Cosa pubblica e interesse costituito.
Due mondi che spesso si sovrappongono, allorquando la politica, che dovrebbe essere spesa a beneficio della piu’ ampia collettivita’, viene declinata a favore di gruppi di interesse o addirittura singoli individui.
Politica ed economia. In un regime cosiddetto di mercato, la prima deve gran parte della sua esistenza alla seconda. Infatti, la politica si finanzia attraverso le tasse, che vengono contabilizzate come percentuale dell’attivita’ economica complessiva: piu’ le aziende fatturano, piu’ la politica ha soldi da spendere. Credo che tale anello vitale sia all’origine di molte delle attuali distorsioni della politica stessa, ponendo in essere un incentivo perverso: la politica cerca di compiacere la volonta’ dei grandi gruppi di interesse, anche se cio' fa piu’ male che bene all’interesse della collettivita’.
Nel titolo di un best seller, Greg Palast riassume bene questa condizione: “The best democracy money can buy”. Gli USA hanno la migliore democrazia che si possa comprare. Il caso delle aziende di produzione di SUV (Chrisler e Ford) mi sembra un ottimo esempio: la maggior parte delle leggi “anti-SUV” non e’ stata approvata, nonostante esistesse un interesse collettivo a disincentivare la messa sul mercato di questi veicoli (inquinano, cannibalizzano il suolo pubblico, sono pericolosi per gli altri in caso di incidenti).
La lobby delle case automobilistiche, che al tempo attraverso le tasse rimpinguavano le casse statali, ha prevalso. Non solo: adesso che Chrisler e Ford sono sull’orlo del fallimento, il governo si fa avanti per aiutarle, prosciugando fondi pubblici da altri settori o indebitandosi.
Il punto e’: chi genera i fondi pubblici?
Il ritornello popolare vuole che essi siano “i soldi miei e tuoi, di tutti noi onesti cittadini che paghiamo le tasse”. Questo e’ vero, ma solo in parte. Una grande porzione dei fondi pubblici viene infatti generata dalle tasse sul profitto dei grandi gruppi economici. Questi stessi gruppi danno un lavoro alla maggior parte dei clienti finali della politica, gli elettori, che sono anche coloro che pagano le tasse. E magari questi stessi gruppi sono anche diposti a trasferire qualche soldo personale ai politici, “under the table”, sotto forma di tangente, regalo o consulenza.
Insomma, perche’ pensare che la politica si possa inimicare l’economia, se il successo degli stessi politici ne dipende cosi’ direttamente? Perche’ pensare che la politica non si debba preoccupare degli interessi particolari e costituiti prima ancora che dell’interesse della piu’ larga collettivita’? Da questo punto di vista, la politica e’ ostaggio dell’economia.
Una mia recente conversazione con un dipendente del Ministero dell’Agricoltura, a Washington, ci ha presto portato a una considerazione ineludibile: “Obama nel parlare di cambiamento ha sottovalutato la natura ultima della politica di Washington: comandano le lobby storiche, il cui principale obiettivo e’ mantenere lo status quo”. Chi paga, comanda.
Ed e’ cosi’ che, con tutte le complicazioni del caso: Berlusconi e’ ancora al potere in Italia dopo piu’ di 15 anni; il protocollo di Kyoto contenente limitazioni alle emissioni industriali non e’ mai stato ratificato dall’amministrazione Bush; Obama ha nominato un ex-Wall Street (Tim Geithner) segretario all'economia, procedendo successivamente al salvataggio di Wall-Street attraverso fondi pubblici.
Se non esiste un incentivo condiviso verso il cambiamento, sembrerebbe che nel sistema attuale nulla si possa veramente cambiare. Quanto alle alternative, non credo che la risposta risieda in un sistema totalmente centralizzato, in cui l’economia viene controllata dalla politica: si verrebbero a creare altri tipi di distorsioni, come dimostrato dalla storia dei paesi ex-comunisti. Forse l’equilibrio sta in mezzo, nella giusta misura, in quella combinazione cosi’ straordinariamente difficile da trovare e mantenere. E non credo che una soluzione possa arrivare solo dalla politica, ma anche e soprattutto da una rinnovata coscienza e senso civico delle persone.
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