande responsabilita’ all’amministrazione Bush, promotrice di “deregulation” a tutti i livelli. In assenza di regole e di buone pratiche, quali incentivi possono avere le classi dirigenti a non alzarsi lo stipendio e i bonus? In un’arena economica globale in cui si compete all’esasperazione, quali incentivi puo’ avere un’azienda a non minimizzare i costi del personale “sostituibile” e usare remunerazioni stellari per attrarre a se’ i manager piu’ performanti? In tale circostanza di liberismo incontrollato, quello che mi sorprende non sono tanto i movimenti “Occupy Wall Street” o le proposte di Obama di alzare le tasse ai super-ricchi, quando piuttosto il fatto che tali reazioni arrivino solo adesso e con una forza relativamente modesta.

In conclusione, sembra quindi che il libero mercato senza regole lungi dal favorire un’allocazione efficiente delle risorse e quindi un’espansione dell’economia reale, favorisca una concentrazione inefficiente delle risorse stesse nelle mani delle banche e degli istituti finanziari. Nel 2008 l’amministrazione Obama reputava che il salvataggio dell’economia dovesse passare per il salvataggio delle banche? Stando ai dati sui prestiti alle imprese, volano per crescita ed occupazione, per ora sembra che le banche continuino ad interessarsi maggiormente ai circuiti finanziari piuttosto che a quelli reali. Non credo ci sia da sorprendersi: se le regole del gioco non cambiano, vale ancora il principio per cui il capitale va dove (si crede) verra’ meglio compensato, piuttosto che dove c’e’ un effettivo bisogno di esso.

mercoledì 26 ottobre 2011

Capire da dove veniamo, per accettare il presente e costruire il futuro

Scrivo di traffico e “me la prendo” con Padova in cui tante cose sembrano non andare per il verso giusto. Condivido le lamentele di tanti colleghi sul declino economico e morale dell’Italia, che per qualcuno costituisce addirittura motivo di vergogna all’estero. Nonostante tutto, spinto da un’indole ottimistica e costruttiva, mi metto alla ricerca delle ragioni profonde dell’attuale stato delle cose, convinto che visioni troppo pessimistiche o assolutistiche danneggino il morale e non concedano spazio a tutto quello che di buono sicuramente c’e’.

Parto dal percorso storico e dalle radici culturali dell’Italia e delle sue regioni. Incappo nel bellissimo “Veneti” del sociologo Bernardi e apprendo che i micro-insediamenti sparpagliati nel territorio (gli stessi che contribuiscono a far scomparire la campagna e a generare dinamiche anarchiche di traffico) sono nel DNA del territorio veneto. Si costruiva il prossimo campanile laddove il suono delle campane del precedente non arrivava piu’, cosi’ che il richiamo della comunita’ di fede potesse giungere a tutti. La volonta’ di riscatto dei contadini dal giogo dei proprietari terrieri contribuisce a far maturare un forte desiderio di autonomia, che trova massima realizzazione nel costruirsi la propria casa indipendente e fisicamente isolata da tutte le altre, nonche’ nell’avviare l’azienda di famiglia. Anche per questi motivi, la pianura veneta a tutt’oggi si presenta come “citta’ diffusa”, con poco verde, e molte strade, capannoni e traffico. L’essere venuto a conoscenza delle ragioni del passato, remoto o recente che sia, in qualche modo mitiga la mia frustrazione: mi mostra come a monte di una situazione negativa possano comunque esistere degli elementi positivi (“nobili” o semplicemente culturali) che pero’, nel contesto presente, producono effetti indesiderati.

Mi concentro sull’Italia. Traendo insegnamento dalla mia esperienza di vita e lavoro negli Stati Uniti, cerco di isolare dei fattori culturali che, a mio avviso, penalizzano il paese in un mondo di competizione economica globale. Penso a quello che la globalizzazione economica richiede alla aziende, e lo comparo (versus) con quello che sembra essere il modello italiano predominante:

- grande scala (versus: piccola scala o scala artigianale)
- innovazione a tutti i costi (versus: salvaguardia delle rendite acquisite e di posizione)
- controllo distribuito, da parte dei numerosi “stakeholders” coinvolti nell’impresa (versus: controllo accentrato, famigliare e padronale)
- standardizzazione dei prodotti, dei servizi e dei rapporti umani (versus: originalita’, artigianalita’ e spontaneita’ nei rapporti umani)
- massimizzazione degli obiettivi e del profitto (versus: soddisfazione nel processo di lavoro e nel profitto)
- attenzione all’analisi dei dati e al metodo scientifico nella presa di decisioni (versus: enfasi sull’intuizione)
- orientamento alla mobilita' professionale (versus: orientamento alla sicurezza professionale e alle posizioni a lungo termine)
- globalismo tout-court, enfasi su valori apparentemente universali (versus: attaccamento e amore verso la propria terra, enfasi su peculiarita’ culturali)

Traendo la somme sembra che l’“anima” della globalizzazione sia scientifico-tecnologica, un’emanazione diretta della cultura americana statunitense, mentre l’“anima” dell’Italia sia umanistica. Certo, si tratta di una generalizzazione verso gli estremi, valida probabilmente solo per parte dei casi aziendali e comunque in tante sfumature di grigio piuttosto che in bianco o in nero. Nonostante tutto, comprendere la realta’ dei fatti considerando anche ragioni culturali profonde di questo tipo aiuta ad accettarla.

