Domenica di Pasqua 2009.
Siamo a New York e decidiamo di accogliere l’invito di due amici: vediamoci alle 10.30 alla Convent Baptist church, 145esima e Convent, Harlem.
Siamo puntuali, la messa inizia le 11 ma la chiesa e’ gia’ gremita. Siamo bianchi e veniamo indirizzati verso l’alto, tribuna di destra, dove troviamo posto accanto a un gruppo di giovani, probabilmente europei, in maglietta e scarpe da ginnastica.
La posizione e’ privilegiata: le navate centrale e di sinistra, cosi’ come il grande altare con un semicerchio di posti rialzati, sono perfettamente visibili. Assistiamo all’arrivo degli ospiti: famiglie allargate di colore, vestite a festa, si fanno accompagnare al loro posto dalle damigelle, anch’esse di colore e di una certa eta’, vestite completamente di bianco, guanti e cappelli compresi. Il panorama e’ una festa di colori: gli abiti delle donne risplendono di arancio, azzurro, verde e rosso; cappelli e turbanti meritano uno sguardo attento, uno a uno, da quanto sono belli e originali; uomini e bambini in doppiopetto siedono gli uni accanto agli altri, indirizzando sguardi orgogliosi e modesti allo stesso tempo. Magari devono ancora saldare il debito per le migliaia e migliaia di dollari che indossano, ma l’importante e’ che oggi siano all’altezza dell’evento. Ci fanno sfigurare, a noi bianchi, ora ci appare fin troppo chiaro il perche’ ci abbiano spedito su.
Comincia la celebrazione.
Non fanno in tempo a essere impostati i primi canti, che gia’ qualcuno, di spontanea iniziativa, si alza in piedi, scuote il pugno e grida “Jesus is great!”. Qualcunaltro gli risponde “yea, Jesus is great!” e finanche l’intera delegazioni di celebranti (il “Father” e i suoi consiglieri), schierata ordinatamente sul palco, riprende lo spunto per dettagliare il perche’ abbiano ragione. Presto cogliamo l’essenza della messa gospel: una festa comunitaria, un rito catartico per dar sfogo alla propria fede e sentirsi una sola famiglia. Quando fanno il loro ingresso trionfale le danzatrici, quando il coro di bambini intona il primo canto, e’ il tripudio: donne il lacrime, vecchietti con le mani al cielo, gente in cammino per la chiesa in cerca degli abbracci di amici e parenti. Mentre i piu’ piccoli continuano a dormire, a pancia in su sulle panche come se fossero nel divano di casa, ma con il nodo della cravatta accuratamente intatto.
Il piu’ progressista dei nostri preti non riuscirebbe neanche a immaginarsi la festa a cui stiamo assistendo. Altro che rituale scontato e formale, qui la fede e’ vissuta come massima emozione e viene esternalizzata in tutti i modi possibili!
Improvvisamente, dopo quasi un’ora di "creazione", prende il microfono il Father. E’ arrivato il momento della concentrazione. Il tono e’ inflessibile, le parole scandite, il volume altissimo. Ogni concetto viene scattato con la piu’ assoluta precisione, come una fotografia capace di immobilizzare un soggetto sfuggente. La folla incoraggia, approva, incita e, soprattutto, ascolta. Attenta, attentissima, col cuore prima ancora che con la testa. E’ li’ per crederci, per commiserarsi e sperare, per sentirsi uguale agli altri.
Il tema del sermone e’ unico: fatti contro fede. I fatti ci vogliono tutti pieni di debiti, la fede vuole che la vita vada avanti intatta lo stesso, perche’ Dio e’ sempre li’ con noi. I fatti vogliono che la droga continui a farsi largo tra i giovani, la fede vuole che Dio continui ad accoglierli tra le sue braccia. I fatti, massima espressione della visione razionalistica e moderna della vita, non ci costringono a smettere di credere.
