mercoledì 7 dicembre 2011

I mille volti dell'apprendimento

Seduto sull’aereo di ritorno da Boston, mi cade l’occhio sulla rivista del vicino. Si tratta di Forbes: in copertina, a tutta pagina, domina la foto commemorativa di Steve Jobs. Chiedo a prestito il giornale e scopro che ogni sua singola pagina e’ dedicata alla vita di questo grande innovatore. Ripercorro a ritroso il suo percorso lavorativo e di vita e nel farlo mi trovo a ragionare di apprendimento. Come ha fatto Jobs a costruire tale impero?

Le prime pagine sono quelle che mi colpiscono di piu’: apprendo che prima di avere successo con Apple, Jobs passa attraverso molteplici iniziative imprenditoriali senza successo. Jobs e’ uno sperimentatore, e in quanto tale e’ alla ricerca di situazioni non ancora codificate in cui si possa prendere carico in prima persona di una nuova sfida. Oltre a essere un curioso sperimentatore, Jobs viene definito unanimemente “genio”. In quanto tale sa di esserlo e fa sempre le cose di testa propria, con testardaggine e determinazione, senza cercare i consigli di chi e’ piu’ esperto di lui. Al contrario, sembra mosso dalla volonta’ di dimostrare a tutti gli altri che alla fine ha ragione lui. Nel far questo, ovviamente in quanto inesperto, commette molti errori. Da cui, pero’, impara.

Mi concedo di avanzare una prima ipotesi rilevante per il mondo dell’educazione e della formazione, senza pretendere di essere il primo e l’unico a teorizzarla, ne’ tanto meno di dare giudizi di merito. Da un certo punto di vista e in tutte le sfumature di grigio piuttosto che in bianco e nero, nell’universo dell’apprendimento si distinguono soggetti sperimentatori da soggetti “affiliati”. Questi ultimi preferiscono apprendere all’interno di percorsi ben codificati, facendo propri i punti di riferimento offerti da maestri, esperti, scuole di pensiero o discipline accademiche. I loro percorsi sono lineari e orientati al riconoscimento all’interno di comunita’ di persone e di valori ben definite. Per molti versi, gli affiliati vivono piu’ serenamente degli sperimentatori, che invece si espongono maggiormente a quello che non sanno, trovandosi a gestire piu’ incertezza e a commettere piu’ errori.

D’altro canto, pero’, incertezza ed errori sembrano essere formidabili veicoli di apprendimento. La prima perche’ ci forza a immaginare molteplici soluzioni a un problema, un po’ come e’ chiamato a fare un ricercatore. I secondi perche’ ci si imprimono nella memoria. Chi sbaglia impara, e forse non c’e’ apprendimento piu’ efficace di quello che nasce da un errore, perche’ ne abbiamo vissuto le conseguenze sulla nostra pelle. Certo, e’ necessario essere in grado di riconoscere gli errori come tali, piuttosto che rileggerli con una chiave di lettura a se’ favorevole: anche in questo mi sembra che gli sperimentatori siano agevolati (o sfavoriti, a seconda del punto di vista), perche’ a differenza degli affiliati potrebbero non avere epistemologie forti all’interno delle quali cercare giustificazioni e conforto.

Un’altra via maestra per l’apprendimento, per lo meno a giudicare dalla mia limitata esperienza professionale, e’ quella dei momenti di sintesi e di bilancio. Durante queste occasioni si e’ in grado di mettere insieme pezzi diversi di esperienza e di conoscenza, ricostruendo piu’ chiaramente le dinamiche degli eventi e individuandone le cause (quello che gli americani chiamano “connecting the dots”). Recentemente mi e’ capitato di dovere preparare una presentazione sulla mia iniziativa imprenditoriale in Olanda, a distanza di qualche mese rispetto a quando le attivita’ in quel paese si erano concluse. Anche grazie allo stacco temporale, preparare la relazione mi ha offerto l’opportunita’ di rileggere l’esperienza maturata in modo unitario e con sufficiente distacco emotivo, facilitando una comprensione di piu’ alto livello sul come erano andate le cose.

Un fenomeno simile di sintesi – per altro molto studiato dagli esperti – sembra attivarsi allorquando la mente si trova improvvisamente e interamente assorbita da qualcosa di diverso e di piacevole, dopo essere stata impegnata continuativamente da una serie di stimoli nuovi o da un problema da risolvere. Non credo sia un caso se i momenti piu’ creativi dei miei soggiorni a Boston si inneschino durante i voli notturni di ritorno in Europa, piuttosto che in autobus di ritorno dal weekend a New York. Tale apprendimento di sintesi sembra fortemente facilitato dalla scrittura o dalla conversazione, momenti che ci forzano ad esplicitare le connessioni tra concetti.

Da ultimo, considero quella dimensione dell’apprendimento legata alla visione del punto di arrivo delle proprie azioni e del proprio percorso. Lavoro da molto tempo con ingegneri e tecnici, e continuo a rimanere affascinato dalla loro grande capacita’ esecutiva. Ancorando la programmazione a un “diagramma di flusso”, individuano linearmente le azioni da intraprendere: faccio A, poi faccio B, quindi faccio C. A volte pero’ tale ingegnerizzazione porta con se’ un risvolto negativo, in quanto la visione dello step presente e di quello immediatamente successivo preclude quella dell’obiettivo finale. Di conseguenza, anche straordinari esecutori potrebbero non riuscire ad anticipare i problemi e le opportunita’ disseminati lungo il percorso, correndo il rischio di arenarsi agli step intermedi nell’attesa che venga detto loro che cosa fare.

Forse anche per questo motivo i paradigmi educativi emergenti enfatizzano il cosiddetto “pensiero laterale”, quello che consente di imboccare strade diverse per arrivare alla stessa destinazione. Questa dote potrebbe andare di pari passo con una forte visione d’insieme o olistica delle cose, che tra l’altro facilita l’ingegnerizzazione a ritroso del corso delle azioni (“reverse engineering”): avendo ben chiara la destinazione, capisco che e’ necessario passare da C, e prima da B, e prima da A. I percorsi formativi umanistici sembrano agevolare approcci olistici e finalistici, posto che un background esclusivamente umanistico potrebbe produrre grande visione strategica ma minore capacita’ esecutiva.

In definitiva, mi sembra che sperimentare, affiliarsi, sintetizzare, ingegnerizzare e “strategizzare” siano tra gli strumenti piu’ importanti per l’apprendimento di piu’ alto livello. L’indole e la storia formativa di ognuno di noi ci incanala piuttosto naturalmente verso l’uno piuttosto che l’altro, e padroneggiarne uno o due risulta gia’ molto difficile. Resta il fatto che la consapevolezza dell’esistenza dei “mille volti dell’apprendimento” puo’ allargarci gli orizzonti e spingerci verso nuovi esperimenti. Spianando la strada verso una delle esperienze piu’ gratificanti e motivanti per gli esseri umani, quella di mettere a miglior frutto le nostre conoscenze e le nostre esperienze.

martedì 15 novembre 2011

Concentrazioni di ricchezza e crisi finanziarie

Da qualche tempo sembra che non si senta parlare d'altro che di crisi finanziarie e bolle speculative. Nel 2000 scoppia la crisi della new economy; nel 2008 e’ la volta dei mutui subprime; nel 2010 tocca ai debiti sovrani nell’area dell’Unione Europea; presto forse tocchera’ alle carte di credito americane o a qualcos’altro. Il fenomeno assume forme diverse ma sembra rimanere fondamentalmente lo stesso: si fa credito a qualcuno che si scopre poi non essere in grado di ripagare. Le banche restano protagoniste, insieme a vecchi e nuovi istituti finanziari. Di volta in volta i soldi vengono messi nelle mani di: aspiranti imprenditori poco affidabili; aspiranti compratori di case poco affidabili; stati nazionali poco affidabili; consumatori poco affidabili.