E’ vero, non e’ il momento economico migliore per l’Italia e molte nostre imprese potrebbero essere travolte dall’onda d’urto della globalizzazione. E’ anche vero pero’ che non dobbiamo necessariamente vergognarcene, e sicuramente abbiamo ancora qualcosa di interessante da dire. Al contrario, la presa di coscienza della nostra estrazione culturale e storica puo’ essere di ispirazione per il futuro. Al riguardo, lavorando in settori hi-tech connessi alle metropoli globali, mi sono presto reso conto come lo sviluppo urbano di oggi – la produzione “di massa” di citta’ futuristiche di grattacieli e quartieri residenziali preconfezionati – palesi spesso un’assenza clamorosa di originalita’, raffinatezza estetica e dimensione umana di cui molti di noi italiani sono maestri. Come e’ possibile che il mondo odierno non sappia piu’ produrre le Firenze e le Urbino? Dove sono gli italiani di cui il mondo avrebbe cosi’ disperatamente bisogno?

In conclusione rifletto sul ruolo pernicioso giocato dalla stampa e dai mezzi di comunicazione italiani, quanto a presa di coscienza di potenziale positivo e approccio costruttivo. Per molte ragioni e cavalcando il declino della classe politica, i principali media italiani a tutt’oggi sembrano fare a gara a premiare il “peggio” e i “peggiori”, portandoli in prima pagina e dandogli spazio, a discapito di tutto quello che di positivo esprime il paese. I media avrebbero l’opportunita’ di aiutarci a capire da dove arriviamo e cosa potremmo fare, mentre purtroppo al momento fomentano ed esaltano le nostre paure. A volte finiscono per diventare caricatura di quell’Italia che si piange addosso e si lamenta di tutto. Spesso noi italiani sottovalutiamo l’importanza della conoscenza e della comunicazione, piuttosto che dell’onnipresente politica, quali leve virtuose per cambiare le cose. Ma e’ forse inevitabile imparare a capire ed accettare chi siamo per ricostruirci la meritata rotta verso il futuro?

mercoledì 21 settembre 2011

Accidenti al traffico

8.45 di mattina, zona industriale di Padova: fine della corsa.Una lunga coda di macchine si dispiega davanti a me. Anche in immissione da destra. Anche a sinistra. Vale forse la pena spegnere il motore della mia Y, che intanto continua ad emettere emissioni nocive: CO2 , PM10, NO2, CO…

Come in un film, immagino di poter “congelare” questo istante e mi chiedo che cosa induca ciascuna di queste persone chiuse come me dentro la propria scatola di automobile a trovarsi proprio qui, adesso, alle 8:46 e 21 secondi, in Via Uruguay.
Provo a pensare a una serie di ragioni concomitanti:

- le agende personali: c’e’ chi sta andando in ufficio, chi porta il bimbo a scuola o va a fare la spesa, chi si appresta a uscire dalla citta’ per uno spostamento di lavoro;
- gli orari “sociali” della citta’: aperture e chiusure degli esercizi commerciali, delle scuole, degli uffici, delle strutture ricreative e sportive;
- i luoghi di abitazione, lavoro e attivita’ terze di coloro che si spostano, posizioni che determinano i loro tragitti;
- la conformazione della citta’, degli isolati, delle strade: tutti noi stiamo spostandoci da un’origine a una destinazione, utilizzando le strade a nostra disposizione. A loro volta queste strade risentono della conformazione della citta’: posizione, forma e contiguita’ di isolati, aziende, parchi, edifici;
- la disponibilita’ e la posizione dei parcheggi;
- la disponibilita’ e attrattivita’ di mezzi di trasporto alternativi: autobus, biciclette, treni, taxi, piedi;
- la possibilita’ di sostituire il viaggio con la comunicazione a distanza: via telefono e via Internet.

Nel frattempo, sono ancora in coda. Ciascun punto della mia lista mi fa venire in mente uno scenario desiderabile:

- se solo le agende personali fossero meno dense…
- se solo gli orari della citta’ non si sovrapponessero, consentendo a chi si sta spostando per lavoro di non finire in coda con chi si sta spostando per altre ragioni…
- se solo i viaggiatori e le loro mete si trovassero piu’ vicini tra loro…
- se solo potessimo sempre viaggiare su una linea retta, invece che a zig-zag…
- se solo potessimo sempre trovare parcheggio immediatamente al nostro arrivo, senza dovere girare mezzora per trovare un posto…
- se solo potessimo prendere sempre la bicicletta o il tram…
- se solo potessimo sempre rinunciare allo spostamento grazie a Internet o a una telefonata…