Il marketing e la scienza vogliono farci pensare che non ci serva piu’ il divino, argomenta il prete. Ora cerca la provocazione, carica di aggressivita’ i toni, costruisce una retorica dello scontro. Il suo ruolo e’ affrontare a viso aperto la delegittimazione, prevenire il dubbio che attende dietro l’angolo ogni fedele all’uscita della chiesa. E’ dio contro scienza. Emozionalita’ contro razionalita’. Compassione contro egoismo. L’America di oggi sembra intrappolata in questa logica binaria, del bene e del male, del sei con me o sei contro di me, dei dualismi alla Bush che Obama cerca cosi’ accuratamente di far dimenticare.
Indipendentemente dalle opinioni che ognuno di noi puo’ avere, usciamo dalla chiesa consapevoli di avere vissuto un’esperienza unica e travolgente. Coerente e contraddittoria, sincera e costruita. I toni fanatici della predica non sono sufficienti a farci riconsiderare la straordinaria umanita' della celebrazione. Per il mondo dei bianchi, controllati e calcolatori per attitudine e cultura, sembra una lezione di vita.
domenica 26 aprile 2009
lunedì 20 aprile 2009
Fine del lavoro?
Torno a scrivere sulla questione della crescita.
Una crescita che ci viene presentata ogni giorno come realta’ ineluttabile: crescita costante della popolazione mondiale; crescita delle attivita’ economiche, misurate attraverso il PIL; crescita dell’urbanizzazione. Tale crescita mette alla prova la sostenibilita’ e vivibilita’ del mondo, nonche’ le singole identita’ culturali: inquinamento, cambiamenti climatici, esaurimento delle aree verdi e della vita nei mari, emigrazioni di massa.
Forza motrice di ogni tipo di crescita e’ il lavoro: si decide di avere tanti figli anche perche’ li si considera potenziale forza lavoro; le attivita’ economiche si espandono grazie al lavoro; intere popolazioni trasmigrano dalle campagne alle citta’ in cerca di lavoro. Gli uomini rincorrono il lavoro e cosi’ facendo consumano le risorse a loro disposizione, senza che a queste venga lasciato abbastanza tempo per rigenerarsi. Comprensibile, mi dico, allorquando il lavoro e’ condizione di sopravvivenza per alcuni e di accesso a migliori opportunita’ per altri.
Il sistema attuale pero' non garantisce lavoro per tutti, dal momento che l’uomo e’ sempre piu’ sostituibile dalla tecnologia. I grandi terreni coltivabili una volta impiegavano centinaia di persone, con la meccanizzazione e dell’agricoltura forse qualche unita’. Se si automatizzassero tutti i caselli autostradali, scomparirebbero i casellanti.
Fortunatamente in molti casi la tecnologia crea lavoro oltre che sottrarlo: e’ il caso della rivoluzione informatica che da’ lavoro a milioni di persone in tutto il mondo (e per molti Internet e' anche un modo per impiegare il tempo libero al lavoro).
Sembra pero' che la velocita' con cui la tecnologia sottrae non venga compensata dalla velocita' con cui restituisce, non da ultimo perche' lo sviluppo di nuovi settori necessita dei tempi lunghi della formazione di quella che sara’ la futura forza lavoro.
Inoltre, il sistema attuale non garantisce lavoro per tutti anche perche' imperniato sulla massimizzazione dell'investimento e sull'accentramento della ricchezza: da una parte c'e' un incentivo a impiegare meno persone possibile (gli stipendi sono contabilizzati come passivita'); dall'altra ad accumulare e privatizzare i profitti invece di reinvestirli in nuovo lavoro (specie per le aziende quotate in borsa).
