No, we can’t. Il voto del mid-term riporta l’idealista Obama con i piedi per terra. E con lui molti idealisti di tutto il mondo. Credevi che si potesse cambiare l’America? Beh, questo perche’ non conoscevi abbastanza l’America, per sapere che il potere in quel paese dipende piu’ dai gruppi di interesse e dal “big money” di quanto si possa immaginare. Credevi che si potesse cambiare il mondo? Beh, questo perche’ non conoscevi abbastanza l’economia globalizzata, la cui evoluzione e governabilita’ vanno ben oltre quello che puo’ fare un presidente degli Stati Uniti.
Seguendo una tale ipotesi di sintesi e semplificazione, si potrebbe concludere che Obama abbia fallito nella sua missione. Lui stesso ha dichiarato di assumersi le responsabilita’ di quello che e’ andato storto. Non sono di certo mancati gli errori di tattica politica (inevitabili per un presidente outsider alla sua prima esperienza?), ma a mio avviso Obama ha fatto “di piu’ e forse meglio” di quanto gli si riconosca in questo momento. Per affermare questo e’ necessario assegnare importanza a due fatti che hanno caratterizzato questi suoi primi due anni di presidenza:
- la priorita’ morale e assoluta assegnata alla riforma del sistema sanitario;
- il fatto che, considerata la congiuntura economica globale, fosse anzitutto necessario non perdere posti di lavoro, prima ancora di pensare a crearne di nuovi;
Chi e’ disposto a argomentare che la riforma sanitaria fosse cosa dovuta, nonche’ che la crisi finanziaria avrebbe potuto risolversi in modi ben peggiori, sara’ probabilmente anche disposto a riconoscere che l’amministrazione Obama ha operato, tutto sommato, bene. Certo, “truth lies in details”, la verita’ risiede nei dettagli, e se ci addentrassimo nei dettagli tecnici di come i due grandi interventi, nella finanza e nella sanita’, sono stati gestiti e si sono risolti, scopriremmo probabilmente che alcune cose sono andate storte e altrettante sono state le conseguenze indesiderate. I bonus intascati dai banchieri coinvolti nella crisi ne sono forse il principale esempio.
Una delle “tragedie” piu’ grandi del governo Obama e’ quella di avere investito tantissimi soldi pubblici in interventi che non hanno generato quella che si e’ dimostrata essere la “moneta” piu’ importante per il consenso degli elettori: la creazione di posti di lavoro. L’eredita’ e la congiuntura da cui e’ partito erano tra i piu’ difficili: due guerre aperte, Afghanistan e Irak; un crack finanziario senza precedenti, delle banche americane e dell’intero sistema globale; la crisi dell’industria automobilistica, con suo epicentro nella Detroit della General Motor e della Crysler; la continua conquista di quote del mercato globale da parte dei paesi emergenti, capitanati dalla Cina; l’avanzata di Internet e di molte altre nuove tecnologie, promotrici di efficienza e quindi distruttrici di posti di lavoro (perlomeno di un certo tipo di posti di lavoro impiegatizio).
Gli investimenti dell’amministrazione Obama nella finanza, nelle guerre e nell’industria automobilistica non hanno portato alla creazione di molti nuovi posti di lavoro, ma ne hanno pero’ salvati tanti. Il compito della creazione di lavoro e’ stato affidato allo stimulus plan, strumento economico keynesiano che sta plausibilmente generando opportunita’ di impiego nei settori del futuro - energia, ambiente, scienza, formazione, infrastrutture, servizi sociali - ma non contrasta la discesa, esacerbata dai processi di delocalizzazione industriale, dei settori del presente.
La tragedia di Obama ne contiene un’altra al suo interno: non solo ha investito una montagna di soldi pubblici senza un equivalente ritorno di posti di lavoro, ma tali soldi non ce li aveva e se li e’ fatti prestare dai mercati internazionali o stampare (letteralmente) dalla FED. Ha incrementato quel gia’ enorme debito pubblico che andranno a ereditare le future amministrazioni e generazioni di americani, impoverendo l’America sul lungo termine e forse accelerandone l’inevitabile declino (prima o poi il conto arriva a chi ha vissuto al di sopra dei propri mezzi?)
Il punto e’: quali alternative c’erano? Come sarebbero andate a finire le cose diversamente, senza la temporanea nazionalizzazione delle banche e lo stimolo economico? A posteriori, e’ troppo facile per i repubblicani affermare che l’approccio del big state, dello stato interventista in economia, e’ ideologicamente aberrante e va immediatamente abolito. Siete stati proprio voi, grandi banche e aziende, a richiedere quei soldi pubblici e a beneficiarne…
In ultima istanza, credo che la maggiore complicazione per l’amministrazione Obama sia la situazione completamente nuova da affrontare. Il mondo globalizzato continua a cambiare, giorno dopo giorno, ad una velocita’ inimmaginabile solo un paio di decenni fa: con l’aumento smisurato del numero degli attori economici, crescono anche il grado e le forme di interdipendenza tra essi. I “silver bullet” - le ricette facili radicate in una precisa scuola di pensiero - non funzionano piu’ come una volta: risolvi un problema da una parte e se ne genera uno nuovo da un’altra, di maniera inaspettata.
Sono tempi duri in America. Lo sono per Obama, ma credo lo sarebbero per chiunque altro si trovasse al suo posto.
mercoledì 24 novembre 2010
lunedì 25 ottobre 2010
Scienza e tecnologia al servizio del mondo
Il treno sguscia sornione tra valli e gallerie, con una dolcezza che ben si addice al paesaggio alpino ma ben poco all'importanza del percorso. Occorrono oltre 4 ore per raggiungere Villach da Vienna: tante se rapportate ai Km, perfette per approfondire una riflessione.
Sono reduce da due giornate a seguito di un gruppo di accademici austriaci, per convincere il governo locale della bonta’ di una proposta per un nuova scuola internazionale di dottorato. Argomento: le scienze e tecnologie dell’informazione geografica (GIS), perlopiu’ software che consentono la visualizzazione e l’analisi su mappa di un paesaggio, di una citta’ e di qualunque altra entita’ che abbia una componente geografica.
La missione si e’ rivelata piu’ ardua di quanto tutti ci potessimo augurare. La commissione, costituita da esperti americani e inglesi, non ha perso tempo a porre le domande piu’ basilari e difficili: in che modo si favorira' il lavoro collaborativo tra i ricercatori? Quali sbocchi professionali dopo il dottorato? Perche’ il GIS e’ importante per il mondo e perche’ la ricerca accademica e’ importante per il suo sviluppo?
Mentre la proposta mirava a legittimare il giovane settore dei GIS come nuova disciplina accademica, la commissione voleva sapere come il progetto di ricerca si mettesse al servizio del mondo che cambia. Nell’epoca in cui l'innovazione che conta viene messa a disposizione di tutti da Google - basti pensare a Google Earth - e da poche altre multinazionali del software, quale valore aggiunto puo’ offrire l’universita’ in termini di nuovi sviluppi scientifici e tecnologici?
Si tratta di una domanda che e’ forse sempre esistita, per tutti i settori. Per le discipline ingegneristiche che si occupano di nuove tecnologie digitali riveste pero' un'importanza speciale: le buone pratiche non sono ancora molte, ma il rischio di uno scimmiottamento o futile rincorsa del mondo accademico rispetto a quello dell’industria e’ molto reale. Per formulare delle risposte plausibili, occorre a mio avviso fare un passo indietro, chiedendosi quale relazione fondamentale leghi il mondo della scienza a quello della tecnologia.
Comincio col proporvi la mia personale e limitata sintesi delle rispettive missioni. Il fine della scienza e’ la comprensione dei fenomeni fisici e sociali, e la sua materia prima sono i dati empirici. Il fine della tecnologia e’ il superamento dei limiti del mondo fisico; la sua materia prima sono i processi meccanicistici.
Una distinzione di questo tipo farebbe chiarezza su molto lavoro concettuale interpretato liberamente come “scientifico” o “tecnologico” da parte di molti ricercatori accademici cosi’ come di ricercatori industriali. Renderebbe altresi' piu’ trasparente uno dei legami fondamentali tra scienza e tecnologia: le nuove tecnologie possono essere utilizzate per generare nuovi dati empirici utili alla comprensione dei fenomeni fisici e sociali; a loro volta, le scoperte scientifiche possono essere utilizzate per superare i limiti del mondo fisico. Due esempi classici: l’invenzione del microscopio (tecnologia) spiana la strada a una nuova comprensione dei fenomeni fisici (scienza); la scoperta dell’uranio (scienza) spiana strada all’invenzione delle tecnologie atomiche (tecnologia).
Alla luce di tale distinzione, si dovrebbe forse sostenere che ad ognuno spetta il proprio mestiere e quindi l’universita’ si deve occupare di scienza, mentre l’industria di tecnologia? Prima di tirare conclusioni al riguardo, preferisco fare un altro passo indietro e chiedermi quale differenza fondamentale distingua l’universita’ dall’industria relativamente all’attitudine all’innovazione. Osservo che l’approccio industriale e’ perlopiu’ reattivo e orientato: dato un problema e una domanda di mercato (reale o potenziale), si reagisce orientando tutto il proprio lavoro verso una soluzione. Al contrario, l’approccio universitario e’ perlopiu’ creativo e non orientato: data una disciplina, si esplorano creativamente alcune strade che possono portare alla costruzione di una nuova conoscenza, strade che non sono orientate verso alcun fine che non sia quello puramente conoscitivo.