Poi alzo gli occhi e cerco di fare un censimento delle automobili che mi circondano e delle persone al loro interno. 1 sola persona a bordo, 1 sola persona a bordo, 2 persone a bordo, 1 sola persona a bordo, 1 SUV, 1 utilitaria, 1 macchina di cilindrata alta, 1 Diesel, 1 SUV. Se solo potessimo sempre circolare con automobili poco inquinanti e condividerne i posti con qualcun’altro…

Arrivo in ufficio e cerco di capire perche’ Padova mi da’ sempre l’impressione di essere colma di vetture circolanti (relativamente alla sua media dimensione) e cinta in una morsa di circonvallazioni, tangenziali e autostrade. Sembra che la citta’ sia cresciuta in modo non pianificato, senza prevedere ne’ prevenire l’impatto del proprio sviluppo sul traffico. Ritorno alla lista di scenari auspicabili, e considero qualche elemento di criticita’:

- in molti luoghi si sovrappongono flussi lavorativi, residenziali e commerciali. Emblematico il caso del centro commerciale Giotto, delle torri di uffici della Stanga, e del quartiere fieristico: posizionati tra il casello autostradale di Padova Est e il centro cittadino contribuiscono a tappare per tutti l’ingresso in citta’. L’Ikea invece e’ posizionata direttamente all’uscita del casello, cosi’ che i suoi flussi dall’esterno non vanno a pesare sul traffico urbano;

- lo sviluppo residenziale si e’ esercitato poco in altezza, attraverso grandi palazzi tipicamente disposti su graticolati a linee rette, e molto rasoterra, attraverso villette mono-residenziali spesso non allineate tra loro. Tale sviluppo ha portato la citta’ ad espandersi a macchia d’olio a discapito della campagna circostante, con l’incremento delle distanze da percorrere e con piu’ lunghi percorsi a S per circumnavigare gli isolati e i loro interstizi di verde;

- esistono pochi parcheggi sotterranei o in altezza, con la conseguenza che le automobili dei pendolari e dei visitatori si trovano a competere con le automobili dei residenti per i pochi posti a bordo strada, contribuendo ad esasperare il traffico urbano;

- i mezzi di trasporto alternativi sono scarsi. Non esiste metropolitana sotterranea ne’ di superficie, una soluzione ideale perche’ su linea retta e senza interferenza sul resto del traffico. Relativamente al numero di auto in circolazione, gli autobus sono decisamente pochi e poco frequenti, e quindi ulteriormente penalizzati dagli utenti. Esiste una solo linea di tram. A dispetto di molte piste ciclabili, i ciclisti sono sopraffatti e penalizzati dal traffico veicolare.

Altri fattori sembrano contribuire a complicare ulteriormente la situazione: rispetto ai paesi del Nord Europa, in Italia stenta a prendere piede la flessibilita’ nella presenza lavorativa, intesa sia come lavoro da casa (per esempio durante 1 o 2 dei 5 giorni feriali) sia come flessibilita’ oraria di ingresso/uscita dal posto di lavoro. Di conseguenza, i due picchi giornalieri di traffico di “rush hour” perdono un’occasione per sgonfiarsi. Oltretutto, il tessuto produttivo locale si basa ancora per la maggior parte sulla produzione di beni e prodotti fisici, che a differenza dei nuovi prodotti a contenuto digitale necessitano di essere trasportati fisicamente. L’Interporto di Padova, uno dei piu’ grandi d’Italia e attrattore di centinaia di camion ogni giorno, e’ un buon affare per l’economia della citta’, ma un cattivo affare per l’ambiente.

Sembra quindi che il traffico urbano sia la punta dell’iceberg di questioni urbanistiche e sociali, un sintomo di fattori concomitanti piuttosto che un problema a se’ stante. Per questo motivo, gli interventi diretti sulle infrastrutture – costruzione e allargamento di strade – andrebbero considerate soluzioni “di ultima spiaggia”. Oltretutto che, se si cementeranno aree verdi, si sottrarra’ alla citta’ parte della sua capacita’ di assorbire lo stesso inquinamento da traffico. Meglio puntare a una piu’ intelligente regolamentazione della circolazione e a una piu’ accurata e pervasiva informazione ai viaggiatori, preventiva e in tempo reale. Su queste leve si battono eserciti di ingegneri e ricercatori di tutto il mondo, ma i loro modelli predittivi e di ottimizzazione devono comunque fare i conti con i vincoli urbanistici e sociali di cui si e’ discusso prima. I “trasportisti” operano in un settore ricco di finanziamenti e di grande attenzione pubblica; altrettanto dovrebbe succedere agli urbanisti, posto che una pianificazione urbana intelligente puo’ scontrarsi con gli interessi individualisti di costruttori, immobiliaristi, commercianti nonche’ singole comunita’ e abitanti. E non dimentichiamoci di quello che si puo’ fare quanto a cultura ed educazione alla mobilita’, punto di partenza per il miglioramento di abitudini individuali poco efficienti o troppo comode.