Alla luce di tali premesse, mi domando: come e’ possibile che negli ultimi anni gli investitori si prendano un granchio dopo l'altro? Una risposta che reputo plausibile e’ la seguente: gli operatori hanno talmente tanta ricchezza da gestire, che quando esauriscono tutte le opzioni piu’ ragionevoli di investimento, cominciano ad abbassare i requisiti e ad assumersi piu’ rischi. Quando tutti i porti sicuri sono stati scoperti e sono gia’ in via di sfruttamento, ci si avventura verso mete piu’ incerte e rischiose. Questo e’ probabilmente tanto piu’ vero quanto i soldi che l’investitore si trova a gestire non sono i propri, e le responsabilita’ personali di un futuro fallimento non sono chiare (al riguardo, si pensi alle derivate come nuovi strumenti di frammentazione della proprieta’ e della responsabilita’).

Sintetizzando, mi chiedo: e’ possibile che – a monte di molte altre cause – la genesi delle recenti crisi finanziarie sia da ricercare nell’eccesso di capitale a disposizione degli operatori finanziari? E’ possibile che il mondo della finanza globale assomigli sempre piu’ a una vasca idromassaggio (quando a capacita’ di generare bolle) per un problema di eccessiva disponibilita’? E se questo e’ il caso, che cosa e’ ha consentito che cosi’ tanta acqua di accumulasse in tale vasca?

Cerco di darmi una risposta pensando a quello che economisti del calibro di Stiglitz e Krugman considerano uno dei portati piu’ dannosi della globalizzazione cosi’ come attualmente condotta: la concentrazione di straordinarie quantita’ di ricchezza – frutto di nuove efficienze sul lavoro e di nuove tecnologie – nelle mani di pochi. Una volta raggiunto il tetto di beni materiali acquistabili, e’ plausibile pensare che queste persone riversino in massa il resto del loro denaro nelle mani delle banche e degli istituti finanziari. Non solo tale immensa dislocazione equivale a sottrarre liquidita’ immediata all’economia reale, ma in seconda battuta (quando cioe’ quelle risorse vengono investite) puo’ addirittura sfalsarla: si pensi a quanti immobili vengono acquistati come puro investimento, contribuendo a far lievitare i prezzi a danno di chi ne avrebbe effettivamente bisogno. D’altronde, in assenza di un vaglio politico, la finanza globale punta alla massimizzazione: il capitale va dove e’ meglio compensato, piuttosto che dove c’e’ una effettiva necessita’.

Poste queste premesse, uno dei migliori stimoli all’economia reale e alla tanto agognata crescita potrebbe essere quello di rimettere il denaro in mano a chi ha effettivamente bisogno di spenderlo. Pensiamo a un milione di euro in mano a un’unica persona che ne ha gia’ dieci, piuttosto che a mille persone che non ne hanno proprio (mille euro a testa). Nel primo caso e’ altamente probabile che buona parte della somma venga dirottata in conti corrente e circuiti finanziari; nel secondo e’ altrettanto probabile che la stessa somma venga interamente spesa.

Uno dei vizi originari delle odierne crisi economiche sembra quindi risiedere nell’iniqua distribuzione della sempre maggiore ricchezza generata dal lavoro e dalla tecnologia. Lo straordinario divario negli stipendi dei lavoratori ne e’ la cartina di tornasole: se negli anni ottanta Adriano Olivetti imponeva che lo stipendio piu’ alto in azienda non potesse eccedere di 10 volte quello piu’ basso, al giorno d’oggi si parla di differenziali nell’ordine delle centinaia se non delle migliaia. Quello che rende la situazione ancora piu’ problematica e’ constatare che questo fenomeno avanza specularmente a quelli per cui, nei paesi occidentali:

- i salari medi stagnano;
- avanzano disoccupazione e incertezza nei contratti di lavoro;
- si moltiplica la delocalizzazione verso paesi in cui si i lavoratori possono essere pagati meno;
- gli stati sovrani sono costretti a smantellare lo stato sociale su richiesta dei mercati
(sempre piu’ gonfi di soldi dei super-ricchi);

In altre parole, a fronte di un eccezionale arricchimento di un’elite, si demanda un impoverimento di tutti gli altri e degli stati sovrani. Uno dei pochi risvolti pienamente positivi di un sistema tanto sbilanciato sembra essere quello dell’avvento delle fondazioni private, promosse da miliardari responsabili come Gates e Clinton, impegnate a rimettere in circolo i profitti nel mondo reale verso chi ne ha veramente bisogno.

Che cosa ha consentito di arrivare a questo punto? Krugman assegna grande responsabilita’ all’amministrazione Bush, promotrice di “deregulation” a tutti i livelli. In assenza di regole e di buone pratiche, quali incentivi possono avere le classi dirigenti a non alzarsi lo stipendio e i bonus? In un’arena economica globale in cui si compete all’esasperazione, quali incentivi puo’ avere un’azienda a non minimizzare i costi del personale “sostituibile” e usare remunerazioni stellari per attrarre a se’ i manager piu’ performanti? In tale circostanza di liberismo incontrollato, quello che mi sorprende non sono tanto i movimenti “Occupy Wall Street” o le proposte di Obama di alzare le tasse ai super-ricchi, quando piuttosto il fatto che tali reazioni arrivino solo adesso e con una forza relativamente modesta.

In conclusione, sembra quindi che il libero mercato senza regole lungi dal favorire un’allocazione efficiente delle risorse e quindi un’espansione dell’economia reale, favorisca una concentrazione inefficiente delle risorse stesse nelle mani delle banche e degli istituti finanziari. Nel 2008 l’amministrazione Obama reputava che il salvataggio dell’economia dovesse passare per il salvataggio delle banche? Stando ai dati sui prestiti alle imprese, volano per crescita ed occupazione, per ora sembra che le banche continuino ad interessarsi maggiormente ai circuiti finanziari piuttosto che a quelli reali. Non credo ci sia da sorprendersi: se le regole del gioco non cambiano, vale ancora il principio per cui il capitale va dove (si crede) verra’ meglio compensato, piuttosto che dove c’e’ un effettivo bisogno di esso.

mercoledì 26 ottobre 2011

Capire da dove veniamo, per accettare il presente e costruire il futuro

Scrivo di traffico e “me la prendo” con Padova in cui tante cose sembrano non andare per il verso giusto. Condivido le lamentele di tanti colleghi sul declino economico e morale dell’Italia, che per qualcuno costituisce addirittura motivo di vergogna all’estero. Nonostante tutto, spinto da un’indole ottimistica e costruttiva, mi metto alla ricerca delle ragioni profonde dell’attuale stato delle cose, convinto che visioni troppo pessimistiche o assolutistiche danneggino il morale e non concedano spazio a tutto quello che di buono sicuramente c’e’.