Sembra essere l’industria, piuttosto che l’universita’, a contemplare il maggior numero di eccezioni: ad ogni dipendente di Google e’ consentito di impiegare il 20% del proprio tempo lavorativo su un progetto a proprio piacimento. Tale creativita’ e assenza di orientamento potrebbe portare alla scoperta di nuove strade percorribili dall’azienda, per rimanere sempre al fronte dell’innovazione. Al contrario, la creazione di nuove aziende “start-up” a partire da contesti accademici sembra rimanere incredibilmente difficile: il ricercatore e’ abituato a guardare al funzionamento al mondo attraverso le categorizzazioni della propria disciplina scientifica, piuttosto che come insieme di “catene del valore” che compongono i differenti mercati. Sa che il computer funziona grazie a questo, quello e quell’altro processo; non sa chi compie questa, quella e quell’altra operazione affinche’ il computer arrivi sullo scaffale del negozio sotto casa.
Per tirare le somme potremmo affermare che: l’universita’ si occupa prevalentemente di scienza, l’industria prevalentemente di tecnologia; l’universita’ si fonda sulle discipline scientifiche, l’industria sui mercati. Mi dico: se le cose stanno cosi’, ci devono sicuramente essere delle ottime ragioni. Mi chiedo: e’ tutto questo abbastanza? Sono discipline e mercati in grado di ottimizzare l’alleanza tra scienza e tecnologia, in un'epoca di problemi globali dalle dimensioni gigantesche e sconosciute, come surriscaldamento climatico e degrado ecologico, sradicamento culturale, migrazioni di massa e conflitti religiosi, poverta’ estrema e divari sociali?
La mia risposta e’ no. Abbiamo ancora bisogno delle universita’ e delle industrie cosi’ come le conosciamo, ma allo stesso tempo ci servono delle entita’ nuove. Abbiamo ancora grande bisogno delle facolta’ di scienze naturali, economia e ingegneria, cosi’ come del mercato automobilistico, quello informatico e quello energetico. Ci serve pero' anche un generale allineamento e re-orientamento della scienza cosi’ come dell’industria verso i problemi piu’ pressanti del mondo.
Penso a una “facolta’ e industria dei cambiamenti climatici”, una “facolta’ e industria della poverta’ e delle disuguaglianze sociali”, una “facolta’ e industria della globalizzazione industriale e finanziaria”. Penso a nuove organizzazioni al servizio del mondo prima ancora di una disciplina o di un mercato, finalizzate a produrre nuova scienza cosi’ come nuova tecnologia, costituite da gruppi di lavoro misti
- universita’/industria, da tutte le discipline e da tutti i mercati - chiamati a convergere verso un unico problema definito in modo inequivocabile.
In loro assenza, una disciplina e un mercato potrebbero "disfare" cio' che e' stato preziosamente guadagnato da un altro: prendono piede le tecnologie energetiche alternative, ma intanto l’industria di telecomunicazioni e computer genera consumi energetici stratosferici (ricaricare i dispositivi elettronici e alimentare le server farms); la psicologia assume la bonta' di nuovi modelli di vita, mentre l'economia continua a demandare assunzioni opposte.
Credo che il futuro non possa che sorprenderci al riguardo, l’Arizona State University sta gia’ pensando in questi termini. Il nuovo mondo e’ tutto da inventare. Un mondo che riconcili gli opposti: teoria e pratica, creativita’ e reattivita’, conoscenza disinteressata e orientamento ai problemi reali.
Sono reduce da due giornate a seguito di un gruppo di accademici austriaci, per convincere il governo locale della bonta’ di una proposta per un nuova scuola internazionale di dottorato. Argomento: le scienze e tecnologie dell’informazione geografica (GIS), perlopiu’ software che consentono la visualizzazione e l’analisi su mappa di un paesaggio, di una citta’ e di qualunque altra entita’ che abbia una componente geografica.
La missione si e’ rivelata piu’ ardua di quanto tutti ci potessimo augurare. La commissione, costituita da esperti americani e inglesi, non ha perso tempo a porre le domande piu’ basilari e difficili: in che modo si favorira' il lavoro collaborativo tra i ricercatori? Quali sbocchi professionali dopo il dottorato? Perche’ il GIS e’ importante per il mondo e perche’ la ricerca accademica e’ importante per il suo sviluppo?
Mentre la proposta mirava a legittimare il giovane settore dei GIS come nuova disciplina accademica, la commissione voleva sapere come il progetto di ricerca si mettesse al servizio del mondo che cambia. Nell’epoca in cui l'innovazione che conta viene messa a disposizione di tutti da Google - basti pensare a Google Earth - e da poche altre multinazionali del software, quale valore aggiunto puo’ offrire l’universita’ in termini di nuovi sviluppi scientifici e tecnologici?
Si tratta di una domanda che e’ forse sempre esistita, per tutti i settori. Per le discipline ingegneristiche che si occupano di nuove tecnologie digitali riveste pero' un'importanza speciale: le buone pratiche non sono ancora molte, ma il rischio di uno scimmiottamento o futile rincorsa del mondo accademico rispetto a quello dell’industria e’ molto reale. Per formulare delle risposte plausibili, occorre a mio avviso fare un passo indietro, chiedendosi quale relazione fondamentale leghi il mondo della scienza a quello della tecnologia.
Comincio col proporvi la mia personale e limitata sintesi delle rispettive missioni. Il fine della scienza e’ la comprensione dei fenomeni fisici e sociali, e la sua materia prima sono i dati empirici. Il fine della tecnologia e’ il superamento dei limiti del mondo fisico; la sua materia prima sono i processi meccanicistici.
Una distinzione di questo tipo farebbe chiarezza su molto lavoro concettuale interpretato liberamente come “scientifico” o “tecnologico” da parte di molti ricercatori accademici cosi’ come di ricercatori industriali. Renderebbe altresi' piu’ trasparente uno dei legami fondamentali tra scienza e tecnologia: le nuove tecnologie possono essere utilizzate per generare nuovi dati empirici utili alla comprensione dei fenomeni fisici e sociali; a loro volta, le scoperte scientifiche possono essere utilizzate per superare i limiti del mondo fisico. Due esempi classici: l’invenzione del microscopio (tecnologia) spiana la strada a una nuova comprensione dei fenomeni fisici (scienza); la scoperta dell’uranio (scienza) spiana strada all’invenzione delle tecnologie atomiche (tecnologia).
Alla luce di tale distinzione, si dovrebbe forse sostenere che ad ognuno spetta il proprio mestiere e quindi l’universita’ si deve occupare di scienza, mentre l’industria di tecnologia? Prima di tirare conclusioni al riguardo, preferisco fare un altro passo indietro e chiedermi quale differenza fondamentale distingua l’universita’ dall’industria relativamente all’attitudine all’innovazione. Osservo che l’approccio industriale e’ perlopiu’ reattivo e orientato: dato un problema e una domanda di mercato (reale o potenziale), si reagisce orientando tutto il proprio lavoro verso una soluzione. Al contrario, l’approccio universitario e’ perlopiu’ creativo e non orientato: data una disciplina, si esplorano creativamente alcune strade che possono portare alla costruzione di una nuova conoscenza, strade che non sono orientate verso alcun fine che non sia quello puramente conoscitivo.
Sembra essere l’industria, piuttosto che l’universita’, a contemplare il maggior numero di eccezioni: ad ogni dipendente di Google e’ consentito di impiegare il 20% del proprio tempo lavorativo su un progetto a proprio piacimento. Tale creativita’ e assenza di orientamento potrebbe portare alla scoperta di nuove strade percorribili dall’azienda, per rimanere sempre al fronte dell’innovazione. Al contrario, la creazione di nuove aziende “start-up” a partire da contesti accademici sembra rimanere incredibilmente difficile: il ricercatore e’ abituato a guardare al funzionamento al mondo attraverso le categorizzazioni della propria disciplina scientifica, piuttosto che come insieme di “catene del valore” che compongono i differenti mercati. Sa che il computer funziona grazie a questo, quello e quell’altro processo; non sa chi compie questa, quella e quell’altra operazione affinche’ il computer arrivi sullo scaffale del negozio sotto casa.
Per tirare le somme potremmo affermare che: l’universita’ si occupa prevalentemente di scienza, l’industria prevalentemente di tecnologia; l’universita’ si fonda sulle discipline scientifiche, l’industria sui mercati. Mi dico: se le cose stanno cosi’, ci devono sicuramente essere delle ottime ragioni. Mi chiedo: e’ tutto questo abbastanza? Sono discipline e mercati in grado di ottimizzare l’alleanza tra scienza e tecnologia, in un'epoca di problemi globali dalle dimensioni gigantesche e sconosciute, come surriscaldamento climatico e degrado ecologico, sradicamento culturale, migrazioni di massa e conflitti religiosi, poverta’ estrema e divari sociali?