In definitiva, sembra che il traffico possa fungere da specchio della citta’ e della societa’ che lo produce: pianificato piuttosto che anarchico; concentrato in alcune fasce orarie piuttosto che distribuito; ricco di mezzi pubblici piuttosto che nel mezzi privati di grossa cilindrata. Per alcuni rimane un indicatore fedele dell’andamento delle attivita’ econonomiche: piu’ una citta’ e’ trafficata, piu’ e’ vitale, piu’ genera ricchezza. Per altri rimane un caposaldo della propria liberta’ individuale: non sia mai che mi venga impedito di muovermi, come e dove voglio. Certo, in coda, nessuno affermerebbe di sentirsi molto libero. Neanche in ospedale, vittima di malattie e cancri delle vie respiratori, di incidenti e di stress.
9.01: sono arrivato a destinazione. Parcheggio la macchina e penso agli olandesi, in bicicletta, sotto la pioggia.

giovedì 1 settembre 2011

Tributo alla Grecia

I motori si fanno roboanti, l’acqua del mare gorgoglia impetuosa in coda alla nave, un goffo testacoda ci proietta faccia a faccia con la terraferma. Di fronte a noi, il porto di Igoumenitsa.

Le vetture cominciano lo sbarco, mentre dal ponte i passeggeri contemplano la Grecia: montagne aspre e scoscese rivestite di macchia bassa e compatta, nuvole scure e minacciose, mare blu e spesso, scogli precipitati in mare; trambusto cittadino, truck scoperchiati, case non finite cinte da enormi terrazze, polvere, selva di cartelli pubblicitari pieni di fotografie e alfabeto greco, senso di Middle-East. Uno scenario paesaggistico drammatico, un biglietto da visita spettacolare per i viaggiatori che si sono lasciati alle spalle le lunghe e timide colline di Ancona, con la sua armonia equilibrata di luci e colori.

Noi rimaniamo a bordo, proseguiamo in direzione sud, dove ci attendono i coni “vulcanici” del golfo di Patrasso congiunti dal monumentale arco di Rion-Antiron, miracolo della tecnologia e ponte strallato piu’ lungo al mondo. Sbarchiamo. La luce abbacinante del Peloponneso e l’autostrada E55, in cui le macchine gareggiano e ti costringono in una spuria corsia di emergenza, ci ricordano cosa possa significare scendere sette gradi di latitudine nella pancia del Mediterraneo.

Poi, con nostro sommo piacere, ci si apre davanti la baia di Navarino: incorniciata da un uniforme declivio collinare popolato da infinite distese di ulivi, cinta da montagne coniche in entrata e in uscita, disegna un semicerchio perfetto di golfo e spiaggia, lasciandosi alle spalle una laguna, e separandosi dalla macchia blu del mare aperto attraverso una lingua di terra collinosa a forma di S rovesciata, l’isola di Sfaktiria. Sullo sfondo verde, una gemma bianca, in evidenza sia di giorno che di notte: il paesino di Pilos. Il panorama rasenta perfezione e completezza. Sembra di entrare in una cartolina.

La nostra vacanza si dispiega in modo regolare e prevedibile. Ci lasciamo sorprendere dagli “occhi di Venezia”, due fortificazioni protese nel bacino sud-est del mediterraneo che i veneziani utilizzavano come stopover nel loro tragitto verso la terra santa. Indulgiamo nei giardini del monastero di Koroni, celebrazione del Mediterraneo: completo della totalita’ delle sue piante e dei suoi frutti, magnifica l’olfatto e la vista di qualsiasi visitatore. Dalle sue sommita’ si dispiega la veduta del Mani, la penisola attraverso cui la catena del Tagete precipita in mare: a tratti tanto gialla, aspra e spoglia che sembra caduta dalla luna.

Il resto, e’ vita di mare. In spiagge piu’ o meno recondite, o in pittoreschi paesini di pescatori in cui si respira la famosa “atmosfera” della Grecia. Mi chiedo di che cosa questa si componga, andando a isolarne alcuni elementi, nel punto di congiunzione tra architettura urbana e architettura del paesaggio. Si tratta di un contesto fisico particolarmente conduttivo al benessere e alla convivialita’, compendiato qui in Messenia dalla gentilezza e deferenza dimostrata dalla maggior parte degli abitanti del luogo e dei visitatori. Anzitutto, la rilevanza del verde e degli elementi naturali all’interno degli spazi costruiti: le coperture di verde che sovrastano gli spazi aperti delle taverne o addirittura alcune piazzette o fette di spiaggia si avvicinano a opere d’arte. Vite, palma, alberi da fiore e da frutto, o addirittura enormi platani avviluppati tra loro, regalano piacere alla vista e all’olfatto, oltre che un surplus di ombreggiamento e ossigenazione.