Parto dal percorso storico e dalle radici culturali dell’Italia e delle sue regioni. Incappo nel bellissimo “Veneti” del sociologo Bernardi e apprendo che i micro-insediamenti sparpagliati nel territorio (gli stessi che contribuiscono a far scomparire la campagna e a generare dinamiche anarchiche di traffico) sono nel DNA del territorio veneto. Si costruiva il prossimo campanile laddove il suono delle campane del precedente non arrivava piu’, cosi’ che il richiamo della comunita’ di fede potesse giungere a tutti. La volonta’ di riscatto dei contadini dal giogo dei proprietari terrieri contribuisce a far maturare un forte desiderio di autonomia, che trova massima realizzazione nel costruirsi la propria casa indipendente e fisicamente isolata da tutte le altre, nonche’ nell’avviare l’azienda di famiglia. Anche per questi motivi, la pianura veneta a tutt’oggi si presenta come “citta’ diffusa”, con poco verde, e molte strade, capannoni e traffico. L’essere venuto a conoscenza delle ragioni del passato, remoto o recente che sia, in qualche modo mitiga la mia frustrazione: mi mostra come a monte di una situazione negativa possano comunque esistere degli elementi positivi (“nobili” o semplicemente culturali) che pero’, nel contesto presente, producono effetti indesiderati.

Mi concentro sull’Italia. Traendo insegnamento dalla mia esperienza di vita e lavoro negli Stati Uniti, cerco di isolare dei fattori culturali che, a mio avviso, penalizzano il paese in un mondo di competizione economica globale. Penso a quello che la globalizzazione economica richiede alla aziende, e lo comparo (versus) con quello che sembra essere il modello italiano predominante:

- grande scala (versus: piccola scala o scala artigianale)
- innovazione a tutti i costi (versus: salvaguardia delle rendite acquisite e di posizione)
- controllo distribuito, da parte dei numerosi “stakeholders” coinvolti nell’impresa (versus: controllo accentrato, famigliare e padronale)
- standardizzazione dei prodotti, dei servizi e dei rapporti umani (versus: originalita’, artigianalita’ e spontaneita’ nei rapporti umani)
- massimizzazione degli obiettivi e del profitto (versus: soddisfazione nel processo di lavoro e nel profitto)
- attenzione all’analisi dei dati e al metodo scientifico nella presa di decisioni (versus: enfasi sull’intuizione)
- orientamento alla mobilita' professionale (versus: orientamento alla sicurezza professionale e alle posizioni a lungo termine)
- globalismo tout-court, enfasi su valori apparentemente universali (versus: attaccamento e amore verso la propria terra, enfasi su peculiarita’ culturali)

Traendo la somme sembra che l’“anima” della globalizzazione sia scientifico-tecnologica, un’emanazione diretta della cultura americana statunitense, mentre l’“anima” dell’Italia sia umanistica. Certo, si tratta di una generalizzazione verso gli estremi, valida probabilmente solo per parte dei casi aziendali e comunque in tante sfumature di grigio piuttosto che in bianco o in nero. Nonostante tutto, comprendere la realta’ dei fatti considerando anche ragioni culturali profonde di questo tipo aiuta ad accettarla.

E’ vero, non e’ il momento economico migliore per l’Italia e molte nostre imprese potrebbero essere travolte dall’onda d’urto della globalizzazione. E’ anche vero pero’ che non dobbiamo necessariamente vergognarcene, e sicuramente abbiamo ancora qualcosa di interessante da dire. Al contrario, la presa di coscienza della nostra estrazione culturale e storica puo’ essere di ispirazione per il futuro. Al riguardo, lavorando in settori hi-tech connessi alle metropoli globali, mi sono presto reso conto come lo sviluppo urbano di oggi – la produzione “di massa” di citta’ futuristiche di grattacieli e quartieri residenziali preconfezionati – palesi spesso un’assenza clamorosa di originalita’, raffinatezza estetica e dimensione umana di cui molti di noi italiani sono maestri. Come e’ possibile che il mondo odierno non sappia piu’ produrre le Firenze e le Urbino? Dove sono gli italiani di cui il mondo avrebbe cosi’ disperatamente bisogno?

In conclusione rifletto sul ruolo pernicioso giocato dalla stampa e dai mezzi di comunicazione italiani, quanto a presa di coscienza di potenziale positivo e approccio costruttivo. Per molte ragioni e cavalcando il declino della classe politica, i principali media italiani a tutt’oggi sembrano fare a gara a premiare il “peggio” e i “peggiori”, portandoli in prima pagina e dandogli spazio, a discapito di tutto quello che di positivo esprime il paese. I media avrebbero l’opportunita’ di aiutarci a capire da dove arriviamo e cosa potremmo fare, mentre purtroppo al momento fomentano ed esaltano le nostre paure. A volte finiscono per diventare caricatura di quell’Italia che si piange addosso e si lamenta di tutto. Spesso noi italiani sottovalutiamo l’importanza della conoscenza e della comunicazione, piuttosto che dell’onnipresente politica, quali leve virtuose per cambiare le cose. Ma e’ forse inevitabile imparare a capire ed accettare chi siamo per ricostruirci la meritata rotta verso il futuro?

mercoledì 21 settembre 2011

Accidenti al traffico

8.45 di mattina, zona industriale di Padova: fine della corsa.Una lunga coda di macchine si dispiega davanti a me. Anche in immissione da destra. Anche a sinistra. Vale forse la pena spegnere il motore della mia Y, che intanto continua ad emettere emissioni nocive: CO2 , PM10, NO2, CO…

Come in un film, immagino di poter “congelare” questo istante e mi chiedo che cosa induca ciascuna di queste persone chiuse come me dentro la propria scatola di automobile a trovarsi proprio qui, adesso, alle 8:46 e 21 secondi, in Via Uruguay.
Provo a pensare a una serie di ragioni concomitanti:

- le agende personali: c’e’ chi sta andando in ufficio, chi porta il bimbo a scuola o va a fare la spesa, chi si appresta a uscire dalla citta’ per uno spostamento di lavoro;
- gli orari “sociali” della citta’: aperture e chiusure degli esercizi commerciali, delle scuole, degli uffici, delle strutture ricreative e sportive;
- i luoghi di abitazione, lavoro e attivita’ terze di coloro che si spostano, posizioni che determinano i loro tragitti;
- la conformazione della citta’, degli isolati, delle strade: tutti noi stiamo spostandoci da un’origine a una destinazione, utilizzando le strade a nostra disposizione. A loro volta queste strade risentono della conformazione della citta’: posizione, forma e contiguita’ di isolati, aziende, parchi, edifici;
- la disponibilita’ e la posizione dei parcheggi;
- la disponibilita’ e attrattivita’ di mezzi di trasporto alternativi: autobus, biciclette, treni, taxi, piedi;
- la possibilita’ di sostituire il viaggio con la comunicazione a distanza: via telefono e via Internet.