La mia risposta e’ no. Abbiamo ancora bisogno delle universita’ e delle industrie cosi’ come le conosciamo, ma allo stesso tempo ci servono delle entita’ nuove. Abbiamo ancora grande bisogno delle facolta’ di scienze naturali, economia e ingegneria, cosi’ come del mercato automobilistico, quello informatico e quello energetico. Ci serve pero' anche un generale allineamento e re-orientamento della scienza cosi’ come dell’industria verso i problemi piu’ pressanti del mondo.
Penso a una “facolta’ e industria dei cambiamenti climatici”, una “facolta’ e industria della poverta’ e delle disuguaglianze sociali”, una “facolta’ e industria della globalizzazione industriale e finanziaria”. Penso a nuove organizzazioni al servizio del mondo prima ancora di una disciplina o di un mercato, finalizzate a produrre nuova scienza cosi’ come nuova tecnologia, costituite da gruppi di lavoro misti
- universita’/industria, da tutte le discipline e da tutti i mercati - chiamati a convergere verso un unico problema definito in modo inequivocabile.
In loro assenza, una disciplina e un mercato potrebbero "disfare" cio' che e' stato preziosamente guadagnato da un altro: prendono piede le tecnologie energetiche alternative, ma intanto l’industria di telecomunicazioni e computer genera consumi energetici stratosferici (ricaricare i dispositivi elettronici e alimentare le server farms); la psicologia assume la bonta' di nuovi modelli di vita, mentre l'economia continua a demandare assunzioni opposte.
Credo che il futuro non possa che sorprenderci al riguardo, l’Arizona State University sta gia’ pensando in questi termini. Il nuovo mondo e’ tutto da inventare. Un mondo che riconcili gli opposti: teoria e pratica, creativita’ e reattivita’, conoscenza disinteressata e orientamento ai problemi reali.
mercoledì 29 settembre 2010
Quale futuro per l'Italia?
Italia paese in declino. Se e’ vero che accollarsi un’etichetta negativa puo’ essere semplicistico, ingiusto e demoralizzante, e’ certamente utile capire cosa si puo’ fare per migliorare la situazione.
Mi interrogo sul possibile futuro industriale del paese, sul contributo italiano all’economia globalizzata, sulla tipologia di lavori che saranno presenti sul mercato nazionale tra 10 o 20 anni. Parto da una constatazione allarmante: l’Italia - cosi' come altri paesi dell'Europa mediterranea - non appartiene ne’ alla fascia dei paesi in via di sviluppo, dove le imprese delocalizzano e sfruttano i bassi costi del lavoro, ne’ alla fascia dei paesi piu’ tecnologicamente avanzati, dove si costruiscono i prodotti e i settori del futuro. Il rischio per il paese, in parte gia’ realta’, e’ quello di essere bypassato.
Fatto salvo i molti casi di alta specializzazione e grande innovazione, il destino dell'industria pesante cosi' come dei settori manufatturieri classici - tessile/abbigliamento, cuoio/calzature, mobili, metalmeccanica - sembra gia’ segnato: molte imprese stanno gia’ chiudendo, delocalizzando e lasciando quote di mercato ai competitori cinesi o di altri paesi emergenti. La FIAT affossa Melfi e apre in Serbia. Possiamo non ritenerlo giusto, con ottime ragioni, ma la domanda che FIAT e molte altre aziende sono costrette a farsi per rimanere competitive e’: “perche’ l’Italia?”
Il dibattito sui possibili scenari “post-industriali” del paese di certo non manca. Si parla di turismo, di beni culturali, di design, di lusso, di nuovi servizi e tecnologie digitali. Spesso non si presta la dovuta considerazione verso questi settori apparentemente “effimeri”. Concependo l’industria soltanto come industria tradizionale, li si guarda dall’alto al basso: quali prodotti tangibili producono? di che ingegneri, scienziati e tecnici si avvalgono? come si puo’ mandare avanti un paese senza “produrre” piu’ nulla? vogliamo trasformare l'Italia in un luna-park?
Si fatica a vedere oltre l’industria classica, ma in realta’ esiste un'abbondanza di nuovi settori strategici destinati a un forte sviluppo futuro. Vi propongo l’elenco stilato dall' “UK's Science & Innovation Network” (Network per la Scienza e l’Innovazione del Regno Unito):
- Invecchiamento: salute e benessere delle fasce piu’ anziane della popolazione;
- Mitigazione dei cambiamenti climatici: ricerca, prodotti e politiche orientate al contenimento delle emissioni;
- Tecnologie dell’informazione e delle telecomunicazioni;
- Tecnologie energetiche alternative;
- Sicurezza nel settore dei cibi e dell’alimentazione;
- Incertezze globali e soluzioni per la sicurezza delle persone e delle citta’;
- Scienze e tecnologie della salute e della vita: cancro, malattie del cuore, demenza e HIV;
- Nuove soluzioni per la vita quotidiana in presenza di cambiamenti climatici;
- Nanoscienze e nanotecnologie: dall’ingegneria allo sviluppo nuovi prodotti;
- Scienza per lo sviluppo: ricerca sulle malattie di importanza per il mondo in via di sviluppo e in cui sono in corso sforzi collaborativi;
- Settore spaziale: piccoli satelliti, sensori, sistemi di comunicazione e di generazione di energia;
- Ricerca sulle cellule staminali: dalle scienza fondamentale allo sviluppo di nuove terapie;
- Innovazione: politiche e pratiche innovative per la commercializzazione delle tecnologie concepite nei laboratori universitari.
La lista non e’ omnicomprensiva - manca per esempio il settore delle biotecnologie, su cui gli Stati Uniti stanno puntando molto - ma ci da’ un’idea di cosa puo’ volere dire traghettare un paese verso un’economia avanzata in grado di creare posti di lavoro negli anni a venire. Al riguardo, l’Italia sembra avere un problema fondamentale: con tutte le eccezioni del caso, le nostre universita’ sembrano non essere concepite ne’ attrezzate per i settori emergenti.
In un mondo in cui il futuro si costruisce sull'abbondanza di conoscenza avanzata e specialistica, gran parte delle universita’ ricorre al numero chiuso, per carenza di fondi per nuove infrastrutture e professori. Spesso ne si fa un vanto (considerando il numero chiuso come ragionevole garanzia di qualita’), o lo si giustifica con il fatto che il mercato non e’ in grado di assorbire un gran numero di farmacisti, medici o giurisprudenti o quant'altro. In questo modo si dichiara implicitamente di guardare soltanto alle professionalita’ del passato, non a quelle del futuro...
L’universita’ italiana ha quindi bisogno non solo di piu’ soldi, ma anche di una rivoluzione alle fondamenta. Sarebbe inoltre fondamentale un accesso piu’ facile alle tecnologie presenti nelle imprese e nelle multinazionali che gia’ operano nei settori del futuro, come in alcuni casi gia’ avviene, soprattutto nell'area milanese.
La strada e’ in salita, ma non credo ne possano esistere molte altre. Se non la si imbocca il prossimo futuro non puo’ che portare a un’accentuazione di fenomeni gia’ osservabili nel presente: molti di coloro che vogliono lavorare nei settori avanzati emigrano, mentre l’accesso ai settori tradizionali si fa sempre piu’ selettivo. Per fortuna la demografia gioca a nostro favore (si fanno pochi figli), cosi’ come le strutture sociali (la famiglia come rete di sicurezza), altrimenti la pressione sociale da parte di disoccupati e precari potrebbe aumentare rapidamente. Aiuta, ahime’, anche il ruolo crescente della criminalita’ organizzata in qualita’ di datore di lavoro.
Certo, l’Italia resta molto di piu’ di questo.
Penso non solo ai settori del bello, della moda, del design e dell’alimentare. Penso non solo alla Ferrari e a tanti altri gioielli ingegneristici ed aziendali unici al mondo. Penso anche all’attrattivita’ del nostro territorio, clima e stile di vita, che potrebbe portare molti professionisti e freelancer dall'orientamento globale a scegliere l’Italia come luogo di residenza per gestire le proprie attivita’, attraverso banda larga e spostamenti saltuari. Penso anche al vivacissimo terzo settore del no-profit, uno dei frutti piu’ belli dello straordinario bagaglio etico ed umanistico del paese. Basti pensare a Emergency, a Banca Etica, a Slow Food o alla Fondazione Umberto Veronesi.
Come gia’ descritto in un altro articolo di questo blog (Una Toscana di virtu’, 29 Agosto 2009) forse oggi piu’ che mai il mondo ha bisogno dell’Italia. Sta nell’Italia armarsi della buona volonta’ e della voglia di mettersi in gioco, per provare a cambiare.
Io sono fiducioso: male che vada toccheremo il fondo e riusciremo a rialzarci. Nella consapevolezza che una parte di declino economico sia inevitabile, e sia lo stesso che sta regalando ad altri paesi del mondo l'emancipazione dalla poverta'.
Mi interrogo sul possibile futuro industriale del paese, sul contributo italiano all’economia globalizzata, sulla tipologia di lavori che saranno presenti sul mercato nazionale tra 10 o 20 anni. Parto da una constatazione allarmante: l’Italia - cosi' come altri paesi dell'Europa mediterranea - non appartiene ne’ alla fascia dei paesi in via di sviluppo, dove le imprese delocalizzano e sfruttano i bassi costi del lavoro, ne’ alla fascia dei paesi piu’ tecnologicamente avanzati, dove si costruiscono i prodotti e i settori del futuro. Il rischio per il paese, in parte gia’ realta’, e’ quello di essere bypassato.