Tale mancanza sistemica di lavoro spinge l’uomo a cercarselo in altri modi, per esempio:
- incrementando le fila dell’economia illegale, dove un eccesso di forza lavoro porta a fenomeni quali la recente guerra delle gangs in Messico o a Napoli;
- aderendo a organizzazioni filosofiche e para-religiose, che a volte sconfinano nel fondamentalismo come nel caso di Al-Qaeda;
- generando lavoro e valore economico dal nulla, come dimostra la costante espansione del settore finanziario negli ultimi decenni, relativamente all'economia reale;
- costruendo prodotti e servizi ritagliati su bisogni sempre piu’ secondari se non fittizi, che determinano una crescita tumorale piuttosto che intelligente dei settori produttivi e che ci rendono la vita sempre piu’ complicata (penso per esempio a una certa "deriva" del settore farmaceutico, dove gli effetti indesiderati dei medicinali diventano scusa per inventarne di nuovi).
In definitiva, quindi, mi sembra che un giro di boa dell’umanita’ vada fatto sul lavoro.
Se vogliamo imboccare la strada della sostenibilita’, qualsiasi nuova tecnologia introdotta dovra’ necessariamente creare piu’ lavoro di quello che distrugge. Dovremo sostituire parte del lavoro che coinvolge lo sfruttamento di risorse finite con lavoro dedicato agli altri e all’ambiente. Dovremo creare nuovi incentivi all'impiego nel settore privato. Dovremo forse lavorare meno per far lavorare tutti, rinunciando a piu’ ricchezza, ma anche a piu' stress e schiavitu' da soldi.
Gia’ nel 2002 il sociologo Rifkin parlava provocatoriamente di “fine del lavoro”. Di sicuro di cose da fare ce ne sono ancora tante, ma forse quello che manca e’ una riflessione su cosa valga veramente la pena intraprendere.
Una crescita che ci viene presentata ogni giorno come realta’ ineluttabile: crescita costante della popolazione mondiale; crescita delle attivita’ economiche, misurate attraverso il PIL; crescita dell’urbanizzazione. Tale crescita mette alla prova la sostenibilita’ e vivibilita’ del mondo, nonche’ le singole identita’ culturali: inquinamento, cambiamenti climatici, esaurimento delle aree verdi e della vita nei mari, emigrazioni di massa.
Forza motrice di ogni tipo di crescita e’ il lavoro: si decide di avere tanti figli anche perche’ li si considera potenziale forza lavoro; le attivita’ economiche si espandono grazie al lavoro; intere popolazioni trasmigrano dalle campagne alle citta’ in cerca di lavoro. Gli uomini rincorrono il lavoro e cosi’ facendo consumano le risorse a loro disposizione, senza che a queste venga lasciato abbastanza tempo per rigenerarsi. Comprensibile, mi dico, allorquando il lavoro e’ condizione di sopravvivenza per alcuni e di accesso a migliori opportunita’ per altri.
Il sistema attuale pero' non garantisce lavoro per tutti, dal momento che l’uomo e’ sempre piu’ sostituibile dalla tecnologia. I grandi terreni coltivabili una volta impiegavano centinaia di persone, con la meccanizzazione e dell’agricoltura forse qualche unita’. Se si automatizzassero tutti i caselli autostradali, scomparirebbero i casellanti.
Fortunatamente in molti casi la tecnologia crea lavoro oltre che sottrarlo: e’ il caso della rivoluzione informatica che da’ lavoro a milioni di persone in tutto il mondo (e per molti Internet e' anche un modo per impiegare il tempo libero al lavoro).
Sembra pero' che la velocita' con cui la tecnologia sottrae non venga compensata dalla velocita' con cui restituisce, non da ultimo perche' lo sviluppo di nuovi settori necessita dei tempi lunghi della formazione di quella che sara’ la futura forza lavoro.
Inoltre, il sistema attuale non garantisce lavoro per tutti anche perche' imperniato sulla massimizzazione dell'investimento e sull'accentramento della ricchezza: da una parte c'e' un incentivo a impiegare meno persone possibile (gli stipendi sono contabilizzati come passivita'); dall'altra ad accumulare e privatizzare i profitti invece di reinvestirli in nuovo lavoro (specie per le aziende quotate in borsa).
