Parto dal percorso storico e dalle radici culturali dell’Italia e delle sue regioni. Incappo nel bellissimo “Veneti” del sociologo Bernardi e apprendo che i micro-insediamenti sparpagliati nel territorio (gli stessi che contribuiscono a far scomparire la campagna e a generare dinamiche anarchiche di traffico) sono nel DNA del territorio veneto. Si costruiva il prossimo campanile laddove il suono delle campane del precedente non arrivava piu’, cosi’ che il richiamo della comunita’ di fede potesse giungere a tutti. La volonta’ di riscatto dei contadini dal giogo dei proprietari terrieri contribuisce a far maturare un forte desiderio di autonomia, che trova massima realizzazione nel costruirsi la propria casa indipendente e fisicamente isolata da tutte le altre, nonche’ nell’avviare l’azienda di famiglia. Anche per questi motivi, la pianura veneta a tutt’oggi si presenta come “citta’ diffusa”, con poco verde, e molte strade, capannoni e traffico. L’essere venuto a conoscenza delle ragioni del passato, remoto o recente che sia, in qualche modo mitiga la mia frustrazione: mi mostra come a monte di una situazione negativa possano comunque esistere degli elementi positivi (“nobili” o semplicemente culturali) che pero’, nel contesto presente, producono effetti indesiderati.
Mi concentro sull’Italia. Traendo insegnamento dalla mia esperienza di vita e lavoro negli Stati Uniti, cerco di isolare dei fattori culturali che, a mio avviso, penalizzano il paese in un mondo di competizione economica globale. Penso a quello che la globalizzazione economica richiede alla aziende, e lo comparo (versus) con quello che sembra essere il modello italiano predominante:
- grande scala (versus: piccola scala o scala artigianale)
- innovazione a tutti i costi (versus: salvaguardia delle rendite acquisite e di posizione)
- controllo distribuito, da parte dei numerosi “stakeholders” coinvolti nell’impresa (versus: controllo accentrato, famigliare e padronale)
- standardizzazione dei prodotti, dei servizi e dei rapporti umani (versus: originalita’, artigianalita’ e spontaneita’ nei rapporti umani)
- massimizzazione degli obiettivi e del profitto (versus: soddisfazione nel processo di lavoro e nel profitto)
- attenzione all’analisi dei dati e al metodo scientifico nella presa di decisioni (versus: enfasi sull’intuizione)
- orientamento alla mobilita' professionale (versus: orientamento alla sicurezza professionale e alle posizioni a lungo termine)
- globalismo tout-court, enfasi su valori apparentemente universali (versus: attaccamento e amore verso la propria terra, enfasi su peculiarita’ culturali)
Traendo la somme sembra che l’“anima” della globalizzazione sia scientifico-tecnologica, un’emanazione diretta della cultura americana statunitense, mentre l’“anima” dell’Italia sia umanistica. Certo, si tratta di una generalizzazione verso gli estremi, valida probabilmente solo per parte dei casi aziendali e comunque in tante sfumature di grigio piuttosto che in bianco o in nero. Nonostante tutto, comprendere la realta’ dei fatti considerando anche ragioni culturali profonde di questo tipo aiuta ad accettarla.
E’ vero, non e’ il momento economico migliore per l’Italia e molte nostre imprese potrebbero essere travolte dall’onda d’urto della globalizzazione. E’ anche vero pero’ che non dobbiamo necessariamente vergognarcene, e sicuramente abbiamo ancora qualcosa di interessante da dire. Al contrario, la presa di coscienza della nostra estrazione culturale e storica puo’ essere di ispirazione per il futuro. Al riguardo, lavorando in settori hi-tech connessi alle metropoli globali, mi sono presto reso conto come lo sviluppo urbano di oggi – la produzione “di massa” di citta’ futuristiche di grattacieli e quartieri residenziali preconfezionati – palesi spesso un’assenza clamorosa di originalita’, raffinatezza estetica e dimensione umana di cui molti di noi italiani sono maestri. Come e’ possibile che il mondo odierno non sappia piu’ produrre le Firenze e le Urbino? Dove sono gli italiani di cui il mondo avrebbe cosi’ disperatamente bisogno?
In conclusione rifletto sul ruolo pernicioso giocato dalla stampa e dai mezzi di comunicazione italiani, quanto a presa di coscienza di potenziale positivo e approccio costruttivo. Per molte ragioni e cavalcando il declino della classe politica, i principali media italiani a tutt’oggi sembrano fare a gara a premiare il “peggio” e i “peggiori”, portandoli in prima pagina e dandogli spazio, a discapito di tutto quello che di positivo esprime il paese. I media avrebbero l’opportunita’ di aiutarci a capire da dove arriviamo e cosa potremmo fare, mentre purtroppo al momento fomentano ed esaltano le nostre paure. A volte finiscono per diventare caricatura di quell’Italia che si piange addosso e si lamenta di tutto. Spesso noi italiani sottovalutiamo l’importanza della conoscenza e della comunicazione, piuttosto che dell’onnipresente politica, quali leve virtuose per cambiare le cose. Ma e’ forse inevitabile imparare a capire ed accettare chi siamo per ricostruirci la meritata rotta verso il futuro?
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