Fatto salvo i molti casi di alta specializzazione e grande innovazione, il destino dell'industria pesante cosi' come dei settori manufatturieri classici - tessile/abbigliamento, cuoio/calzature, mobili, metalmeccanica - sembra gia’ segnato: molte imprese stanno gia’ chiudendo, delocalizzando e lasciando quote di mercato ai competitori cinesi o di altri paesi emergenti. La FIAT affossa Melfi e apre in Serbia. Possiamo non ritenerlo giusto, con ottime ragioni, ma la domanda che FIAT e molte altre aziende sono costrette a farsi per rimanere competitive e’: “perche’ l’Italia?”
Il dibattito sui possibili scenari “post-industriali” del paese di certo non manca. Si parla di turismo, di beni culturali, di design, di lusso, di nuovi servizi e tecnologie digitali. Spesso non si presta la dovuta considerazione verso questi settori apparentemente “effimeri”. Concependo l’industria soltanto come industria tradizionale, li si guarda dall’alto al basso: quali prodotti tangibili producono? di che ingegneri, scienziati e tecnici si avvalgono? come si puo’ mandare avanti un paese senza “produrre” piu’ nulla? vogliamo trasformare l'Italia in un luna-park?
Si fatica a vedere oltre l’industria classica, ma in realta’ esiste un'abbondanza di nuovi settori strategici destinati a un forte sviluppo futuro. Vi propongo l’elenco stilato dall' “UK's Science & Innovation Network” (Network per la Scienza e l’Innovazione del Regno Unito):
- Invecchiamento: salute e benessere delle fasce piu’ anziane della popolazione;
- Mitigazione dei cambiamenti climatici: ricerca, prodotti e politiche orientate al contenimento delle emissioni;
- Tecnologie dell’informazione e delle telecomunicazioni;
- Tecnologie energetiche alternative;
- Sicurezza nel settore dei cibi e dell’alimentazione;
- Incertezze globali e soluzioni per la sicurezza delle persone e delle citta’;
- Scienze e tecnologie della salute e della vita: cancro, malattie del cuore, demenza e HIV;
- Nuove soluzioni per la vita quotidiana in presenza di cambiamenti climatici;
- Nanoscienze e nanotecnologie: dall’ingegneria allo sviluppo nuovi prodotti;
- Scienza per lo sviluppo: ricerca sulle malattie di importanza per il mondo in via di sviluppo e in cui sono in corso sforzi collaborativi;
- Settore spaziale: piccoli satelliti, sensori, sistemi di comunicazione e di generazione di energia;
- Ricerca sulle cellule staminali: dalle scienza fondamentale allo sviluppo di nuove terapie;
- Innovazione: politiche e pratiche innovative per la commercializzazione delle tecnologie concepite nei laboratori universitari.
La lista non e’ omnicomprensiva - manca per esempio il settore delle biotecnologie, su cui gli Stati Uniti stanno puntando molto - ma ci da’ un’idea di cosa puo’ volere dire traghettare un paese verso un’economia avanzata in grado di creare posti di lavoro negli anni a venire. Al riguardo, l’Italia sembra avere un problema fondamentale: con tutte le eccezioni del caso, le nostre universita’ sembrano non essere concepite ne’ attrezzate per i settori emergenti.
In un mondo in cui il futuro si costruisce sull'abbondanza di conoscenza avanzata e specialistica, gran parte delle universita’ ricorre al numero chiuso, per carenza di fondi per nuove infrastrutture e professori. Spesso ne si fa un vanto (considerando il numero chiuso come ragionevole garanzia di qualita’), o lo si giustifica con il fatto che il mercato non e’ in grado di assorbire un gran numero di farmacisti, medici o giurisprudenti o quant'altro. In questo modo si dichiara implicitamente di guardare soltanto alle professionalita’ del passato, non a quelle del futuro...
L’universita’ italiana ha quindi bisogno non solo di piu’ soldi, ma anche di una rivoluzione alle fondamenta. Sarebbe inoltre fondamentale un accesso piu’ facile alle tecnologie presenti nelle imprese e nelle multinazionali che gia’ operano nei settori del futuro, come in alcuni casi gia’ avviene, soprattutto nell'area milanese.
La strada e’ in salita, ma non credo ne possano esistere molte altre. Se non la si imbocca il prossimo futuro non puo’ che portare a un’accentuazione di fenomeni gia’ osservabili nel presente: molti di coloro che vogliono lavorare nei settori avanzati emigrano, mentre l’accesso ai settori tradizionali si fa sempre piu’ selettivo. Per fortuna la demografia gioca a nostro favore (si fanno pochi figli), cosi’ come le strutture sociali (la famiglia come rete di sicurezza), altrimenti la pressione sociale da parte di disoccupati e precari potrebbe aumentare rapidamente. Aiuta, ahime’, anche il ruolo crescente della criminalita’ organizzata in qualita’ di datore di lavoro.
Certo, l’Italia resta molto di piu’ di questo.
Penso non solo ai settori del bello, della moda, del design e dell’alimentare. Penso non solo alla Ferrari e a tanti altri gioielli ingegneristici ed aziendali unici al mondo. Penso anche all’attrattivita’ del nostro territorio, clima e stile di vita, che potrebbe portare molti professionisti e freelancer dall'orientamento globale a scegliere l’Italia come luogo di residenza per gestire le proprie attivita’, attraverso banda larga e spostamenti saltuari. Penso anche al vivacissimo terzo settore del no-profit, uno dei frutti piu’ belli dello straordinario bagaglio etico ed umanistico del paese. Basti pensare a Emergency, a Banca Etica, a Slow Food o alla Fondazione Umberto Veronesi.
Come gia’ descritto in un altro articolo di questo blog (Una Toscana di virtu’, 29 Agosto 2009) forse oggi piu’ che mai il mondo ha bisogno dell’Italia. Sta nell’Italia armarsi della buona volonta’ e della voglia di mettersi in gioco, per provare a cambiare.
Io sono fiducioso: male che vada toccheremo il fondo e riusciremo a rialzarci. Nella consapevolezza che una parte di declino economico sia inevitabile, e sia lo stesso che sta regalando ad altri paesi del mondo l'emancipazione dalla poverta'.
venerdì 6 agosto 2010
Etica ed economia
Non posso che rimanere sorpreso nel leggere un articolo recentemente pubblicato sull’Economist, rivista portavoce dell’establishment economico mondiale, dal titolo “Against fairness”, ovvero contro l’equita’, la bonta’ e la giustizia. Lo rileggo con attenzione, sospettando che tra le righe si possa nascondere qualche importante indizio per far luce sulla questione del comportamento etico nella sfera economica.
C’e’ qualcosa di intrinsecamente anti-etico alle radici della scienza economica? E’ da molti anni ormai che molti economisti si arrovellano sulla questione etica, consapevoli che - a dispetto di tanto progresso tecnico e tecnologico - la maggior parte dei problemi economici e politici del mondo odierno si possa continuare ad attribuire ad una carenza di etica da parte di chi esercita il potere.
Vi propongo qualche estratto dell’articolo apparso il 3 luglio scorso: “Un senso di equita', come ogni genitore sa, si sviluppa irritantemente presto nella vita”; “la domanda di equita' sembra essere inscritta in tutti gli esseri umani, [.....] ma il fatto che tutti credono nell'equita' e’ un segnale che c’e’ qualcosa di intrinsecamente sbagliato in tale nozione; [....] per esempio, per alcuni equita' significa giocare secondo le regole e lasciar vincere il migliore, per altri far si’ che ognuno riceva nelle stesse quantita’”. E ancora: “Cosa c’e’ esattamente di equo e giusto nel limitare il commercio globalizzato? O di ingiusto nel lasciare che le persone di successo godano dei frutti del loro lavoro senza tasse punitive?”; “Noi rifiutiamo la vasta e fumosa definizione di equita' a favore di parole piu’ precise che significano quello che dicono”.
Tale pensiero si puo’ interpretare a molti livelli. Leggendo il resto dell’articolo, se ne comprende un obiettivo concreto: avanzare un’invettiva contro il governo inglese, che sta valutando la possibilita’ di alzare le tasse sui redditi piu’ alti e porre un tetto alle retribuzioni auto-conferitesi dai dirigenti di grandi banche e aziende. A supporto delle tesi proposte, si argomenta la relativita’ del concetto di equita’: come possiamo metterci d’accordo su un modo univoco per definirle e misurarle? Chi puo’ arrogarsi il diritto di decidere chi ha ragione e chi ha torto?
Al di la’ delle strade percorribili, quello su cui mi interessa riflettere e’ il fatto che i concetti di male e di bene, di giusto e di sbagliato sembrano non trovare spazio nella visione dell’Economista. Si assume che al mondo esiste solo quello che c’e’, vale a dire cio’ che si puo’ osservare e quantificare empiricamente; non la conoscenza normativa, relativa alle norme di comportamento e ai sentimenti delle persone. Dal mio punto di vista, tale ottica e' positiva allorquando consente di essere meno giudiziali e pre-giudiziali nei confronti delle persone e delle cose del mondo; ma e’ anche negativa se conduce alla tolleranza e all’accettazione del male per gli altri.