Tale mancanza sistemica di lavoro spinge l’uomo a cercarselo in altri modi, per esempio:
- incrementando le fila dell’economia illegale, dove un eccesso di forza lavoro porta a fenomeni quali la recente guerra delle gangs in Messico o a Napoli;
- aderendo a organizzazioni filosofiche e para-religiose, che a volte sconfinano nel fondamentalismo come nel caso di Al-Qaeda;
- generando lavoro e valore economico dal nulla, come dimostra la costante espansione del settore finanziario negli ultimi decenni, relativamente all'economia reale;
- costruendo prodotti e servizi ritagliati su bisogni sempre piu’ secondari se non fittizi, che determinano una crescita tumorale piuttosto che intelligente dei settori produttivi e che ci rendono la vita sempre piu’ complicata (penso per esempio a una certa "deriva" del settore farmaceutico, dove gli effetti indesiderati dei medicinali diventano scusa per inventarne di nuovi).
In definitiva, quindi, mi sembra che un giro di boa dell’umanita’ vada fatto sul lavoro.
Se vogliamo imboccare la strada della sostenibilita’, qualsiasi nuova tecnologia introdotta dovra’ necessariamente creare piu’ lavoro di quello che distrugge. Dovremo sostituire parte del lavoro che coinvolge lo sfruttamento di risorse finite con lavoro dedicato agli altri e all’ambiente. Dovremo creare nuovi incentivi all'impiego nel settore privato. Dovremo forse lavorare meno per far lavorare tutti, rinunciando a piu’ ricchezza, ma anche a piu' stress e schiavitu' da soldi.
Gia’ nel 2002 il sociologo Rifkin parlava provocatoriamente di “fine del lavoro”. Di sicuro di cose da fare ce ne sono ancora tante, ma forse quello che manca e’ una riflessione su cosa valga veramente la pena intraprendere.
In un articolo del 2 maggio intitolato "Sei assunto, il prossimo anno" l'Economist
racconta come le aziende americane facciano fronte alla mancanza sistemica di lavoro in tempi di crisi: proponendo assunzioni posticipate, contratti free-lance, piu' vacanze e meno ore di lavoro in cambio di retribuzioni piu' basse.
sabato 4 aprile 2009
Ritorno al futuro? Appunto da Seoul...
Sostituendo il mio capo al MIT, la scorsa settimana sono volato a Seoul, per discutere una possibile partnership che vedrebbe le nostre tecnologie applicate alla progettazione di una serie di citta’ futuristiche che verranno costruite nei prossimi anni in Corea del Sud. In particolare, una mia presentazione aveva lo scopo di essere di ispirazione per un concorso di idee a cui partecipavano la bellezza di 1400 gruppi di studenti (di cui 1000 coreani e 400 da tutto il resto del mondo). E’ stata data loro carta bianca per inventare da zero quella che sara’ Songdo International City, il nuovo distretto del business della metropoli Incheon (2.8 milioni di abitanti), a due passi dall’aeroporto internazionale di Seoul.
I progetti vincitori verranno esposti alla Incheon Global Fair 2009, il cui scopo e’ quello di presentare la nuova Incheon al mondo e attrarre le multinazionali e i professionisti stranieri che dovrebbero insediarsi in questo lembo di terra sottratto al mare. Un asso nella manica per la nuova Songdo sara’ l’essere “Free Economic Zone”, con seducenti agevolazioni a livello di tassazione per le aziende che decideranno di emigrare qui. La citta’ inventata dagli studenti dovra’ rispettare tre criteri: essere una “U-City”, una “Eco-City” e una “Community-City”, ovvero incorporare le ultime tecnologie e tecniche in ambito di sensoristica, comunicazione e sostenibilita’ ambientale, nonche’ promuovere l’interazione sociale tra gli abitanti.