Nel frattempo, sono ancora in coda. Ciascun punto della mia lista mi fa venire in mente uno scenario desiderabile:

- se solo le agende personali fossero meno dense…
- se solo gli orari della citta’ non si sovrapponessero, consentendo a chi si sta spostando per lavoro di non finire in coda con chi si sta spostando per altre ragioni…
- se solo i viaggiatori e le loro mete si trovassero piu’ vicini tra loro…
- se solo potessimo sempre viaggiare su una linea retta, invece che a zig-zag…
- se solo potessimo sempre trovare parcheggio immediatamente al nostro arrivo, senza dovere girare mezzora per trovare un posto…
- se solo potessimo prendere sempre la bicicletta o il tram…
- se solo potessimo sempre rinunciare allo spostamento grazie a Internet o a una telefonata…

Poi alzo gli occhi e cerco di fare un censimento delle automobili che mi circondano e delle persone al loro interno. 1 sola persona a bordo, 1 sola persona a bordo, 2 persone a bordo, 1 sola persona a bordo, 1 SUV, 1 utilitaria, 1 macchina di cilindrata alta, 1 Diesel, 1 SUV. Se solo potessimo sempre circolare con automobili poco inquinanti e condividerne i posti con qualcun’altro…

Arrivo in ufficio e cerco di capire perche’ Padova mi da’ sempre l’impressione di essere colma di vetture circolanti (relativamente alla sua media dimensione) e cinta in una morsa di circonvallazioni, tangenziali e autostrade. Sembra che la citta’ sia cresciuta in modo non pianificato, senza prevedere ne’ prevenire l’impatto del proprio sviluppo sul traffico. Ritorno alla lista di scenari auspicabili, e considero qualche elemento di criticita’:

- in molti luoghi si sovrappongono flussi lavorativi, residenziali e commerciali. Emblematico il caso del centro commerciale Giotto, delle torri di uffici della Stanga, e del quartiere fieristico: posizionati tra il casello autostradale di Padova Est e il centro cittadino contribuiscono a tappare per tutti l’ingresso in citta’. L’Ikea invece e’ posizionata direttamente all’uscita del casello, cosi’ che i suoi flussi dall’esterno non vanno a pesare sul traffico urbano;

- lo sviluppo residenziale si e’ esercitato poco in altezza, attraverso grandi palazzi tipicamente disposti su graticolati a linee rette, e molto rasoterra, attraverso villette mono-residenziali spesso non allineate tra loro. Tale sviluppo ha portato la citta’ ad espandersi a macchia d’olio a discapito della campagna circostante, con l’incremento delle distanze da percorrere e con piu’ lunghi percorsi a S per circumnavigare gli isolati e i loro interstizi di verde;

- esistono pochi parcheggi sotterranei o in altezza, con la conseguenza che le automobili dei pendolari e dei visitatori si trovano a competere con le automobili dei residenti per i pochi posti a bordo strada, contribuendo ad esasperare il traffico urbano;

- i mezzi di trasporto alternativi sono scarsi. Non esiste metropolitana sotterranea ne’ di superficie, una soluzione ideale perche’ su linea retta e senza interferenza sul resto del traffico. Relativamente al numero di auto in circolazione, gli autobus sono decisamente pochi e poco frequenti, e quindi ulteriormente penalizzati dagli utenti. Esiste una solo linea di tram. A dispetto di molte piste ciclabili, i ciclisti sono sopraffatti e penalizzati dal traffico veicolare.

Altri fattori sembrano contribuire a complicare ulteriormente la situazione: rispetto ai paesi del Nord Europa, in Italia stenta a prendere piede la flessibilita’ nella presenza lavorativa, intesa sia come lavoro da casa (per esempio durante 1 o 2 dei 5 giorni feriali) sia come flessibilita’ oraria di ingresso/uscita dal posto di lavoro. Di conseguenza, i due picchi giornalieri di traffico di “rush hour” perdono un’occasione per sgonfiarsi. Oltretutto, il tessuto produttivo locale si basa ancora per la maggior parte sulla produzione di beni e prodotti fisici, che a differenza dei nuovi prodotti a contenuto digitale necessitano di essere trasportati fisicamente. L’Interporto di Padova, uno dei piu’ grandi d’Italia e attrattore di centinaia di camion ogni giorno, e’ un buon affare per l’economia della citta’, ma un cattivo affare per l’ambiente.

Sembra quindi che il traffico urbano sia la punta dell’iceberg di questioni urbanistiche e sociali, un sintomo di fattori concomitanti piuttosto che un problema a se’ stante. Per questo motivo, gli interventi diretti sulle infrastrutture – costruzione e allargamento di strade – andrebbero considerate soluzioni “di ultima spiaggia”. Oltretutto che, se si cementeranno aree verdi, si sottrarra’ alla citta’ parte della sua capacita’ di assorbire lo stesso inquinamento da traffico. Meglio puntare a una piu’ intelligente regolamentazione della circolazione e a una piu’ accurata e pervasiva informazione ai viaggiatori, preventiva e in tempo reale. Su queste leve si battono eserciti di ingegneri e ricercatori di tutto il mondo, ma i loro modelli predittivi e di ottimizzazione devono comunque fare i conti con i vincoli urbanistici e sociali di cui si e’ discusso prima. I “trasportisti” operano in un settore ricco di finanziamenti e di grande attenzione pubblica; altrettanto dovrebbe succedere agli urbanisti, posto che una pianificazione urbana intelligente puo’ scontrarsi con gli interessi individualisti di costruttori, immobiliaristi, commercianti nonche’ singole comunita’ e abitanti. E non dimentichiamoci di quello che si puo’ fare quanto a cultura ed educazione alla mobilita’, punto di partenza per il miglioramento di abitudini individuali poco efficienti o troppo comode.

In definitiva, sembra che il traffico possa fungere da specchio della citta’ e della societa’ che lo produce: pianificato piuttosto che anarchico; concentrato in alcune fasce orarie piuttosto che distribuito; ricco di mezzi pubblici piuttosto che nel mezzi privati di grossa cilindrata. Per alcuni rimane un indicatore fedele dell’andamento delle attivita’ econonomiche: piu’ una citta’ e’ trafficata, piu’ e’ vitale, piu’ genera ricchezza. Per altri rimane un caposaldo della propria liberta’ individuale: non sia mai che mi venga impedito di muovermi, come e dove voglio. Certo, in coda, nessuno affermerebbe di sentirsi molto libero. Neanche in ospedale, vittima di malattie e cancri delle vie respiratori, di incidenti e di stress.
9.01: sono arrivato a destinazione. Parcheggio la macchina e penso agli olandesi, in bicicletta, sotto la pioggia.

giovedì 1 settembre 2011

Tributo alla Grecia

I motori si fanno roboanti, l’acqua del mare gorgoglia impetuosa in coda alla nave, un goffo testacoda ci proietta faccia a faccia con la terraferma. Di fronte a noi, il porto di Igoumenitsa.

Le vetture cominciano lo sbarco, mentre dal ponte i passeggeri contemplano la Grecia: montagne aspre e scoscese rivestite di macchia bassa e compatta, nuvole scure e minacciose, mare blu e spesso, scogli precipitati in mare; trambusto cittadino, truck scoperchiati, case non finite cinte da enormi terrazze, polvere, selva di cartelli pubblicitari pieni di fotografie e alfabeto greco, senso di Middle-East. Uno scenario paesaggistico drammatico, un biglietto da visita spettacolare per i viaggiatori che si sono lasciati alle spalle le lunghe e timide colline di Ancona, con la sua armonia equilibrata di luci e colori.

Noi rimaniamo a bordo, proseguiamo in direzione sud, dove ci attendono i coni “vulcanici” del golfo di Patrasso congiunti dal monumentale arco di Rion-Antiron, miracolo della tecnologia e ponte strallato piu’ lungo al mondo. Sbarchiamo. La luce abbacinante del Peloponneso e l’autostrada E55, in cui le macchine gareggiano e ti costringono in una spuria corsia di emergenza, ci ricordano cosa possa significare scendere sette gradi di latitudine nella pancia del Mediterraneo.