In assenza di riferimenti etici, spirituali e di buon senso comune, sembra che l’uomo alla domanda “perche’?” possa sempre ribattere “perche’ no?””. Perche’ arricchirsi a dismisura quando tale accentramento di ricchezza lascia tante altre persone in poverta’?...Perche’ no? Perche’ camuffare i mutui ad alto rischio in strumenti finanziari derivati che possono portare inconsapevoli compratori a mandare in fumo i propri risparmi?...Perche’ no? Perche’ sterminare le razze impure attraverso il nazismo se tale condotta semina morte e distruzione?...Perche’ no?
La mancanza di buon senso e di conoscenza normativa lascia un vuoto che l’uomo puo’ riempire a proprio piacimento; sembra essere la ricerca del potere per se’ - sottoforma di ansia di sentirsi migliore degli altri per contare qualcosa nel mondo - a condurre l’uomo a scelte poco etiche.
L’economia e’ una disciplina in cui l’asetticita’ e il realismo della scienza incontrano l’intenzionalita’ e la trascendenza del comportamento umano. L’uomo viene trattato come materia di studio, come se fosse un pezzo di natura o un’altra variabile macro-economica alla pari del lavoro e del capitale. Da economista, reputo tale approccio profondamente meritevole di aprirci le porte a una piu’ grande conoscenza della collettivita’ umana e del suo ruolo nella complessita’ del mondo. Allo stesso tempo, credo anche che tale visione economica e “terrena” non possa restare l’unica a nostra disposizione e diventare materia di fede, ma debba invece essere affiancata a conoscenze e sensibilita’ di natura etica e spirituale. Lasciandoci guidare dal quel buon senso comune a tutti che forse andrebbe ricercato e coltivato con molta piu’ cura.
C’e’ qualcosa di intrinsecamente anti-etico alle radici della scienza economica? E’ da molti anni ormai che molti economisti si arrovellano sulla questione etica, consapevoli che - a dispetto di tanto progresso tecnico e tecnologico - la maggior parte dei problemi economici e politici del mondo odierno si possa continuare ad attribuire ad una carenza di etica da parte di chi esercita il potere.
Vi propongo qualche estratto dell’articolo apparso il 3 luglio scorso: “Un senso di equita', come ogni genitore sa, si sviluppa irritantemente presto nella vita”; “la domanda di equita' sembra essere inscritta in tutti gli esseri umani, [.....] ma il fatto che tutti credono nell'equita' e’ un segnale che c’e’ qualcosa di intrinsecamente sbagliato in tale nozione; [....] per esempio, per alcuni equita' significa giocare secondo le regole e lasciar vincere il migliore, per altri far si’ che ognuno riceva nelle stesse quantita’”. E ancora: “Cosa c’e’ esattamente di equo e giusto nel limitare il commercio globalizzato? O di ingiusto nel lasciare che le persone di successo godano dei frutti del loro lavoro senza tasse punitive?”; “Noi rifiutiamo la vasta e fumosa definizione di equita' a favore di parole piu’ precise che significano quello che dicono”.
Tale pensiero si puo’ interpretare a molti livelli. Leggendo il resto dell’articolo, se ne comprende un obiettivo concreto: avanzare un’invettiva contro il governo inglese, che sta valutando la possibilita’ di alzare le tasse sui redditi piu’ alti e porre un tetto alle retribuzioni auto-conferitesi dai dirigenti di grandi banche e aziende. A supporto delle tesi proposte, si argomenta la relativita’ del concetto di equita’: come possiamo metterci d’accordo su un modo univoco per definirle e misurarle? Chi puo’ arrogarsi il diritto di decidere chi ha ragione e chi ha torto?
Al di la’ delle strade percorribili, quello su cui mi interessa riflettere e’ il fatto che i concetti di male e di bene, di giusto e di sbagliato sembrano non trovare spazio nella visione dell’Economista. Si assume che al mondo esiste solo quello che c’e’, vale a dire cio’ che si puo’ osservare e quantificare empiricamente; non la conoscenza normativa, relativa alle norme di comportamento e ai sentimenti delle persone. Dal mio punto di vista, tale ottica e' positiva allorquando consente di essere meno giudiziali e pre-giudiziali nei confronti delle persone e delle cose del mondo; ma e’ anche negativa se conduce alla tolleranza e all’accettazione del male per gli altri.
In assenza di riferimenti etici, spirituali e di buon senso comune, sembra che l’uomo alla domanda “perche’?” possa sempre ribattere “perche’ no?””. Perche’ arricchirsi a dismisura quando tale accentramento di ricchezza lascia tante altre persone in poverta’?...Perche’ no? Perche’ camuffare i mutui ad alto rischio in strumenti finanziari derivati che possono portare inconsapevoli compratori a mandare in fumo i propri risparmi?...Perche’ no? Perche’ sterminare le razze impure attraverso il nazismo se tale condotta semina morte e distruzione?...Perche’ no?
La mancanza di buon senso e di conoscenza normativa lascia un vuoto che l’uomo puo’ riempire a proprio piacimento; sembra essere la ricerca del potere per se’ - sottoforma di ansia di sentirsi migliore degli altri per contare qualcosa nel mondo - a condurre l’uomo a scelte poco etiche.
L’economia e’ una disciplina in cui l’asetticita’ e il realismo della scienza incontrano l’intenzionalita’ e la trascendenza del comportamento umano. L’uomo viene trattato come materia di studio, come se fosse un pezzo di natura o un’altra variabile macro-economica alla pari del lavoro e del capitale. Da economista, reputo tale approccio profondamente meritevole di aprirci le porte a una piu’ grande conoscenza della collettivita’ umana e del suo ruolo nella complessita’ del mondo. Allo stesso tempo, credo anche che tale visione economica e “terrena” non possa restare l’unica a nostra disposizione e diventare materia di fede, ma debba invece essere affiancata a conoscenze e sensibilita’ di natura etica e spirituale. Lasciandoci guidare dal quel buon senso comune a tutti che forse andrebbe ricercato e coltivato con molta piu’ cura.
venerdì 4 giugno 2010
Stati sovrani contro mercato globale
La recente crisi finanziaria greca mi offre l’occasione di riflettere sul mutato rapporto tra stati sovrani e mercato finanziario globale. Mi dico: qualcosa deve pur essere cambiato se un’intera nazione del mondo economicamente avanzato si trova sull’orlo della bancarotta...La Germania e altri governi europei vengono chiamate a soccorso ed e’ cosi’ che comincia un’inedita battaglia tra stati e mercati.
Utilizzo la mia limitata conoscenza per ricostruire i fatti e vederci un po’ piu’ chiaro. In anni recenti il governo greco, come quello di molti altri paesi del mondo, decide di incrementari l'emissione di obbligazioni: prendera' a prestito del denaro attraverso i mercati finanziari, ad integrare gli introiti delle tasse. La Grecia potra' utilizzare il surplus di risorse in molti modi: per tenere basse le tasse, per aumentare gli investimenti nei settori pubblici creando nuovi posti di lavoro, per elargire incentivi alle imprese, per ripagare i debiti passati, e chissa’ per quante altre azioni positive. Un’intera nazione potra' permettersi di vivere al di sopra dei propri mezzi, come chi utilizza la carta di credito perche’ non ha disponibilita’ immediata sul conto corrente.
Poi improvvisamente l'ingranaggio si inceppa: dall’analisi dei dati macro-economici del paese, si fa largo il timore che la Grecia possa non riuscire a restituire i soldi che si e’ fatta prestare. Cosi’ come la nostra banca comincia a temere che i nostri stipendi sempre uguali non basteranno a saldare lo scoperto, chi ha investito nelle obbligazioni greche teme che l’economia di quel paese non si stia espandendo abbastanza per generare la capacita’ di ripagare i debiti contratti.
E qui comincia la crisi, basata sui ricatti e sulle profezie destinate a auto-adempiersi. Gli investitori dicono: “Se voi stati dell’Unione Europea non prestate ulteriori soldi alla Grecia per accrescere il conto che da un momento all’altro potrebbe precipitare in rosso, allora noi ritiriamo i soldi dal conto, costringendo la Grecia alla bancarotta”.
I governi europei sono improvvisamente sotto ricatto: se non facessero come richiesto dai mercati la profezia negativa si avvererebbe. Migliaia di investitori e broker da tutto il mondo si affretterebbero a richiedere il proprio denaro, attraverso un click del mouse. Gli investitori sanno che i governi europei sono ricattabili: il fallimento della Grecia si ripercuoterebbe negativamente sull’Euro e sull’intera economia europea basata sull’interdipendenza tra i paesi; potrebbe altresi’ avere implicazioni negative sull’ intera economia globale (che include quella europea), innestando una crisi di fiducia che drenerebbe i mercati finanziari delle risorse necessarie alla crescita. In tale situazione di tensione si intromettono le agenzie di rating: attraverso il loro parere indipendente (sulla carta), tolgono punti alle obbligazioni greche, facendo presumere che queste non siano piu’ un investimento sicuro come prima.
Come va a finire?
