martedì 15 novembre 2011

Concentrazioni di ricchezza e crisi finanziarie

Da qualche tempo sembra che non si senta parlare d'altro che di crisi finanziarie e bolle speculative. Nel 2000 scoppia la crisi della new economy; nel 2008 e’ la volta dei mutui subprime; nel 2010 tocca ai debiti sovrani nell’area dell’Unione Europea; presto forse tocchera’ alle carte di credito americane o a qualcos’altro. Il fenomeno assume forme diverse ma sembra rimanere fondamentalmente lo stesso: si fa credito a qualcuno che si scopre poi non essere in grado di ripagare. Le banche restano protagoniste, insieme a vecchi e nuovi istituti finanziari. Di volta in volta i soldi vengono messi nelle mani di: aspiranti imprenditori poco affidabili; aspiranti compratori di case poco affidabili; stati nazionali poco affidabili; consumatori poco affidabili.

Alla luce di tali premesse, mi domando: come e’ possibile che negli ultimi anni gli investitori si prendano un granchio dopo l'altro? Una risposta che reputo plausibile e’ la seguente: gli operatori hanno talmente tanta ricchezza da gestire, che quando esauriscono tutte le opzioni piu’ ragionevoli di investimento, cominciano ad abbassare i requisiti e ad assumersi piu’ rischi. Quando tutti i porti sicuri sono stati scoperti e sono gia’ in via di sfruttamento, ci si avventura verso mete piu’ incerte e rischiose. Questo e’ probabilmente tanto piu’ vero quanto i soldi che l’investitore si trova a gestire non sono i propri, e le responsabilita’ personali di un futuro fallimento non sono chiare (al riguardo, si pensi alle derivate come nuovi strumenti di frammentazione della proprieta’ e della responsabilita’).

Sintetizzando, mi chiedo: e’ possibile che – a monte di molte altre cause – la genesi delle recenti crisi finanziarie sia da ricercare nell’eccesso di capitale a disposizione degli operatori finanziari? E’ possibile che il mondo della finanza globale assomigli sempre piu’ a una vasca idromassaggio (quando a capacita’ di generare bolle) per un problema di eccessiva disponibilita’? E se questo e’ il caso, che cosa e’ ha consentito che cosi’ tanta acqua di accumulasse in tale vasca?

Cerco di darmi una risposta pensando a quello che economisti del calibro di Stiglitz e Krugman considerano uno dei portati piu’ dannosi della globalizzazione cosi’ come attualmente condotta: la concentrazione di straordinarie quantita’ di ricchezza – frutto di nuove efficienze sul lavoro e di nuove tecnologie – nelle mani di pochi. Una volta raggiunto il tetto di beni materiali acquistabili, e’ plausibile pensare che queste persone riversino in massa il resto del loro denaro nelle mani delle banche e degli istituti finanziari. Non solo tale immensa dislocazione equivale a sottrarre liquidita’ immediata all’economia reale, ma in seconda battuta (quando cioe’ quelle risorse vengono investite) puo’ addirittura sfalsarla: si pensi a quanti immobili vengono acquistati come puro investimento, contribuendo a far lievitare i prezzi a danno di chi ne avrebbe effettivamente bisogno. D’altronde, in assenza di un vaglio politico, la finanza globale punta alla massimizzazione: il capitale va dove e’ meglio compensato, piuttosto che dove c’e’ una effettiva necessita’.

Poste queste premesse, uno dei migliori stimoli all’economia reale e alla tanto agognata crescita potrebbe essere quello di rimettere il denaro in mano a chi ha effettivamente bisogno di spenderlo. Pensiamo a un milione di euro in mano a un’unica persona che ne ha gia’ dieci, piuttosto che a mille persone che non ne hanno proprio (mille euro a testa). Nel primo caso e’ altamente probabile che buona parte della somma venga dirottata in conti corrente e circuiti finanziari; nel secondo e’ altrettanto probabile che la stessa somma venga interamente spesa.

Uno dei vizi originari delle odierne crisi economiche sembra quindi risiedere nell’iniqua distribuzione della sempre maggiore ricchezza generata dal lavoro e dalla tecnologia. Lo straordinario divario negli stipendi dei lavoratori ne e’ la cartina di tornasole: se negli anni ottanta Adriano Olivetti imponeva che lo stipendio piu’ alto in azienda non potesse eccedere di 10 volte quello piu’ basso, al giorno d’oggi si parla di differenziali nell’ordine delle centinaia se non delle migliaia. Quello che rende la situazione ancora piu’ problematica e’ constatare che questo fenomeno avanza specularmente a quelli per cui, nei paesi occidentali:

- i salari medi stagnano;
- avanzano disoccupazione e incertezza nei contratti di lavoro;
- si moltiplica la delocalizzazione verso paesi in cui si i lavoratori possono essere pagati meno;
- gli stati sovrani sono costretti a smantellare lo stato sociale su richiesta dei mercati
(sempre piu’ gonfi di soldi dei super-ricchi);

In altre parole, a fronte di un eccezionale arricchimento di un’elite, si demanda un impoverimento di tutti gli altri e degli stati sovrani. Uno dei pochi risvolti pienamente positivi di un sistema tanto sbilanciato sembra essere quello dell’avvento delle fondazioni private, promosse da miliardari responsabili come Gates e Clinton, impegnate a rimettere in circolo i profitti nel mondo reale verso chi ne ha veramente bisogno.

Che cosa ha consentito di arrivare a questo punto? Krugman assegna grande responsabilita’ all’amministrazione Bush, promotrice di “deregulation” a tutti i livelli. In assenza di regole e di buone pratiche, quali incentivi possono avere le classi dirigenti a non alzarsi lo stipendio e i bonus? In un’arena economica globale in cui si compete all’esasperazione, quali incentivi puo’ avere un’azienda a non minimizzare i costi del personale “sostituibile” e usare remunerazioni stellari per attrarre a se’ i manager piu’ performanti? In tale circostanza di liberismo incontrollato, quello che mi sorprende non sono tanto i movimenti “Occupy Wall Street” o le proposte di Obama di alzare le tasse ai super-ricchi, quando piuttosto il fatto che tali reazioni arrivino solo adesso e con una forza relativamente modesta.

In conclusione, sembra quindi che il libero mercato senza regole lungi dal favorire un’allocazione efficiente delle risorse e quindi un’espansione dell’economia reale, favorisca una concentrazione inefficiente delle risorse stesse nelle mani delle banche e degli istituti finanziari. Nel 2008 l’amministrazione Obama reputava che il salvataggio dell’economia dovesse passare per il salvataggio delle banche? Stando ai dati sui prestiti alle imprese, volano per crescita ed occupazione, per ora sembra che le banche continuino ad interessarsi maggiormente ai circuiti finanziari piuttosto che a quelli reali. Non credo ci sia da sorprendersi: se le regole del gioco non cambiano, vale ancora il principio per cui il capitale va dove (si crede) verra’ meglio compensato, piuttosto che dove c’e’ un effettivo bisogno di esso.

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