Italia paese in declino. Se e’ vero che accollarsi un’etichetta negativa puo’ essere semplicistico, ingiusto e demoralizzante, e’ certamente utile capire cosa si puo’ fare per migliorare la situazione.
Mi interrogo sul possibile futuro industriale del paese, sul contributo italiano all’economia globalizzata, sulla tipologia di lavori che saranno presenti sul mercato nazionale tra 10 o 20 anni. Parto da una constatazione allarmante: l’Italia - cosi' come altri paesi dell'Europa mediterranea - non appartiene ne’ alla fascia dei paesi in via di sviluppo, dove le imprese delocalizzano e sfruttano i bassi costi del lavoro, ne’ alla fascia dei paesi piu’ tecnologicamente avanzati, dove si costruiscono i prodotti e i settori del futuro. Il rischio per il paese, in parte gia’ realta’, e’ quello di essere bypassato.
Fatto salvo i molti casi di alta specializzazione e grande innovazione, il destino dell'industria pesante cosi' come dei settori manufatturieri classici - tessile/abbigliamento, cuoio/calzature, mobili, metalmeccanica - sembra gia’ segnato: molte imprese stanno gia’ chiudendo, delocalizzando e lasciando quote di mercato ai competitori cinesi o di altri paesi emergenti. La FIAT affossa Melfi e apre in Serbia. Possiamo non ritenerlo giusto, con ottime ragioni, ma la domanda che FIAT e molte altre aziende sono costrette a farsi per rimanere competitive e’: “perche’ l’Italia?”
Il dibattito sui possibili scenari “post-industriali” del paese di certo non manca. Si parla di turismo, di beni culturali, di design, di lusso, di nuovi servizi e tecnologie digitali. Spesso non si presta la dovuta considerazione verso questi settori apparentemente “effimeri”. Concependo l’industria soltanto come industria tradizionale, li si guarda dall’alto al basso: quali prodotti tangibili producono? di che ingegneri, scienziati e tecnici si avvalgono? come si puo’ mandare avanti un paese senza “produrre” piu’ nulla? vogliamo trasformare l'Italia in un luna-park?
Si fatica a vedere oltre l’industria classica, ma in realta’ esiste un'abbondanza di nuovi settori strategici destinati a un forte sviluppo futuro. Vi propongo l’elenco stilato dall' “UK's Science & Innovation Network” (Network per la Scienza e l’Innovazione del Regno Unito):
- Invecchiamento: salute e benessere delle fasce piu’ anziane della popolazione;
- Mitigazione dei cambiamenti climatici: ricerca, prodotti e politiche orientate al contenimento delle emissioni;
- Tecnologie dell’informazione e delle telecomunicazioni;
- Tecnologie energetiche alternative;
- Sicurezza nel settore dei cibi e dell’alimentazione;
- Incertezze globali e soluzioni per la sicurezza delle persone e delle citta’;
- Scienze e tecnologie della salute e della vita: cancro, malattie del cuore, demenza e HIV;
- Nuove soluzioni per la vita quotidiana in presenza di cambiamenti climatici;
- Nanoscienze e nanotecnologie: dall’ingegneria allo sviluppo nuovi prodotti;
- Scienza per lo sviluppo: ricerca sulle malattie di importanza per il mondo in via di sviluppo e in cui sono in corso sforzi collaborativi;
- Settore spaziale: piccoli satelliti, sensori, sistemi di comunicazione e di generazione di energia;
- Ricerca sulle cellule staminali: dalle scienza fondamentale allo sviluppo di nuove terapie;
- Innovazione: politiche e pratiche innovative per la commercializzazione delle tecnologie concepite nei laboratori universitari.
La lista non e’ omnicomprensiva - manca per esempio il settore delle biotecnologie, su cui gli Stati Uniti stanno puntando molto - ma ci da’ un’idea di cosa puo’ volere dire traghettare un paese verso un’economia avanzata in grado di creare posti di lavoro negli anni a venire. Al riguardo, l’Italia sembra avere un problema fondamentale: con tutte le eccezioni del caso, le nostre universita’ sembrano non essere concepite ne’ attrezzate per i settori emergenti.
In un mondo in cui il futuro si costruisce sull'abbondanza di conoscenza avanzata e specialistica, gran parte delle universita’ ricorre al numero chiuso, per carenza di fondi per nuove infrastrutture e professori. Spesso ne si fa un vanto (considerando il numero chiuso come ragionevole garanzia di qualita’), o lo si giustifica con il fatto che il mercato non e’ in grado di assorbire un gran numero di farmacisti, medici o giurisprudenti o quant'altro. In questo modo si dichiara implicitamente di guardare soltanto alle professionalita’ del passato, non a quelle del futuro...
L’universita’ italiana ha quindi bisogno non solo di piu’ soldi, ma anche di una rivoluzione alle fondamenta. Sarebbe inoltre fondamentale un accesso piu’ facile alle tecnologie presenti nelle imprese e nelle multinazionali che gia’ operano nei settori del futuro, come in alcuni casi gia’ avviene, soprattutto nell'area milanese.
La strada e’ in salita, ma non credo ne possano esistere molte altre. Se non la si imbocca il prossimo futuro non puo’ che portare a un’accentuazione di fenomeni gia’ osservabili nel presente: molti di coloro che vogliono lavorare nei settori avanzati emigrano, mentre l’accesso ai settori tradizionali si fa sempre piu’ selettivo. Per fortuna la demografia gioca a nostro favore (si fanno pochi figli), cosi’ come le strutture sociali (la famiglia come rete di sicurezza), altrimenti la pressione sociale da parte di disoccupati e precari potrebbe aumentare rapidamente. Aiuta, ahime’, anche il ruolo crescente della criminalita’ organizzata in qualita’ di datore di lavoro.
Certo, l’Italia resta molto di piu’ di questo.
Penso non solo ai settori del bello, della moda, del design e dell’alimentare. Penso non solo alla Ferrari e a tanti altri gioielli ingegneristici ed aziendali unici al mondo. Penso anche all’attrattivita’ del nostro territorio, clima e stile di vita, che potrebbe portare molti professionisti e freelancer dall'orientamento globale a scegliere l’Italia come luogo di residenza per gestire le proprie attivita’, attraverso banda larga e spostamenti saltuari. Penso anche al vivacissimo terzo settore del no-profit, uno dei frutti piu’ belli dello straordinario bagaglio etico ed umanistico del paese. Basti pensare a Emergency, a Banca Etica, a Slow Food o alla Fondazione Umberto Veronesi.
Come gia’ descritto in un altro articolo di questo blog (Una Toscana di virtu’, 29 Agosto 2009) forse oggi piu’ che mai il mondo ha bisogno dell’Italia. Sta nell’Italia armarsi della buona volonta’ e della voglia di mettersi in gioco, per provare a cambiare.
Io sono fiducioso: male che vada toccheremo il fondo e riusciremo a rialzarci. Nella consapevolezza che una parte di declino economico sia inevitabile, e sia lo stesso che sta regalando ad altri paesi del mondo l'emancipazione dalla poverta'.
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