I tre giorni trascorsi tra Seoul e Incheon mi hanno dato un’idea della vastita’ della sfida: seconda solo a Tokio per numero di abitanti (24 milioni) questa megalopoli e’ apparsa al mio sguardo neofita quanto di piu' anonimo e ambientalmente insostenibile potessi immaginarmi. Quello che in Cina sta succedendo in questi ultimi anni e’ successo in buona parte a Seoul nei decenni precenti: la riallocazione di massa della popolazione urbana e rurale dalle abitazioni tradizionali a un piano a migliaia di torri di 20-30 piani, bianche e numerate. Tra i grattacieli della downtown si fanno strada viali a 12 corsie, intasati giorno e notte. Solo le pittoresche colline circostanti salvano Seoul dal soffocamento, fatta eccezione per quando soffia il vento da Ovest carico dello smog di Pechino e Tianjin che oscura il cielo del mar Giallo fino a qui.
In un’ansiosa rincorsa verso l’affermazione internazione (che qualcuno non esita a definire “rat race” o “corsa dei topi”), la Corea del Sud compete con con i fratelli maggiori della Cina e del Giappone per diventare piu’ moderna, piu’ tecnologica, piu’ cosmopolita, piu’ all’altezza dell’ occidente. Le autorita’ locali hanno svenduto il paese al capitale straniero e ai costruttori, cosi’ che ora si parla di passaggio dall’object-based al community-based architecture, dall’architettura e urbanistica centrata sull’oggetto (la torre e il grattacielo) a quella centrata sulla comunita’.
In assenza di pianificazione, si da’ il via libera a costruire anche a pochi passi da un aeroporto militare e divampa la polemica sui giornali rispetto alla probabilita’ di uno schianto degli aerei sulla torre.
Fatta eccezione per i grattacieli sperimentali in vetro, ai miei occhi Seoul non puo’ che sembrare un "mostro". Fino a quanto, l’ultimo pomeriggio, non riesco a visitare il quartiere di Jongno-gu, stretto tra due imponenti palazzi reali: raffinate abitazioni tradizionali si alternano a locali, musei e boutique il cui design degli interni mi lascia di stucco. Mai visto nulla di cosi’ bello, nemmeno a Milano e New York. Mi tolgo le scarpe, entro per un te' in un ristorante coreano in cui siedo su cuscini per terra. Distendo le gambe e mi godo l’infinita raffinatezza e gentilezza del luogo, delle persone, delle scritte in alfabeto coreano e cinese. Tutta la bellezza di Seoul sembra confinata qui, quasi a fare contraltare al mondo che comincia a sud di Yulgokro Street.
I progetti vincitori verranno esposti alla Incheon Global Fair 2009, il cui scopo e’ quello di presentare la nuova Incheon al mondo e attrarre le multinazionali e i professionisti stranieri che dovrebbero insediarsi in questo lembo di terra sottratto al mare. Un asso nella manica per la nuova Songdo sara’ l’essere “Free Economic Zone”, con seducenti agevolazioni a livello di tassazione per le aziende che decideranno di emigrare qui. La citta’ inventata dagli studenti dovra’ rispettare tre criteri: essere una “U-City”, una “Eco-City” e una “Community-City”, ovvero incorporare le ultime tecnologie e tecniche in ambito di sensoristica, comunicazione e sostenibilita’ ambientale, nonche’ promuovere l’interazione sociale tra gli abitanti.
I tre giorni trascorsi tra Seoul e Incheon mi hanno dato un’idea della vastita’ della sfida: seconda solo a Tokio per numero di abitanti (24 milioni) questa megalopoli e’ apparsa al mio sguardo neofita quanto di piu' anonimo e ambientalmente insostenibile potessi immaginarmi. Quello che in Cina sta succedendo in questi ultimi anni e’ successo in buona parte a Seoul nei decenni precenti: la riallocazione di massa della popolazione urbana e rurale dalle abitazioni tradizionali a un piano a migliaia di torri di 20-30 piani, bianche e numerate. Tra i grattacieli della downtown si fanno strada viali a 12 corsie, intasati giorno e notte. Solo le pittoresche colline circostanti salvano Seoul dal soffocamento, fatta eccezione per quando soffia il vento da Ovest carico dello smog di Pechino e Tianjin che oscura il cielo del mar Giallo fino a qui.