La ricerca del connubio con la natura non si limita al verde: sorprende notare quanti ristoranti posizionino i propri tavolini in plateatici talmente a ridosso del mare, che ci si augura che non venga mai a cedere nessuna sedia. Chi cena sul mare, cosi’ come chi sorseggia un drink nei piani alti aperti o finestrati dei locali, godra’ di un’altra cosa alla quale i greci sembrano fare molta attenzione: il panorama sul paesaggio, sia esso quello naturale o quello “umano” della via sottostante. Il tutto accompagnato da un fresco tzaziki, da un bicchiere d’acqua che viene servito gratuitamente non appena ci si siede, nonche’ dalle melodie avvolgenti della musica greca, di gran lunga ancora la piu’ popolare e carica di esotiche sonorita’ medio-orientali. Questa propensione naturale verso il “chill-out”, il meritato rilassamento, trova la sua apoteosi nei beach bar, stilosi locali su spiagge altrettanto meravigliose: nonostante la ricercatezza “milanese”, un obrellone e uno sdraio sono alla portata di tutti. Gli ospiti europei parlano inglese, navigano con il Wi-Fi, si compiacciono di fare quelli avanti anche nella remotezza del Peloponneso. Buona parte di loro sviluppera’ forme piu’ o meno gravi di saudade verso la Grecia, ma vi faranno ritorno molto presto…

Torno a casa e scopro che nei giornali la G di Grecia sta per terza lettera di “PIGS”, acronimo che paragona Portugal-Italy-Greece-Spain (paesi europei accumunati dalla crisi del debito pubblico) a un branco di maiali. Poi accendo la televisione e osservo le rivolte di Atene: volti bardati, rabbia collettiva, distruzione, fuoco. Il trattamento riservato dai media a questo paese mi sembra non fare giustizia di tanta bellezza vissuta. Certo, i nodi vengono al pettine per la Grecia: cosi’ come il mondo globalizzato concede ai paesi sovrani di vivere al di sopra dei propri mezzi, allo stesso modo prima o poi arriva a chiedere il conto. E ci si dovra’ abituare a standard di vita piu’ bassi. Voglio dire, le cose possono andare molto peggio: apro Google Earth e misuro 438 km tra Pilos e le coste della Libia, meno di quanti dividano Milano da Roma ed esattamente quanti separano New York da Washington DC. Mentre noi stavamo sorseggiando un freddo cappuccino deliziati dalla lounge music, 438 km piu’ a sud si stavano sparando dietro.

Certo, un tributo alla Grecia non si puo’ concludere con una nota cosi’ triste. Meglio portarsi dietro la memoria di tutta la magia di questo paese a cavallo tra l’Europa e il Medio Oriente. E continuare ad apprezzare la bellezza e la positivita’ di cui tutti i paesi del mondo sono colmi, Libia compresa, nonostante i mono-temi che ci propongono i media e le difficolta’ del momento.
Straccio i giornali di fronte a me e mi crogiolo nei ricordi.


martedì 30 agosto 2011

Sulle fratture della globalizzazione: alla scoperta del Brasile

Un pungente odore di muffa pervade la stanza, i vecchi mobili in legno appaiono contriti dall’umidita’ dell’equatore. Fuori Belem, metropoli brasiliana porta d’ingresso dell’Amazzonia. Ancora ho negli occhi il paesaggio che ha deliziato il mio atterraggio: il delta del rio delle Amazzoni, fiumi marroni disegnati a serpentina sulla distesa verde della foresta vergine, scura e compatta. Da qualche tempo Manaus ha soppiantato Belem nei collegamenti aerei internazionali, cosi’ che per arrivarci dall’emisfero boreale la maggior parte dei viaggiatori scende fino al tropico del Capricorno, a San Paolo, per poi risalire all’equatore.

Questa zona del nord del Brasile e’ talmente fuori rotta che fino agli anni sessanta Belem intratteneva la maggior parte dei suoi scambi commerciali e culturali direttamente con l’Europa piuttosto che con il Brasile urbano del Sud-est e Sud. Ancora oggi, come non mai, gli affluenti piu’ reconditi del Rio delle Amazzoni vengono utilizzati a due sensi di marcia per il contrabbando diretto tra paesi produttori e paesi consumatori: droga e legname da Colombia e Peru’ verso l’occidente; armi nella direzione opposta.

Sono a Belem per un incontro di lavoro con la Vale, una multinazionale mineraria che nello stato brasiliano del Para’, a Carajas, gestisce uno dei piu’ grandi giacimenti del mondo: ferro, manganese, rame, oro. Negli ultimi anni il fatturato della Vale e’ esploso in modo direttamente proporzionale alla domanda industriale della Cina, divoratrice di materie prime sui mercati globali. Indirettamente, e’ decollato anche il PIL del Brasile, un paese che nel frattempo sembra avere beneficiato di alcune politiche sociali innovative e di successo. Si pensi al programma “Bolsa Familia” di Lula: trasferimenti diretti di denaro alle madri di famiglia, con discrezione totale nel suo utilizzo a patto che i figli vengano mantenuti a scuola.