Poi, con nostro sommo piacere, ci si apre davanti la baia di Navarino: incorniciata da un uniforme declivio collinare popolato da infinite distese di ulivi, cinta da montagne coniche in entrata e in uscita, disegna un semicerchio perfetto di golfo e spiaggia, lasciandosi alle spalle una laguna, e separandosi dalla macchia blu del mare aperto attraverso una lingua di terra collinosa a forma di S rovesciata, l’isola di Sfaktiria. Sullo sfondo verde, una gemma bianca, in evidenza sia di giorno che di notte: il paesino di Pilos. Il panorama rasenta perfezione e completezza. Sembra di entrare in una cartolina.

La nostra vacanza si dispiega in modo regolare e prevedibile. Ci lasciamo sorprendere dagli “occhi di Venezia”, due fortificazioni protese nel bacino sud-est del mediterraneo che i veneziani utilizzavano come stopover nel loro tragitto verso la terra santa. Indulgiamo nei giardini del monastero di Koroni, celebrazione del Mediterraneo: completo della totalita’ delle sue piante e dei suoi frutti, magnifica l’olfatto e la vista di qualsiasi visitatore. Dalle sue sommita’ si dispiega la veduta del Mani, la penisola attraverso cui la catena del Tagete precipita in mare: a tratti tanto gialla, aspra e spoglia che sembra caduta dalla luna.

Il resto, e’ vita di mare. In spiagge piu’ o meno recondite, o in pittoreschi paesini di pescatori in cui si respira la famosa “atmosfera” della Grecia. Mi chiedo di che cosa questa si componga, andando a isolarne alcuni elementi, nel punto di congiunzione tra architettura urbana e architettura del paesaggio. Si tratta di un contesto fisico particolarmente conduttivo al benessere e alla convivialita’, compendiato qui in Messenia dalla gentilezza e deferenza dimostrata dalla maggior parte degli abitanti del luogo e dei visitatori. Anzitutto, la rilevanza del verde e degli elementi naturali all’interno degli spazi costruiti: le coperture di verde che sovrastano gli spazi aperti delle taverne o addirittura alcune piazzette o fette di spiaggia si avvicinano a opere d’arte. Vite, palma, alberi da fiore e da frutto, o addirittura enormi platani avviluppati tra loro, regalano piacere alla vista e all’olfatto, oltre che un surplus di ombreggiamento e ossigenazione.

La ricerca del connubio con la natura non si limita al verde: sorprende notare quanti ristoranti posizionino i propri tavolini in plateatici talmente a ridosso del mare, che ci si augura che non venga mai a cedere nessuna sedia. Chi cena sul mare, cosi’ come chi sorseggia un drink nei piani alti aperti o finestrati dei locali, godra’ di un’altra cosa alla quale i greci sembrano fare molta attenzione: il panorama sul paesaggio, sia esso quello naturale o quello “umano” della via sottostante. Il tutto accompagnato da un fresco tzaziki, da un bicchiere d’acqua che viene servito gratuitamente non appena ci si siede, nonche’ dalle melodie avvolgenti della musica greca, di gran lunga ancora la piu’ popolare e carica di esotiche sonorita’ medio-orientali. Questa propensione naturale verso il “chill-out”, il meritato rilassamento, trova la sua apoteosi nei beach bar, stilosi locali su spiagge altrettanto meravigliose: nonostante la ricercatezza “milanese”, un obrellone e uno sdraio sono alla portata di tutti. Gli ospiti europei parlano inglese, navigano con il Wi-Fi, si compiacciono di fare quelli avanti anche nella remotezza del Peloponneso. Buona parte di loro sviluppera’ forme piu’ o meno gravi di saudade verso la Grecia, ma vi faranno ritorno molto presto…

Torno a casa e scopro che nei giornali la G di Grecia sta per terza lettera di “PIGS”, acronimo che paragona Portugal-Italy-Greece-Spain (paesi europei accumunati dalla crisi del debito pubblico) a un branco di maiali. Poi accendo la televisione e osservo le rivolte di Atene: volti bardati, rabbia collettiva, distruzione, fuoco. Il trattamento riservato dai media a questo paese mi sembra non fare giustizia di tanta bellezza vissuta. Certo, i nodi vengono al pettine per la Grecia: cosi’ come il mondo globalizzato concede ai paesi sovrani di vivere al di sopra dei propri mezzi, allo stesso modo prima o poi arriva a chiedere il conto. E ci si dovra’ abituare a standard di vita piu’ bassi. Voglio dire, le cose possono andare molto peggio: apro Google Earth e misuro 438 km tra Pilos e le coste della Libia, meno di quanti dividano Milano da Roma ed esattamente quanti separano New York da Washington DC. Mentre noi stavamo sorseggiando un freddo cappuccino deliziati dalla lounge music, 438 km piu’ a sud si stavano sparando dietro.

Certo, un tributo alla Grecia non si puo’ concludere con una nota cosi’ triste. Meglio portarsi dietro la memoria di tutta la magia di questo paese a cavallo tra l’Europa e il Medio Oriente. E continuare ad apprezzare la bellezza e la positivita’ di cui tutti i paesi del mondo sono colmi, Libia compresa, nonostante i mono-temi che ci propongono i media e le difficolta’ del momento.
Straccio i giornali di fronte a me e mi crogiolo nei ricordi.


martedì 30 agosto 2011

Sulle fratture della globalizzazione: alla scoperta del Brasile

Un pungente odore di muffa pervade la stanza, i vecchi mobili in legno appaiono contriti dall’umidita’ dell’equatore. Fuori Belem, metropoli brasiliana porta d’ingresso dell’Amazzonia. Ancora ho negli occhi il paesaggio che ha deliziato il mio atterraggio: il delta del rio delle Amazzoni, fiumi marroni disegnati a serpentina sulla distesa verde della foresta vergine, scura e compatta. Da qualche tempo Manaus ha soppiantato Belem nei collegamenti aerei internazionali, cosi’ che per arrivarci dall’emisfero boreale la maggior parte dei viaggiatori scende fino al tropico del Capricorno, a San Paolo, per poi risalire all’equatore.

Questa zona del nord del Brasile e’ talmente fuori rotta che fino agli anni sessanta Belem intratteneva la maggior parte dei suoi scambi commerciali e culturali direttamente con l’Europa piuttosto che con il Brasile urbano del Sud-est e Sud. Ancora oggi, come non mai, gli affluenti piu’ reconditi del Rio delle Amazzoni vengono utilizzati a due sensi di marcia per il contrabbando diretto tra paesi produttori e paesi consumatori: droga e legname da Colombia e Peru’ verso l’occidente; armi nella direzione opposta.

Sono a Belem per un incontro di lavoro con la Vale, una multinazionale mineraria che nello stato brasiliano del Para’, a Carajas, gestisce uno dei piu’ grandi giacimenti del mondo: ferro, manganese, rame, oro. Negli ultimi anni il fatturato della Vale e’ esploso in modo direttamente proporzionale alla domanda industriale della Cina, divoratrice di materie prime sui mercati globali. Indirettamente, e’ decollato anche il PIL del Brasile, un paese che nel frattempo sembra avere beneficiato di alcune politiche sociali innovative e di successo. Si pensi al programma “Bolsa Familia” di Lula: trasferimenti diretti di denaro alle madri di famiglia, con discrezione totale nel suo utilizzo a patto che i figli vengano mantenuti a scuola.