In un’ansiosa rincorsa verso l’affermazione internazione (che qualcuno non esita a definire “rat race” o “corsa dei topi”), la Corea del Sud compete con con i fratelli maggiori della Cina e del Giappone per diventare piu’ moderna, piu’ tecnologica, piu’ cosmopolita, piu’ all’altezza dell’ occidente. Le autorita’ locali hanno svenduto il paese al capitale straniero e ai costruttori, cosi’ che ora si parla di passaggio dall’object-based al community-based architecture, dall’architettura e urbanistica centrata sull’oggetto (la torre e il grattacielo) a quella centrata sulla comunita’.
In assenza di pianificazione, si da’ il via libera a costruire anche a pochi passi da un aeroporto militare e divampa la polemica sui giornali rispetto alla probabilita’ di uno schianto degli aerei sulla torre.
Fatta eccezione per i grattacieli sperimentali in vetro, ai miei occhi Seoul non puo’ che sembrare un "mostro". Fino a quanto, l’ultimo pomeriggio, non riesco a visitare il quartiere di Jongno-gu, stretto tra due imponenti palazzi reali: raffinate abitazioni tradizionali si alternano a locali, musei e boutique il cui design degli interni mi lascia di stucco. Mai visto nulla di cosi’ bello, nemmeno a Milano e New York. Mi tolgo le scarpe, entro per un te' in un ristorante coreano in cui siedo su cuscini per terra. Distendo le gambe e mi godo l’infinita raffinatezza e gentilezza del luogo, delle persone, delle scritte in alfabeto coreano e cinese. Tutta la bellezza di Seoul sembra confinata qui, quasi a fare contraltare al mondo che comincia a sud di Yulgokro Street.
giovedì 2 aprile 2009
Crescita, ma a che prezzo?
Chiunque volesse fare una cronistoria dei principali temi che hanno dominato l’agenda mediatica e politica globale degli ultimi 2 anni, si troverebbe difronte a questa sequenza di eventi epocali: surriscaldamento globale; passaggio di consegne da Bush a Obama; tracollo della finanza.
Allo stesso tempo probabilmente registrerebbe grande puntualita’ nel sostituire un tema all’altro, quasi si trattasse di un oggetto consunto. In particolare, perlomeno nei media del “mainstream”, la crisi della finanza sembra avere oscurato la crisi climatica, a tal punto che non ho ancora sentito nessuno sbilanciarsi nel tracciare un collegamento che ai miei occhi sembra ovvio: la recessione e’ la migliore soluzione contro la crisi climatica. Se l’economia globale si contrae, si contraggono le emissioni, perche’ si produce meno, si trasporta meno, ci si muove di meno, si consuma e si spreca meno. Probabilmente, i progressi tecnologici e nei cambiamenti comportamentali dovranno fare ancora molta strada per ottenere un simile risultato di sostenibilita’ ambientale.
E’ comprensibile che in pochi si spingano a leggere tale “writing on the wall” (la "scritta sul muro" che sta di fronte a noi), visto che equivarrebbe a dovere mettere in discussione il fondamento ultimo dell’attuale sistema economico: la crescita del PIL, che cosi’ come viene attuata oggi, va in direzione opposta rispetto alla sostenibilita’. Al contrario, le cifre delle vittime globali della crisi finanziaria (coloro che restano senza lavoro) finiscono per reiterare la priorita’ della crescita come unico modo per creare lavoro per tutti. Il fatto che i cambiamenti del clima continuino a produrre sterminio ed emigrazione in mezzo mondo - attraverso aridita’, eventi climatici estremi ed inquinamento da gas di scarico - passa in secondo piano.