Cosi’ come nel 2008 il crack delle banche americane fu arginato dalla “generosita’” di Obama, cosi’ nel 2010 tocca alla Merkel e ai governi europei tamponare la crisi della Grecia. I soldi pubblici vengono dirottati dagli stati sovrani ai mercati internazionali, a causa di scelte rivelatesi infelici da parte della Grecia e di chi si e’ fatto creditore verso di lei.
Tale resoconto potrebbe considerarsi concluso, ma a ben pensarci solleva qualche importante punto interrogativo:
• Come ha fatto un paese come la Grecia, che con le Olimpiadi del 2004 sembrava avere definitivamente conquistato la credibilita’ del mondo, a ridursi in questo stato?
• Quali attori si celano dietro l’apparentemente anonimato dei mercati finanziari globali, diventati talmente potenti da mettere sotto ricatto gli stati sovrani?
• Che fine faranno i soldi pubblici investiti nei mercati finanziari? Se potessimo marchiarli e tracciarli uno a uno, capiremmo in quali tasche stanno transitando?
Provo ad affrontare le tre questioni una alla volta, per poi avviarmi verso la conclusione. La mia limitata conoscenza di questi fenomeni mi fa pensare che la parola chiave per capire cosa stia succendendo in Grecia sia “globalizzazione”. Globalizzazione come apertura generale delle transazioni commerciali a livello planetario che, tra altre, ha avuto due importanti conseguenze: da una parte ha favorito l’emergere dell’industria dei grandi paesi asiatici e di altri paesi in via di sviluppo, a discapito di quelli economicamente avanzati; dall’altra ha spinto molti stati, inclusi quelli del mondo avanzato come la Grecia, a ricorrere al prestito di denaro sui mercati internazionali. In alcuni casi i due fenomeni potrebbero manifestarsi come due faccie della stessa medaglia: se le mie attivita’ produttive non sono piu’ in grado di generare ritorni soddisfacenti sottoforma di tasse, io stato sovrano ricorro ai mercati internazionali per finanziare le mie attivita’ e la crescita economica.
Una tale lettura potrebbe valere per la Grecia cosi’ come per gli Stati Uniti, il Portogallo, l’Inghilterra e molti altri stati con un alto deficit pubblico. Eccezione farebbe l’Italia, non tanto perche’ il deficit non sia alto, quanto perche’ in quel caso il debito pubblico e’ piu’ in mano ad investitori italiani piuttosto che internazionali. L’Italia e’stata recentemente criticata per non avere mai sposato in pieno la globalizzazione (ricordate Fazio che cercava di impedire la vendita di Banca Antonveneta agli olandesi dell'ABN Amro?): alla luce del crack delle banche internazionali di investimento nel 2008 e quello degli stati sovrani nel 2010, possiamo forse riconsiderare quella scelta come oculata? Chiusa in se’ stessa e conscia dei propri limiti, l’Italia si preclude le opportunita’ della globalizzazione finanziaria, ma anche i rischi che questa porta con se’.
Seconda questione: l’identita’ dei mercati finanziari. Ormai lo diamo per scontato: li’ fuori, nel mondo virtuale, c’e’ qualcuno chiamato “mercato globale” che fa il buono e il cattivo tempo e decide le sorti di interi paesi. Ma da chi si compone tale mercato globale?
Di tutti: di privati cittadini che investono in propri risparmi in borsa, cosi’ come di investitori istituzionali, quali banche, assicurazioni, fondi pensione, hedge funds e molti altri. E’ ragionevole pero’ qualcuno conti piu’ di altri, detenendo quantitivi piu’ ampi di azioni e di obbligazioni, e acquisendo il potere indiretto di “pilotare” le decisioni degli altri attraverso le proprie. Il risultato di un comportamento collettivo puo’ essere irrazionale, ma e’ di certo basato sull’imitazione degli altri...Come gli stormi di uccelli si accodano ad un unico uccello a capo del gruppo, mi chiedo a chi spetti questo ruolo sui mercati internazionali: forse ai George Soros, Warren Buffet e Paul Wolker, coloro che Charles Morris chiama “i saggi e i maelstrom (correnti maestre) del mercato”? Forse alle agenzie di rating che tali saggi potrebbero influenzare?
Quel che e’ certo e’ che i comportamenti di tali leader non sempre sono esemplari, anche perche’ al momento la legge non vieta loro le speculazioni, tema che mi traghetta verso l’ultima questione (che fine fanno i soldi pubblici riversati nei mercati finanziari?)...
Oltre ad essere un luogo in cui i soldi si "bruciano” (per esempio quando le aziende quotate falliscono) o si “generano” (per esempio quando le stesse distribuiscono dividendi), la borsa e' anche un luogo in cui i soldi piu' semplicemente si tolgono o si mettono. Per semplicita’, penso alla borsa come a un calderone in cui un numero variabile di persone depositano o prelevano delle banconote; la quantita’ totale di banconote diminuisce o aumenta, ma il calderone resta sempre quello: cosi’ come i soldi non prendono fuoco, il calderone non si espande ne’ si restringe. Quello che alcuni mettono, altri prelevano, in un ciclo continuativo in cui alcuni si riempiranno le tasche di quello che altri si sono svuotati. In linea di principio, i soldi che il governo tedesco “deposita” nel calderone Grecia potrebbero essere presto “prelevati” dai fondi di investimento di George Soros: oggi la Germania acquista obbligazioni greche, facendone aumentare il prezzo; domani George Soros vende obbligazioni greche, beneficiando del prezzo alto ma facendolo al contempo diminuire; e magari dopodomani George Soros si ricompra lo stesso numero di obbligazioni, al nuovo prezzo piu’ basso (una mossa speculativa chiamata “short selling” o “vendita corta”).
Il problema nasce dal fatto che la Germania e’ costretta a sopportare tali pratiche speculative pur di contribuire alla causa globale, quella di riempire il calderone di piu’ banconote possibile per fare espandere l’economia (e un giorno auspicabilmente recuperare i propri soldi e forse guadagnarci). La Germania ha effettivamente provato a lanciare l’idea di proibire lo short selling: le borse hanno reagito prendendo la picchiata (improvviso e collettivo prelievo di banconote dal calderone), come si trattasse di un referendum mondiale sulla nuova proposta.
Ed e’ qui che si cela un paradosso della finanza globale: abbiamo costruito il formidabile strumento collettivo delle borse (che ci consente di mettere in comune i nostri soldi con quelli degli altri, per poi prestarli attraverso azioni e obbligazioni), ma non accettiamo il fatto che il gioco debba dotarsi di regole per prevenire le spinte egoistiche e accumulative.
Siamo difronte a un'opera incompleta?
Pensiamo che la "mano" invisibile del mercato sia sempre pronta a sistemare tutto, senza accorgersi che forse tale mano potrebbe dirottare sistematicamente i soldi in certe direzioni. Ultimamente questa mano e’ diventata talmente forte da riuscire a dirottare enormi quantita’ di fondi pubblici appartenenti agli stati sovrani, privandoli delle risorse che sarebbero state altrimente investite in servizi pubblici di ogni tipo. Che sia gia’ troppo tardi per fermarla? Obama e i leader europei ci stanno provando, attraverso la proposta di nuova regolamentazione; ma il futuro chiedera' in prima istanza a loro stessi, come capi di stati sovrani, piu' rigore e oculatezza nella gestione dei propri budget, per tornare a cavarsela con le proprie risorse e rompere la dipendenza dai mercati finanziari. E forse anche accettare di poter non essere piu' ricchi come prima, riconoscendo l'ascesa dei paesi emergenti mossi da simili legittime ambizioni.
Utilizzo la mia limitata conoscenza per ricostruire i fatti e vederci un po’ piu’ chiaro. In anni recenti il governo greco, come quello di molti altri paesi del mondo, decide di incrementari l'emissione di obbligazioni: prendera' a prestito del denaro attraverso i mercati finanziari, ad integrare gli introiti delle tasse. La Grecia potra' utilizzare il surplus di risorse in molti modi: per tenere basse le tasse, per aumentare gli investimenti nei settori pubblici creando nuovi posti di lavoro, per elargire incentivi alle imprese, per ripagare i debiti passati, e chissa’ per quante altre azioni positive. Un’intera nazione potra' permettersi di vivere al di sopra dei propri mezzi, come chi utilizza la carta di credito perche’ non ha disponibilita’ immediata sul conto corrente.
Poi improvvisamente l'ingranaggio si inceppa: dall’analisi dei dati macro-economici del paese, si fa largo il timore che la Grecia possa non riuscire a restituire i soldi che si e’ fatta prestare. Cosi’ come la nostra banca comincia a temere che i nostri stipendi sempre uguali non basteranno a saldare lo scoperto, chi ha investito nelle obbligazioni greche teme che l’economia di quel paese non si stia espandendo abbastanza per generare la capacita’ di ripagare i debiti contratti.
E qui comincia la crisi, basata sui ricatti e sulle profezie destinate a auto-adempiersi. Gli investitori dicono: “Se voi stati dell’Unione Europea non prestate ulteriori soldi alla Grecia per accrescere il conto che da un momento all’altro potrebbe precipitare in rosso, allora noi ritiriamo i soldi dal conto, costringendo la Grecia alla bancarotta”.