Bersaglio di accuse da ambientalisti e comunita’ locali, la Vale ha recentemente fondato a Belem un centro di eccellenza e ricerca sullo sviluppo sostenibile. Come altri colossi minerari, questa multinazionale si sta orientando verso pratiche estrattive piu’ eco-sostenibili, oltre a maggiori interventi diretti per il welfare delle comunita’ locali. Allo scopo di popolarlo di contenuti innovativi e forza lavoro internazionale, ha stretto un accordo con il MIT di Boston, ed ecco perche’ mi trovo seduto al temporaneo quartier generale del “Vale Technological Institute”, in Travessa Dr.Moraes in pieno centro a Belem. Insieme al mio gruppo, al tavolo di lavoro sono presenti rappresentanti della municipalita’ di Belem e delle due universita’ locali.

La giornata di lavoro porta i primi frutti. Nel tardo pomeriggio, la discussione converge verso una primissima idea di progetto: utilizzare nuove tecnologie e sensori per tracciare e rendere piu’ efficiente la “water economy” informale delle popolazioni locali, l’insieme di scambi di beni e servizi di prima necessita’ che si dispiegano lungo il grande fiume. Sembra che la presenza di un ente esterno e super partes come MIT serva da catalizzatore di consenso tra enti che non nutrono molta fiducia gli uni negli altri. Occorre un po’ di tempo prima che la conversazione si faccia appassionata, prima che vengano messi da parte i sospetti reciproci e si superi un certo senso di rassegnazione. Alcuni brasiliani presenti all’incontro prevedono grande difficolta’ nel passare dalle parole ai fatti. Si continua a enfatizzare l’importanza di nuove politiche pubbliche: sembra che senza l’avvallo del governo locale non si possa fare nulla, dando per scontato che gli interessi dei privati siano per definizione antitetici ai bisogni sociali. E ci sono talmente tante cose che si potrebbero fare per migliorare la situazione, che ci si perde nel capire da che parte occorra cominciare.

Mi torna alla mente Venezia e i nostri tentativi di lanciarvi un progetto innovativo qualche anno fa: sembrava di muoversi in una camera di vasi di cristallo, da qualunque parte ci si girasse si rischiava di romperne uno. La soluzione piu’ logica sembrava l’immobilismo, nella consapevolezza che fosse piu’ importante guadagnare l’avvallo di qualche potente della citta’, piuttosto che esercitare la “distruzione creativa” dell’imprenditore. Siamo molto distanti da quanto ho esperito negli Stati Uniti, al MIT: quell’idea che solo attraverso l’iniziativa personale si possano migliorare le cose e portare un contributo alla societa’.

Uscendo dagli uffici della Vale, la realta’ di Belem mi conferma quanto il Brasile sia paese di grandi fratture sociali e territoriali, che si alimentano le une con le altre. Penso alla foresta amazzonica del Para’, abitata da popolazioni indigene e allo stesso tempo inoculata di appezzamenti, miniere, infrastrutture di trasporto, ed altri generi di proprieta’ privata ad utilizzo commerciale. Buona parte degli interessi degli uni sembrano essere antitetici a quelli degli altri. Penso al tessuto urbano di questa citta’, in cui basta svoltare l’angolo e cambiare isolato per precipitare dall’opulenza dei luccicanti grattacieli di nuovo conio all’indigenza delle favelas (qui chiamate baixadas, perche’ costruite sui terreni bassi a ridosso del fiume). Difficile dimenticare l’immagine di un complesso residenziale di villette perimetrato da mura sopra le quali spuntano “i piani alti” delle baracche immediatamente contigue, prive di acqua corrente e di fognature. Sembra che gli alti tassi di criminalita’ acquisiscano una spiegazione immediata: il crimine e’ sintomo di un male piu’ profondo, delle diseguaglianze di reddito costantemente sotto gli occhi di tutti, esacerbate dalla contiguita’ fisica tra ricchi e poveri. In altri paesi, come Stati Uniti o Francia, tale divario non e’ cosi’ onnipresente, per la presenza di ghetti che “rimuovono” il problema dal punto di vista urbano, isolandolo geograficamente.

Nonostante tutto, la citta’ di Belem continua a crescere, grazie a flussi di manodopera poco qualificata dagli stati brasiliani circostanti. Migliaia di persone continuano a preferire la poverta’ urbana a quella rurale, facendomi pensare che le favelas di tutto il mondo siano certo un luogo di miseria e di frustrazione, ma forse anche di straordinaria umanita’, solidarieta’, creativita’ e speranza. Mi viene Dominique Lapierre e il suo illuminante romanzo sulla “Citta’ della gioia”. Dal finestrino oscurato della macchina intravedo un gruppo di ragazzini impegnati in una partita di pallone in un improbabile campo di terra bianca, scalzi e sotto il diluvio equatoriale…Mi viene voglia di buttarmi a giocare!

Nonostante tutto, stando a quanto ci propongono le statistiche, la classe media brasiliana sembra crescere di pari passo all’espansione del prodotto interno lordo. Credo che chi si occupa di sviluppo sostenibile non possa che esservi ossessionato: in tanti paesi del sud cosi’ come del nord del mondo la globalizzazione post muro di Berlino e’ accusata di pilotare la maggior parte della ricchezza generata nei conti correnti delle elite, a discapito delle classi cosiddette medie. Al di la’ di quello che ci raccontano le riviste economiche sul boom del PIL nei mercati emergenti, la mia superficiale visita in Brasile mi fa pensare che buona parte del nuovo denaro generato, per quanto mobile, finisca in realta’ per essere canalizzato in un gioco di entrate e rientrate nelle banche e nei circuiti finanziari. La minuscola fetta di paese che mi scorre sotto gli occhi mi offre l’opportunita’ di un “reality check”, di una discesa alla realta’ dall’alto delle aspettative.

E’ interessante notare come non fosse stata questa l’impressione durante la mia visita nell’est urbano della Cina, qualche anno fa: in quel caso tornai con la sensazione che nell’impero di mezzo fosse in corso un gigantesco esperimento sociale di creazione di classe media. L’indicatore principale sembrava essere le centinaia di torri residenziali di nuova costruzione: la maggior parte di esse erano e sono tuttora destinate ad allocare e riallocare le classi lavoratrici urbane, storiche o acquisite.
Al di la’ di politiche sociali di cui non sono esperto, forse le ragioni di tale successo si spiegano anche pensando a quanto diversificata sia l’economia cinese, presente a livello manifatturiero (e non solo) nella maggior parte dei settori industriali. Al contrario, il Brasile cosi’ come tanti altri paesi in via di sviluppo devono forse ancora troppo della propria crescita economica ai settori estrattivi e dall’agricoltura estensiva, dalle quali la classe media viene “bypassata” a favore di manodopera poco qualificata e facilmente sfruttabile.

Certo, il Brasile, con la sua ricca e accattivante cultura, ricopre un ruolo speciale per il mondo: i mondiali del 2014 e le olimpiadi del 2016 ne saranno la consacrazione, offrendo un nuovo faro e trampolino nel futuro all’intera America Latina. Força Brasil!

mercoledì 1 giugno 2011

Cambiamenti climatici: scienza contro media?