Bersaglio di accuse da ambientalisti e comunita’ locali, la Vale ha recentemente fondato a Belem un centro di eccellenza e ricerca sullo sviluppo sostenibile. Come altri colossi minerari, questa multinazionale si sta orientando verso pratiche estrattive piu’ eco-sostenibili, oltre a maggiori interventi diretti per il welfare delle comunita’ locali. Allo scopo di popolarlo di contenuti innovativi e forza lavoro internazionale, ha stretto un accordo con il MIT di Boston, ed ecco perche’ mi trovo seduto al temporaneo quartier generale del “Vale Technological Institute”, in Travessa Dr.Moraes in pieno centro a Belem. Insieme al mio gruppo, al tavolo di lavoro sono presenti rappresentanti della municipalita’ di Belem e delle due universita’ locali.

La giornata di lavoro porta i primi frutti. Nel tardo pomeriggio, la discussione converge verso una primissima idea di progetto: utilizzare nuove tecnologie e sensori per tracciare e rendere piu’ efficiente la “water economy” informale delle popolazioni locali, l’insieme di scambi di beni e servizi di prima necessita’ che si dispiegano lungo il grande fiume. Sembra che la presenza di un ente esterno e super partes come MIT serva da catalizzatore di consenso tra enti che non nutrono molta fiducia gli uni negli altri. Occorre un po’ di tempo prima che la conversazione si faccia appassionata, prima che vengano messi da parte i sospetti reciproci e si superi un certo senso di rassegnazione. Alcuni brasiliani presenti all’incontro prevedono grande difficolta’ nel passare dalle parole ai fatti. Si continua a enfatizzare l’importanza di nuove politiche pubbliche: sembra che senza l’avvallo del governo locale non si possa fare nulla, dando per scontato che gli interessi dei privati siano per definizione antitetici ai bisogni sociali. E ci sono talmente tante cose che si potrebbero fare per migliorare la situazione, che ci si perde nel capire da che parte occorra cominciare.

Mi torna alla mente Venezia e i nostri tentativi di lanciarvi un progetto innovativo qualche anno fa: sembrava di muoversi in una camera di vasi di cristallo, da qualunque parte ci si girasse si rischiava di romperne uno. La soluzione piu’ logica sembrava l’immobilismo, nella consapevolezza che fosse piu’ importante guadagnare l’avvallo di qualche potente della citta’, piuttosto che esercitare la “distruzione creativa” dell’imprenditore. Siamo molto distanti da quanto ho esperito negli Stati Uniti, al MIT: quell’idea che solo attraverso l’iniziativa personale si possano migliorare le cose e portare un contributo alla societa’.

Uscendo dagli uffici della Vale, la realta’ di Belem mi conferma quanto il Brasile sia paese di grandi fratture sociali e territoriali, che si alimentano le une con le altre. Penso alla foresta amazzonica del Para’, abitata da popolazioni indigene e allo stesso tempo inoculata di appezzamenti, miniere, infrastrutture di trasporto, ed altri generi di proprieta’ privata ad utilizzo commerciale. Buona parte degli interessi degli uni sembrano essere antitetici a quelli degli altri. Penso al tessuto urbano di questa citta’, in cui basta svoltare l’angolo e cambiare isolato per precipitare dall’opulenza dei luccicanti grattacieli di nuovo conio all’indigenza delle favelas (qui chiamate baixadas, perche’ costruite sui terreni bassi a ridosso del fiume). Difficile dimenticare l’immagine di un complesso residenziale di villette perimetrato da mura sopra le quali spuntano “i piani alti” delle baracche immediatamente contigue, prive di acqua corrente e di fognature. Sembra che gli alti tassi di criminalita’ acquisiscano una spiegazione immediata: il crimine e’ sintomo di un male piu’ profondo, delle diseguaglianze di reddito costantemente sotto gli occhi di tutti, esacerbate dalla contiguita’ fisica tra ricchi e poveri. In altri paesi, come Stati Uniti o Francia, tale divario non e’ cosi’ onnipresente, per la presenza di ghetti che “rimuovono” il problema dal punto di vista urbano, isolandolo geograficamente.

Nonostante tutto, la citta’ di Belem continua a crescere, grazie a flussi di manodopera poco qualificata dagli stati brasiliani circostanti. Migliaia di persone continuano a preferire la poverta’ urbana a quella rurale, facendomi pensare che le favelas di tutto il mondo siano certo un luogo di miseria e di frustrazione, ma forse anche di straordinaria umanita’, solidarieta’, creativita’ e speranza. Mi viene Dominique Lapierre e il suo illuminante romanzo sulla “Citta’ della gioia”. Dal finestrino oscurato della macchina intravedo un gruppo di ragazzini impegnati in una partita di pallone in un improbabile campo di terra bianca, scalzi e sotto il diluvio equatoriale…Mi viene voglia di buttarmi a giocare!