I governi europei sono improvvisamente sotto ricatto: se non facessero come richiesto dai mercati la profezia negativa si avvererebbe. Migliaia di investitori e broker da tutto il mondo si affretterebbero a richiedere il proprio denaro, attraverso un click del mouse. Gli investitori sanno che i governi europei sono ricattabili: il fallimento della Grecia si ripercuoterebbe negativamente sull’Euro e sull’intera economia europea basata sull’interdipendenza tra i paesi; potrebbe altresi’ avere implicazioni negative sull’ intera economia globale (che include quella europea), innestando una crisi di fiducia che drenerebbe i mercati finanziari delle risorse necessarie alla crescita. In tale situazione di tensione si intromettono le agenzie di rating: attraverso il loro parere indipendente (sulla carta), tolgono punti alle obbligazioni greche, facendo presumere che queste non siano piu’ un investimento sicuro come prima.
Come va a finire?
Cosi’ come nel 2008 il crack delle banche americane fu arginato dalla “generosita’” di Obama, cosi’ nel 2010 tocca alla Merkel e ai governi europei tamponare la crisi della Grecia. I soldi pubblici vengono dirottati dagli stati sovrani ai mercati internazionali, a causa di scelte rivelatesi infelici da parte della Grecia e di chi si e’ fatto creditore verso di lei.
Tale resoconto potrebbe considerarsi concluso, ma a ben pensarci solleva qualche importante punto interrogativo:
• Come ha fatto un paese come la Grecia, che con le Olimpiadi del 2004 sembrava avere definitivamente conquistato la credibilita’ del mondo, a ridursi in questo stato?
• Quali attori si celano dietro l’apparentemente anonimato dei mercati finanziari globali, diventati talmente potenti da mettere sotto ricatto gli stati sovrani?
• Che fine faranno i soldi pubblici investiti nei mercati finanziari? Se potessimo marchiarli e tracciarli uno a uno, capiremmo in quali tasche stanno transitando?
Provo ad affrontare le tre questioni una alla volta, per poi avviarmi verso la conclusione. La mia limitata conoscenza di questi fenomeni mi fa pensare che la parola chiave per capire cosa stia succendendo in Grecia sia “globalizzazione”. Globalizzazione come apertura generale delle transazioni commerciali a livello planetario che, tra altre, ha avuto due importanti conseguenze: da una parte ha favorito l’emergere dell’industria dei grandi paesi asiatici e di altri paesi in via di sviluppo, a discapito di quelli economicamente avanzati; dall’altra ha spinto molti stati, inclusi quelli del mondo avanzato come la Grecia, a ricorrere al prestito di denaro sui mercati internazionali. In alcuni casi i due fenomeni potrebbero manifestarsi come due faccie della stessa medaglia: se le mie attivita’ produttive non sono piu’ in grado di generare ritorni soddisfacenti sottoforma di tasse, io stato sovrano ricorro ai mercati internazionali per finanziare le mie attivita’ e la crescita economica.
Una tale lettura potrebbe valere per la Grecia cosi’ come per gli Stati Uniti, il Portogallo, l’Inghilterra e molti altri stati con un alto deficit pubblico. Eccezione farebbe l’Italia, non tanto perche’ il deficit non sia alto, quanto perche’ in quel caso il debito pubblico e’ piu’ in mano ad investitori italiani piuttosto che internazionali. L’Italia e’stata recentemente criticata per non avere mai sposato in pieno la globalizzazione (ricordate Fazio che cercava di impedire la vendita di Banca Antonveneta agli olandesi dell'ABN Amro?): alla luce del crack delle banche internazionali di investimento nel 2008 e quello degli stati sovrani nel 2010, possiamo forse riconsiderare quella scelta come oculata? Chiusa in se’ stessa e conscia dei propri limiti, l’Italia si preclude le opportunita’ della globalizzazione finanziaria, ma anche i rischi che questa porta con se’.
Seconda questione: l’identita’ dei mercati finanziari. Ormai lo diamo per scontato: li’ fuori, nel mondo virtuale, c’e’ qualcuno chiamato “mercato globale” che fa il buono e il cattivo tempo e decide le sorti di interi paesi. Ma da chi si compone tale mercato globale?
Di tutti: di privati cittadini che investono in propri risparmi in borsa, cosi’ come di investitori istituzionali, quali banche, assicurazioni, fondi pensione, hedge funds e molti altri. E’ ragionevole pero’ qualcuno conti piu’ di altri, detenendo quantitivi piu’ ampi di azioni e di obbligazioni, e acquisendo il potere indiretto di “pilotare” le decisioni degli altri attraverso le proprie. Il risultato di un comportamento collettivo puo’ essere irrazionale, ma e’ di certo basato sull’imitazione degli altri...Come gli stormi di uccelli si accodano ad un unico uccello a capo del gruppo, mi chiedo a chi spetti questo ruolo sui mercati internazionali: forse ai George Soros, Warren Buffet e Paul Wolker, coloro che Charles Morris chiama “i saggi e i maelstrom (correnti maestre) del mercato”? Forse alle agenzie di rating che tali saggi potrebbero influenzare?
Quel che e’ certo e’ che i comportamenti di tali leader non sempre sono esemplari, anche perche’ al momento la legge non vieta loro le speculazioni, tema che mi traghetta verso l’ultima questione (che fine fanno i soldi pubblici riversati nei mercati finanziari?)...
Oltre ad essere un luogo in cui i soldi si "bruciano” (per esempio quando le aziende quotate falliscono) o si “generano” (per esempio quando le stesse distribuiscono dividendi), la borsa e' anche un luogo in cui i soldi piu' semplicemente si tolgono o si mettono. Per semplicita’, penso alla borsa come a un calderone in cui un numero variabile di persone depositano o prelevano delle banconote; la quantita’ totale di banconote diminuisce o aumenta, ma il calderone resta sempre quello: cosi’ come i soldi non prendono fuoco, il calderone non si espande ne’ si restringe. Quello che alcuni mettono, altri prelevano, in un ciclo continuativo in cui alcuni si riempiranno le tasche di quello che altri si sono svuotati. In linea di principio, i soldi che il governo tedesco “deposita” nel calderone Grecia potrebbero essere presto “prelevati” dai fondi di investimento di George Soros: oggi la Germania acquista obbligazioni greche, facendone aumentare il prezzo; domani George Soros vende obbligazioni greche, beneficiando del prezzo alto ma facendolo al contempo diminuire; e magari dopodomani George Soros si ricompra lo stesso numero di obbligazioni, al nuovo prezzo piu’ basso (una mossa speculativa chiamata “short selling” o “vendita corta”).
Il problema nasce dal fatto che la Germania e’ costretta a sopportare tali pratiche speculative pur di contribuire alla causa globale, quella di riempire il calderone di piu’ banconote possibile per fare espandere l’economia (e un giorno auspicabilmente recuperare i propri soldi e forse guadagnarci). La Germania ha effettivamente provato a lanciare l’idea di proibire lo short selling: le borse hanno reagito prendendo la picchiata (improvviso e collettivo prelievo di banconote dal calderone), come si trattasse di un referendum mondiale sulla nuova proposta.
Ed e’ qui che si cela un paradosso della finanza globale: abbiamo costruito il formidabile strumento collettivo delle borse (che ci consente di mettere in comune i nostri soldi con quelli degli altri, per poi prestarli attraverso azioni e obbligazioni), ma non accettiamo il fatto che il gioco debba dotarsi di regole per prevenire le spinte egoistiche e accumulative.
Siamo difronte a un'opera incompleta?
Pensiamo che la "mano" invisibile del mercato sia sempre pronta a sistemare tutto, senza accorgersi che forse tale mano potrebbe dirottare sistematicamente i soldi in certe direzioni. Ultimamente questa mano e’ diventata talmente forte da riuscire a dirottare enormi quantita’ di fondi pubblici appartenenti agli stati sovrani, privandoli delle risorse che sarebbero state altrimente investite in servizi pubblici di ogni tipo. Che sia gia’ troppo tardi per fermarla? Obama e i leader europei ci stanno provando, attraverso la proposta di nuova regolamentazione; ma il futuro chiedera' in prima istanza a loro stessi, come capi di stati sovrani, piu' rigore e oculatezza nella gestione dei propri budget, per tornare a cavarsela con le proprie risorse e rompere la dipendenza dai mercati finanziari. E forse anche accettare di poter non essere piu' ricchi come prima, riconoscendo l'ascesa dei paesi emergenti mossi da simili legittime ambizioni.
venerdì 23 aprile 2010
Sulle orme della verita'
L’altra sera ho visto “Il Divo”, film di Paolo Sorrentino sulla vita del plurice primo ministro italiano Giulio Andreotti. Oltre che la sperimentazione nelle tecniche e nella narrativa, mi hanno colpito i contenuti. Wikipedia scrive: "Di Andreotti il regista mette in rilievo alcuni caratteri, tra cui la tensione tra falsità e verità, che Andreotti risolve solitamente nell'ironia. In Andreotti appare la gestione spregiudicata del potere e la ricerca dell'oblio della verità, al fine di preservare l'ordine costituito”.
Con "Il Divo", Sorrentino e’ arrivato a toccare un tema a me molto caro: la verita’ e il suo ruolo sociale, e forse anche anti-sociale stando al pensiero di Andreotti. Ne ho preso spunto per riflettere su quella che e’ la mia visione in merito: ora faccio un passo indietro e vi racconto la mia storia...