“Cool it! Un documentario dell’autore dell'Ambientalista Scettico”. Il poster appeso alla parete richiama la mia attenzione: a suo tempo, le dichiarazioni Bjorn Lomborg sul fallimento del summit di Copenhagen mi avevano sopreso per il piglio pragmatico e contro-corrente...Sono in aereo, di ritorno in Italia da Washington, e noto che la persona seduta davanti a me sta leggendo "The skeptical environmentalist”. Lo chiedo a prestito per dedicarci la traversata nord-oceanica.

Pubblicato nell'ormai lontano 2000, si tratta di un'analisi trasversale delle piu’ pressanti questioni globali legate all’ambiente fisico (acqua, energia, inquinamento, sovrappopolamento, biodiversita’), viste attraverso gli occhi del professore di statistica. Prima di ogni teoria, interpretazione o reazione emotiva, precedenza ai numeri che descrivono il fenomeno; prima di ogni conclusione sull’andamento attuale delle cose, il confronto con i dati del passato.

Ne emerge un report volutamente ottimista e confortante sullo stato del mondo: secondo Lomborg, i problemi attuali vengono gonfiati a dismisura dai media e da quegli istituti di ricerca i cui finanziamenti sono proporzionali alla gravita’ percepita dei problemi stessi. Al contrario, i dati scientifici piu' omnicomprensivi ci ricordano da un lato che le risorse limitate del mondo - si pensi per esempio a foreste e acqua dolce - rimangono in misura complessiva enormemente abbondanti (anche se molto piu’ scarse in quelle aree in cui si e’ deciso di espandere gli insediamenti umani). Dall'altro che il trend storico di fenomeni quali l’inquinamento atmosferico urbano e’ positivo, in quanto rispetto a un tempo e’ diminuita la concentrazione e cambiata la tipologia di sostanze inquinanti negli scarichi industriali e delle automobili (anche se sono aumentate il numero di citta' inquinate).

Tornato in Italia scopro che "L’ambientalista scettico" e’ fuori produzione. E’ invece disponibile l’ultimo libro di Lomborg, uscito nel 2008 e intitolato “Stiamo freschi: perche’ non dobbiamo preoccuparci troppo del riscaldamento globale”. Lo compro con un sospetto: gia’ il titolo sembra promuovere una precisa lettura dei fatti, piuttosto che limitarsi a presentarli in maniera neutra e obiettiva. Pubblicato un anno primo del summit sul clima di Copenhagen, potrebbe avere risentito di pressioni da parte delle lobby industriali interessate a far naufragare le negoziazioni climatiche in corso. La lettura in qualche modo conferma le mie remore: questa volta Lomborg si concentra nel sostenere una tesi - quella dell’inadeguatezza del protocollo di Kyoto a fronte di alternative piu’ efficaci - facendo ricorso a proiezioni statistiche sul futuro a mio avviso tanto problematiche quanto quelle che Lomborg contesta.

Nonostante questo, il prof danese e’ illuminante nel mettere in evidenza come le tragedie causate dai cambiamenti climatici diventino sempre piu’ gravi per il fatto che l’uomo abbia costruito in prossimita’ di zone costiere e a rischio, piuttosto che da un incremento tout court dell’intensita’ dei fenomeni. Di conseguenza, argomenta Lomborg, sara’ agendo a questo livello che otterremo i risultati migliori, piuttosto che attraverso misure troppo ambiziose di riduzione delle emissioni votate al fallimento nei negoziati internazionali.

Per quanto necessitino di una revisione approfondita delle fonti citate, gli scritti di Lomborg mi danno l’occasione di riflettere sul grande dibattito in corso sui cambiamenti climatici, esacerbato dalle immagini di devastazione che ci vengono proposte sempre piu’ frequentemente da sempre piu’ regioni del mondo. Inclusa la nostra, si pensi all’alluvione del Veneto del Novembre scorso. Una descrizione del fenomeno obiettiva e contestualizzata nella storia diventa sempre piu’ difficile, cosi’ come la quantificazione del peso relativo delle differenti ragioni. La scena mediatica e’ dominata da allarmisti, apocalittici, scettici, negazionisti, falsificatori di dati, ambientalisti radicali e da molte altre figure che contribuiscono a creare interesse e sensazionalismo intorno al tema.

Anche Lomborg e’ uno di questi, anche se si avvale di un importante punto di ancoraggio per le proprie argomentazioni: la realta’ dei fatti cosi’ come misurata scientificamente, e contestualizzata nell’evoluzione storica. Il suo sguardo del mondo e’ statistico e quantitativo, vale a dire comprensivo del 100% dei fenomeni, e in cui l’attenzione non e’ cannibalizzata da quell’1% o 10% che presenta i risultati piu’ sorprendenti. Colleghi, non dimenticatevi del restante 90% prima di affermare di conoscere lo stato e i destini del mondo. Non dimenticatevi di quelle cose che nel tempo sono andate migliorando, prima di concludere che il mondo va a rotoli.

Certo, la sua visione “macro” rimane in un certo senso teorica: assegnando lo stesso valore a un albero tagliato in Canada e uno in centro a Manhattan (entrambi generano 1 dato nel database globale), trascura il fatto che la qualita’ della perdita puo’ avere un impatto completamente diverso nei “micro"-ecosistemi dei due luoghi. Credo che si tratti della stessa tipologia di discrepanza che divide macro e micro-economisti: coloro che promuovono teorie e politiche macro potrebbero non rendersi conto di come esse trovino differente attuazione e portata nei differenti micro-contesti.

Lomborg punta chiaramente il dito contro i media e con i personaggi alla Al Gore: cavalcando le paure del pubblico per vendere di piu’, danno voce esclusivamente a interpretazioni scientifiche sensazionalistiche e unidirezionali. Si servono della scienza per aumentare la propria presa sul pubblico, spianando la strada verso la radicalizzazione e la polarizzazione del dibattito. In ultima istanza, Lomborg argomenta, questo tipo di informazione puo' condurre non solo allo scontro sociale, ma anche a politiche e a decisioni sub-ottimali, prese sull’onda di un'eccessiva emotivita’.
Cosi' per il riscaldamento globale, come per tutti i temi caldi dell'agenda politica globale.

Ancora una volta mi viene da pensare a quanto piu’ potere abbiano i media rispetto a quello che siamo portati a riconoscere loro (si confronti http://lavita-unviaggio.blogspot.com/2009/11/liberta-dinformazionema-quale.html). Allo stesso tempo mi dico che sensazionalismo e “political incorrectness” hanno una loro ragion d’essere: non solo forniscono alle persone delle cause in cui credere, ma riescono ad assumere quella presa emotiva e di denuncia a monito di azioni negative in futuro. In altre parole, se non esistessero gli Al Gore e gli apocalittici del clima, probabilmente continueremmo imperterriti sulla strada perniciosa di inquinamento e distruzione delle risorse naturali del mondo.