Nonostante tutto, stando a quanto ci propongono le statistiche, la classe media brasiliana sembra crescere di pari passo all’espansione del prodotto interno lordo. Credo che chi si occupa di sviluppo sostenibile non possa che esservi ossessionato: in tanti paesi del sud cosi’ come del nord del mondo la globalizzazione post muro di Berlino e’ accusata di pilotare la maggior parte della ricchezza generata nei conti correnti delle elite, a discapito delle classi cosiddette medie. Al di la’ di quello che ci raccontano le riviste economiche sul boom del PIL nei mercati emergenti, la mia superficiale visita in Brasile mi fa pensare che buona parte del nuovo denaro generato, per quanto mobile, finisca in realta’ per essere canalizzato in un gioco di entrate e rientrate nelle banche e nei circuiti finanziari. La minuscola fetta di paese che mi scorre sotto gli occhi mi offre l’opportunita’ di un “reality check”, di una discesa alla realta’ dall’alto delle aspettative.

E’ interessante notare come non fosse stata questa l’impressione durante la mia visita nell’est urbano della Cina, qualche anno fa: in quel caso tornai con la sensazione che nell’impero di mezzo fosse in corso un gigantesco esperimento sociale di creazione di classe media. L’indicatore principale sembrava essere le centinaia di torri residenziali di nuova costruzione: la maggior parte di esse erano e sono tuttora destinate ad allocare e riallocare le classi lavoratrici urbane, storiche o acquisite.
Al di la’ di politiche sociali di cui non sono esperto, forse le ragioni di tale successo si spiegano anche pensando a quanto diversificata sia l’economia cinese, presente a livello manifatturiero (e non solo) nella maggior parte dei settori industriali. Al contrario, il Brasile cosi’ come tanti altri paesi in via di sviluppo devono forse ancora troppo della propria crescita economica ai settori estrattivi e dall’agricoltura estensiva, dalle quali la classe media viene “bypassata” a favore di manodopera poco qualificata e facilmente sfruttabile.

Certo, il Brasile, con la sua ricca e accattivante cultura, ricopre un ruolo speciale per il mondo: i mondiali del 2014 e le olimpiadi del 2016 ne saranno la consacrazione, offrendo un nuovo faro e trampolino nel futuro all’intera America Latina. Força Brasil!

mercoledì 1 giugno 2011

Cambiamenti climatici: scienza contro media?

“Cool it! Un documentario dell’autore dell'Ambientalista Scettico”. Il poster appeso alla parete richiama la mia attenzione: a suo tempo, le dichiarazioni Bjorn Lomborg sul fallimento del summit di Copenhagen mi avevano sopreso per il piglio pragmatico e contro-corrente...Sono in aereo, di ritorno in Italia da Washington, e noto che la persona seduta davanti a me sta leggendo "The skeptical environmentalist”. Lo chiedo a prestito per dedicarci la traversata nord-oceanica.

Pubblicato nell'ormai lontano 2000, si tratta di un'analisi trasversale delle piu’ pressanti questioni globali legate all’ambiente fisico (acqua, energia, inquinamento, sovrappopolamento, biodiversita’), viste attraverso gli occhi del professore di statistica. Prima di ogni teoria, interpretazione o reazione emotiva, precedenza ai numeri che descrivono il fenomeno; prima di ogni conclusione sull’andamento attuale delle cose, il confronto con i dati del passato.

Ne emerge un report volutamente ottimista e confortante sullo stato del mondo: secondo Lomborg, i problemi attuali vengono gonfiati a dismisura dai media e da quegli istituti di ricerca i cui finanziamenti sono proporzionali alla gravita’ percepita dei problemi stessi. Al contrario, i dati scientifici piu' omnicomprensivi ci ricordano da un lato che le risorse limitate del mondo - si pensi per esempio a foreste e acqua dolce - rimangono in misura complessiva enormemente abbondanti (anche se molto piu’ scarse in quelle aree in cui si e’ deciso di espandere gli insediamenti umani). Dall'altro che il trend storico di fenomeni quali l’inquinamento atmosferico urbano e’ positivo, in quanto rispetto a un tempo e’ diminuita la concentrazione e cambiata la tipologia di sostanze inquinanti negli scarichi industriali e delle automobili (anche se sono aumentate il numero di citta' inquinate).

Tornato in Italia scopro che "L’ambientalista scettico" e’ fuori produzione. E’ invece disponibile l’ultimo libro di Lomborg, uscito nel 2008 e intitolato “Stiamo freschi: perche’ non dobbiamo preoccuparci troppo del riscaldamento globale”. Lo compro con un sospetto: gia’ il titolo sembra promuovere una precisa lettura dei fatti, piuttosto che limitarsi a presentarli in maniera neutra e obiettiva. Pubblicato un anno primo del summit sul clima di Copenhagen, potrebbe avere risentito di pressioni da parte delle lobby industriali interessate a far naufragare le negoziazioni climatiche in corso. La lettura in qualche modo conferma le mie remore: questa volta Lomborg si concentra nel sostenere una tesi - quella dell’inadeguatezza del protocollo di Kyoto a fronte di alternative piu’ efficaci - facendo ricorso a proiezioni statistiche sul futuro a mio avviso tanto problematiche quanto quelle che Lomborg contesta.