Sono di certo molti coloro che teorizzano alternative alla crescita, e io non sono al corrente del piu’ recente dibattito che i massmedia poco considerato dai mass media. In ogni caso, una cosa credo sia di certo migliorabile: la capacita’ dell’economia globalizzata di allocare i suoi prodotti laddove ce n’e’ veramente bisogno.
I farmaci contro l’AIDS esistono in abbondanza ma non arrivano a sufficienza in Africa, laddove servono di piu’; tonnellate di cibo vengono commercializzate ogni giorno, ma non arrivano a chi muore di fame e mandano all’ingrasso e all’infarto chi non ne ha bisogno; senso della misura e spirito di fratellanza sono spesso prerogativa dei piu’ poveri e mancano ai ricchi che ne avrebbero piu’ bisogno nei paesi occidentali.
I farmaci contro l’AIDS esistono in abbondanza ma non arrivano a sufficienza in Africa, laddove servono di piu’; tonnellate di cibo vengono commercializzate ogni giorno, ma non arrivano a chi muore di fame e mandano all’ingrasso e all’infarto chi non ne ha bisogno; senso della misura e spirito di fratellanza sono spesso prerogativa dei piu’ poveri e mancano ai ricchi che ne avrebbero piu’ bisogno nei paesi occidentali.
Credo che buona parte del problema sia dovuto all’attuale meccanismo di regolamentazione del mercato: il prezzo. Un prezzo che e’ fisso: se lo puoi pagare quanto decide il produttore bene, altrimenti non accedi a beni che potrebbero non arrivare mai a nessuno, ma piuttosto finire in discariche inquinanti o addirittura essere gettate in mare in qualche angolo del sud del mondo.
Probabilmente, si potrebbe trarre qualche insegnamento dagli arabi: il prezzo viene contrattato anche in base alla capacita’ di spesa degli acquirenti. Piu’ possiedi e piu’ paghi, un sistema che in Finlandia viene gia’ applicato quando si tratta di pagare le multe.
Si rischierebbe di diminuire l’incentivo a migliorarsi, ma si potrebbero creare meccanismi per cui “la prossima volta paghi di piu’ perche’ ora hai di piu’”. In questo modo potrebbe prefigurarsi una crescita’ socialmente ed ecologicamente piu' giusta?
Rimarrebbe il problema della sostenibilita’ (le risorse del pianeta sono finite), ma a pensarci bene una soluzione basata sulla crescita e sulla creazione di lavoro potrebbe essere a portata di mano: distruggere il costruito in eccesso per ripiantare l’ambiente.
La bolla finanziaria appena scoppiata e’ stata creata cementando il mondo. Parte rilevante delle abitazioni e dei grattacieli costruiti rischiano di rimanere invenduti ed e' ironico pensare che, a dispetto di un gran parlare di "smaterializzazione" dell'economia, il piu' grande periodo di crescita economica della storia dell'uomo sia stato realizzato producendo case e uffici.
Con l'assunzione che, grazie al credito facile, ogni famiglia e ogni investitore potesse perseguire il sogno di possedere una, due, tre, cento proprieta', in tutto il mondo.
In attesa di idee migliori, io sono quindi per il distruggere per creare, in nome della “distruzione creativa” che gia’ Schumpeter nel 1942 prefigurava come forza motrice del capitalismo.
Con l'assunzione che, grazie al credito facile, ogni famiglia e ogni investitore potesse perseguire il sogno di possedere una, due, tre, cento proprieta', in tutto il mondo.
In attesa di idee migliori, io sono quindi per il distruggere per creare, in nome della “distruzione creativa” che gia’ Schumpeter nel 1942 prefigurava come forza motrice del capitalismo.
Iscriviti a:
Post (Atom)