Il ruolo dei media di “ingigantimento” dei problemi sembra molto importante, e per certi aspetti c’e’ da augurarsi che rimanga preminente. Quello che a mio avviso e’ negativo e’ che si persegua l’ingigantimento attraverso una piu’ o meno volontaria strumentalizzazione della verita’ o facendo leva sulle paure del pubblico.
Mi rendo conto che la conoscenza scientifica sia fondamentalmente noiosa, in quanto chiamata a mettere in luce tutti gli aspetti della verita’, anche quelli piu’ ordinari e meno sensazionale. C’e’ forse da augurarsi, pero’, che nel futuro i media possano acquisire una dimensione piu’ scientifica ed educativa, lavorando su nuove modalita’ comunicative per rendere emotivamente coinvolgente un’informazione meno eclatante, ma anche piu’ facilmente condivisibile e quasi sempre piu’ confortante.

mercoledì 11 maggio 2011

Nasce il mio sito: visitalo su www.filippodalfiore.com!



Go beyond borders: l'irruente ascesa della nuova classe globale

Canale 516 di Sky: CNN international.
Arriva il momento del promo della rete e le facce degli anchor internazionali si alternano ad enunciare il motto CNN: “Go beyond borders!”, ovvero “spingiti oltre i confini”. A giudicare dai loro nomi e cognomi, essi stessi rappresentano uno straordinario ventaglio di provenienze culturali e nazionali: sono il volto della globalizzazione. Poi sfoglio recenti numeri dell’Economist e dell’Atlantic e leggo dell’ascesa finanziaria e reputazionale della “classe globale”: una sempre piu’ folta elite multilingue e in costante mobilita’, che valorizza merito, idee, progresso ed efficienza.

Sono imprenditori, manager e ricercatori che pilotano l’economia globale verso i settori creativi del futuro: competitivi, irriverenti verso l’ordine costituito e spesso fondamentalisti sulla valorizzazione del talento e del potenziale. Imprenditori di se’ stessi e on-line 24 ore su 24 ore, sono i promotori della cultura americana delle aziende start-up: buttati, rischia, dai tutto, fallisci, vinci e fai del tuo lavoro una missione di vita. Sono intelligenti e amano giocare all’”out-smarting”, al lasciare al palo l’avversario a furia di colpi di genio. Il loro lavoro e’ fatto di altissima tecnica e altissima tecnologia, ed e’ indispensabile che queste rimangano focus assoluto della loro attenzione professionale e spesso anche personale. L’inefficienza, la pigrizia e lo spreco sono il nemico da combattere; il pragmatismo e’ l’unica filosofia possibile, in un’arena competitiva globale tanto dinamica e agguerrita in cui non c’e’ piu’ tempo per pensare. Accumulano migliaia di miglia aeree, si connettono ovunque al Wi-Fi, conducono videconferenze dagli aeroporti, guardano a Google e a Apple come massimi modelli da imitare, perche’ hanno prodotto “world-changing technologies”. Il loro obiettivo ultimo e’ cambiare il mondo, tutto il mondo, attraverso nuove tecniche e tecnologie tanto potenti da superare i limiti dell’uomo.

Tale descrizione perentoria e monolitica si addice probabilmente a un segmento minoritario dell’emergente elite economica globale. La realta’ rimane piu’ complessa e sfaccettata, anche considerato che ogni settore produttivo vive di una cultura propria. Resta pero’ il fatto che la rivoluzione globale di Internet, e il crollo del muro di Berlino (e quello dei costi dei voli aerei) hanno spianato la strada a quello che qualche sociologo definirebbe “iper-capitalismo”.
Le caratteristiche “iper” sembrano se non altro riflettersi nell’acuirsi della forbice di reddito tra dirigenza e lavoratori: picchi di concentrazione di ricchezza impensabili fino a qualche decennio fa (al proposito, si pensi ai tanti deprecati stipendi dei top-manager delle banche d’affari e si legga "La coscienza di un liberal" di Paul Krugman); salari medi stagnanti; salari bassi sempre pronti a essere delocalizzati in qualche paese in cui il costo del lavoro e’ piu’ basso.

Tale prepotente ascesa dei tecnocrati della classe creativa globale sembra mettere in difficolta’ la classe politica “vecchio stampo”, spesso senza riconoscerne i meriti e le ragioni d'essere profonde. Non solo ne mette direttamente o indirettamente a nudo le inefficienze, il sistema di privilegi, le incompetenze e il presunto provincialismo. Ma la tiene sotto scacco minacciando di trasferire le attivita’ produttive in qualche altro paese del mondo, almeno che non si rispettino le proprie condizioni. Sergio Marchionne docet.

E qui si arriva a una delle caratteristiche della nuova elite che mi fa piu’ riflettere: il suo cosmopolitismo tout curt, per cui tutto il mondo deve beneficiare del proprio lavoro, che non deve necessariamente andare a favore della nazione e la cultura di appartenenza (alla quale sono invece tenuti a rispondere i politici). E’ una visione delle cose molto consona ai campus americani, che se da una parte racchiude elementi democratici ed egualitari, dall’altra spesso finisce per ignorare quei peculiari elementi culturali, inclusi stile di pensiero e di vita, tipici di ogni popolo del mondo. L’assunzione del cosmopolita e’ che cio’ che egli propone sia talmente alto, avanzato e universale, da dovere essere immediatamente adottato in tutto il pianeta. Chi non lo comprende e argomenta altrimenti va solo aiutato a capire.

In realta’, spesso il globalista sfreccia a tutta velocita’ per la propria strada, ma, forse inevitabilmente, con i paraocchi. Pur girando instancabilmente il mondo, entra molto poco in relazione con le culture locali, finendo per vivere nelle bolle degli aeroporti, dei vari hotel Marriot o Best-Western, o di iper-tecnologici campus aziendali o universitari. Tale sovra-esposizione a chi la pensa come lui, puo’ indurlo a pensare che tutti la pensino come lui, rassicurandosi costantemente della bonta’ della propria missione. A volte pero' finisce per essere “out of touch” con la realta’, lontano da un certo buon senso comune che vuole che il valore delle cose sia relativo e non necessariamente assoluto.

Sembra che i nuovi giovani leader globalisti siano tanto parte dei problemi del mondo, quanto delle soluzioni che vanno promuovendo. Nonostante tutto mi chiedo: chi puo’ essere certo di non esserlo? Personalmente credo vada attribuito loro grande rispetto, in nome di brillantezza, energia imprenditoriale e fiducia nelle possibilita' umane. I loro prodigi tecnici e tecnologici finiscono spesso per suscitare meraviglia, ed essere di ispirazione e motivazione per generazioni a venire.

Credo anche pero’ che sia indispensabile che i loro sforzi vengano incanalati nella direzione giusta: si pensi ad alcune recenti innovazioni nei prodotti finanziari (derivate e simili), che pur geniali e straordinarie nella tecnica hanno contribuito a creare la bolla immobiliare globale, spianando la strada a dinamiche perniciose per la societa’ e per l’ambiente.
Ritengo altresi’ necessario che l’elite economica globale agisca nel rispetto di tutti gli altri. Per esempio recuperando una nozione piu' ampia di equita’, guardano oltre i risultati e oltre al merito, due concetti che consentono alle dirigenze delle multinazionali di auto-giustificarsi stipendi centinaia di volte maggiori di quelli dei lavoratori. Per esempio prestando attenzione alle istanze delle comunita’ locali, mantenendo in vita la ricchezza di cui sono portatrici, invece di rimpiazzarla esclusivamente con soluzioni universali e preconfezionate.

A volte, leggendo l’Economist, massimo organo portavoce dei seguaci della globalizzazione, percepisco che di questi problemi ci renda in ultima istanza conto, e questo mi legittima a ben sperare per il futuro. Nel frattempo, non perdere tempo: go beyond borders.