Nonostante questo, il prof danese e’ illuminante nel mettere in evidenza come le tragedie causate dai cambiamenti climatici diventino sempre piu’ gravi per il fatto che l’uomo abbia costruito in prossimita’ di zone costiere e a rischio, piuttosto che da un incremento tout court dell’intensita’ dei fenomeni. Di conseguenza, argomenta Lomborg, sara’ agendo a questo livello che otterremo i risultati migliori, piuttosto che attraverso misure troppo ambiziose di riduzione delle emissioni votate al fallimento nei negoziati internazionali.

Per quanto necessitino di una revisione approfondita delle fonti citate, gli scritti di Lomborg mi danno l’occasione di riflettere sul grande dibattito in corso sui cambiamenti climatici, esacerbato dalle immagini di devastazione che ci vengono proposte sempre piu’ frequentemente da sempre piu’ regioni del mondo. Inclusa la nostra, si pensi all’alluvione del Veneto del Novembre scorso. Una descrizione del fenomeno obiettiva e contestualizzata nella storia diventa sempre piu’ difficile, cosi’ come la quantificazione del peso relativo delle differenti ragioni. La scena mediatica e’ dominata da allarmisti, apocalittici, scettici, negazionisti, falsificatori di dati, ambientalisti radicali e da molte altre figure che contribuiscono a creare interesse e sensazionalismo intorno al tema.

Anche Lomborg e’ uno di questi, anche se si avvale di un importante punto di ancoraggio per le proprie argomentazioni: la realta’ dei fatti cosi’ come misurata scientificamente, e contestualizzata nell’evoluzione storica. Il suo sguardo del mondo e’ statistico e quantitativo, vale a dire comprensivo del 100% dei fenomeni, e in cui l’attenzione non e’ cannibalizzata da quell’1% o 10% che presenta i risultati piu’ sorprendenti. Colleghi, non dimenticatevi del restante 90% prima di affermare di conoscere lo stato e i destini del mondo. Non dimenticatevi di quelle cose che nel tempo sono andate migliorando, prima di concludere che il mondo va a rotoli.

Certo, la sua visione “macro” rimane in un certo senso teorica: assegnando lo stesso valore a un albero tagliato in Canada e uno in centro a Manhattan (entrambi generano 1 dato nel database globale), trascura il fatto che la qualita’ della perdita puo’ avere un impatto completamente diverso nei “micro"-ecosistemi dei due luoghi. Credo che si tratti della stessa tipologia di discrepanza che divide macro e micro-economisti: coloro che promuovono teorie e politiche macro potrebbero non rendersi conto di come esse trovino differente attuazione e portata nei differenti micro-contesti.

Lomborg punta chiaramente il dito contro i media e con i personaggi alla Al Gore: cavalcando le paure del pubblico per vendere di piu’, danno voce esclusivamente a interpretazioni scientifiche sensazionalistiche e unidirezionali. Si servono della scienza per aumentare la propria presa sul pubblico, spianando la strada verso la radicalizzazione e la polarizzazione del dibattito. In ultima istanza, Lomborg argomenta, questo tipo di informazione puo' condurre non solo allo scontro sociale, ma anche a politiche e a decisioni sub-ottimali, prese sull’onda di un'eccessiva emotivita’.
Cosi' per il riscaldamento globale, come per tutti i temi caldi dell'agenda politica globale.

Ancora una volta mi viene da pensare a quanto piu’ potere abbiano i media rispetto a quello che siamo portati a riconoscere loro (si confronti http://lavita-unviaggio.blogspot.com/2009/11/liberta-dinformazionema-quale.html). Allo stesso tempo mi dico che sensazionalismo e “political incorrectness” hanno una loro ragion d’essere: non solo forniscono alle persone delle cause in cui credere, ma riescono ad assumere quella presa emotiva e di denuncia a monito di azioni negative in futuro. In altre parole, se non esistessero gli Al Gore e gli apocalittici del clima, probabilmente continueremmo imperterriti sulla strada perniciosa di inquinamento e distruzione delle risorse naturali del mondo.

Il ruolo dei media di “ingigantimento” dei problemi sembra molto importante, e per certi aspetti c’e’ da augurarsi che rimanga preminente. Quello che a mio avviso e’ negativo e’ che si persegua l’ingigantimento attraverso una piu’ o meno volontaria strumentalizzazione della verita’ o facendo leva sulle paure del pubblico.
Mi rendo conto che la conoscenza scientifica sia fondamentalmente noiosa, in quanto chiamata a mettere in luce tutti gli aspetti della verita’, anche quelli piu’ ordinari e meno sensazionale. C’e’ forse da augurarsi, pero’, che nel futuro i media possano acquisire una dimensione piu’ scientifica ed educativa, lavorando su nuove modalita’ comunicative per rendere emotivamente coinvolgente un’informazione meno eclatante, ma anche piu’ facilmente condivisibile e quasi sempre piu’ confortante.