Il bagaglio etico e la formazione scientifica mi hanno portato a sposare la “missione” di ricercatore e comunicatore della verita’, cosi’ come avviene per tanti scienziati, giornalisti ed investigatori. Al riguardo, in questi pochi anni di esperienza, ho imparato che l'ostacolo forse piu' grande per comprendere la realta’ del mondo in cui viviamo e’ quello del liberarsi dai propri pregiudizi, aprendosi a recepire e vedere anche quello che non vorremmo.
E’ un passaggio che ha poco a che vedere con la razionalita’ scientifica, quanto piuttosto al rapporto dell’uomo con il proprio equilibrio emotivo e con l’immagine di se’ stesso. Sembra che tutti i comuni mortali, e in misura maggiore coloro che piu’ sentono l’esigenza di sentirsi importanti e rispettati, siano alla costante ricerca di rassicurazione sulle proprie teorie e opinioni sul mondo. Il “so di non sapere” e’ destabilizzante, l’uomo potrebbe esserne terrorizzato se si rendesse conto che in fin dei conti ha ben poco controllo sul mondo.
La mia limitata esperienza mi ha insegnato che il metodo scientifico, quando applicato con la massima competenza e rigore, puo’ aiutare l’uomo ad acquisire uno sguardo piu’ obiettivo e meno pregiudiziale. Al cuore del metodo scientifico risiedono la demarcazione e la descrizione dei fatti del mondo, senza la messa in gioco di emozioni, ipotesi o teorie, ma limitandosi a una pedante lista di caratteristiche e misure. Cosi’ facendo, ho scoperto che i fatti del mondo si compongono di tanti elementi, che spesso si contraddicono tra loro quando cerchiamo di interpretarli con un’unica teoria e ad un unico livello.
Si prenda l’attuale processo di globalizzazione economica: al riguardo si possono osservare elementi contradditori, in quanto tale globalizzazione da una parte favorisce l’emancipazione dalla poverta’ per milioni di esseri umani, dall’altra la perdita di identita’ personale e culturale di numerosi altri. Se da una parte gli ideologi del mercato libero rimarcano il primo aspetto, dall'altro gli ideologi conservatori islamici rimarcano il secondo: uno scienziato o una persona poco sovrastrutturata e libera da pregiudizi, per esempio un bambino, sosterebbero che entrambi hanno ragione. Ma quanto e’ dura convivere con la multivalenza e la complessita’ delle cose! Il piu' delle volte sono gli scienziati in prima battuta a non riuscirci, cercando rassicurazione nelle teorie e nelle scuole di pensiero.
Ed e’ cosi’ che mi sono innamorato della verita’, di quel percorso che cosi’ come l’ho descritto puo’ portare l’uomo non solo ad ammirare la straordinaria complessita’ del mondo, ma anche a comprendere che forse, in fin dei conti, la conoscenza e la ragione risiedono dappertutto e sono di tutti. Ed e’ per questo che mi fa riflettere la visione di Andreotti per cui, citando da Wikipedia, “tutti a pensare che la verità sia una cosa giusta, e invece è la fine del mondo, e noi non possiamo consentire la fine del mondo in nome di una cosa giusta”.
Non ho di certo l’esperienza per poter interpretare una tale opinione, a differenza di chi come Andreotti ha vissuto in prima persona certe dinamiche di controllo e amministrazione della cosa pubblica. Penso pero' al rischio che tale paura nei confronti della trasparenza e della verita’ possa degenerare nell’oscurantismo e nel doppiogiochismo, nonche’ nella perdita di fiducia nei confronti di chi li pratica. Da questo punto di vista, mentre guardavo Andreotti ne “Il Divo” mi sembrava di rivedere molti atteggiamenti che osservo nella classe politica italiana, in particolare quelli dell’attuale primo ministro Berlusconi impegnato a sostenere la propria verita’ in molti processi. Il pensiero andava ai media italiani, per buona parte schierati con la politica e focalizzati sulle opinioni personali, sui dibattiti politici, sui giochi di potere.
Quello che sembra mancare in Italia e forse nella maggior parte dei paesi del mondo e’ una cultura scientifica di osservazione e rispetto dei fatti, applicata alla politica, al giornalismo, e in una certa misura a tutti i settori. Al contrario, si finisce spesso per tollerare che possano coesistere versioni diverse degli stessi fatti, una implicita ma massima dichiarazione di sfiducia nel metodo e nelle tecniche scientifiche. Cosi' facendo, si apre anche il campo a molte piu’ opinioni, soddisfando un legittimo e molto umano bisogno di parlare, di confrontarsi, di sfoggiare eloquenza, di divertirsi chiaccherando che anima gli italiani come tanti altri popoli.
Che tale esercizio di democrazia diretta (ciascuno e’ legittimato a dir la sua) si trasformi in ultima istanza in quella che Luca Ricolfi chiama "arte del non governo"?
Forse sono in molti coloro che pensano, come Andreotti, che la verita’ sia una cosa giusta, ma anche destabilizzante e potenzialmente sovversiva dello status quo. L’istinto umano di conservazione della propria posizione e del perseguimento del bene per se’ stessi sembra impedire a tutti noi di dire sempre la verita’ e di cercarla in quello che ci circonda.
Spesso ci mancano il tempo e gli strumenti per registrare e descrivere appropriatamente i fatti della vita. Spesso ce lo impediscono le nostre emozioni.
Nonostante tutto, siamo forse tutti d'accordo nel pensare che la verita’, in fin dei conti, sia una cosa giusta. Questa, secondo me, e’ una cosa straordinaria.
A proposito di contraddizioni:
si noti come i contenuti di questo articolo siano in apparente contraddizione con quanto sostenuto in "Scienza del passato?" Ma ne siamo veramente sicuri? Ah, se fosse tutto facile...
Con "Il Divo", Sorrentino e’ arrivato a toccare un tema a me molto caro: la verita’ e il suo ruolo sociale, e forse anche anti-sociale stando al pensiero di Andreotti. Ne ho preso spunto per riflettere su quella che e’ la mia visione in merito: ora faccio un passo indietro e vi racconto la mia storia...
Il bagaglio etico e la formazione scientifica mi hanno portato a sposare la “missione” di ricercatore e comunicatore della verita’, cosi’ come avviene per tanti scienziati, giornalisti ed investigatori. Al riguardo, in questi pochi anni di esperienza, ho imparato che l'ostacolo forse piu' grande per comprendere la realta’ del mondo in cui viviamo e’ quello del liberarsi dai propri pregiudizi, aprendosi a recepire e vedere anche quello che non vorremmo.
E’ un passaggio che ha poco a che vedere con la razionalita’ scientifica, quanto piuttosto al rapporto dell’uomo con il proprio equilibrio emotivo e con l’immagine di se’ stesso. Sembra che tutti i comuni mortali, e in misura maggiore coloro che piu’ sentono l’esigenza di sentirsi importanti e rispettati, siano alla costante ricerca di rassicurazione sulle proprie teorie e opinioni sul mondo. Il “so di non sapere” e’ destabilizzante, l’uomo potrebbe esserne terrorizzato se si rendesse conto che in fin dei conti ha ben poco controllo sul mondo.
La mia limitata esperienza mi ha insegnato che il metodo scientifico, quando applicato con la massima competenza e rigore, puo’ aiutare l’uomo ad acquisire uno sguardo piu’ obiettivo e meno pregiudiziale. Al cuore del metodo scientifico risiedono la demarcazione e la descrizione dei fatti del mondo, senza la messa in gioco di emozioni, ipotesi o teorie, ma limitandosi a una pedante lista di caratteristiche e misure. Cosi’ facendo, ho scoperto che i fatti del mondo si compongono di tanti elementi, che spesso si contraddicono tra loro quando cerchiamo di interpretarli con un’unica teoria e ad un unico livello.
Si prenda l’attuale processo di globalizzazione economica: al riguardo si possono osservare elementi contradditori, in quanto tale globalizzazione da una parte favorisce l’emancipazione dalla poverta’ per milioni di esseri umani, dall’altra la perdita di identita’ personale e culturale di numerosi altri. Se da una parte gli ideologi del mercato libero rimarcano il primo aspetto, dall'altro gli ideologi conservatori islamici rimarcano il secondo: uno scienziato o una persona poco sovrastrutturata e libera da pregiudizi, per esempio un bambino, sosterebbero che entrambi hanno ragione. Ma quanto e’ dura convivere con la multivalenza e la complessita’ delle cose! Il piu' delle volte sono gli scienziati in prima battuta a non riuscirci, cercando rassicurazione nelle teorie e nelle scuole di pensiero.
Ed e’ cosi’ che mi sono innamorato della verita’, di quel percorso che cosi’ come l’ho descritto puo’ portare l’uomo non solo ad ammirare la straordinaria complessita’ del mondo, ma anche a comprendere che forse, in fin dei conti, la conoscenza e la ragione risiedono dappertutto e sono di tutti. Ed e’ per questo che mi fa riflettere la visione di Andreotti per cui, citando da Wikipedia, “tutti a pensare che la verità sia una cosa giusta, e invece è la fine del mondo, e noi non possiamo consentire la fine del mondo in nome di una cosa giusta”.
Non ho di certo l’esperienza per poter interpretare una tale opinione, a differenza di chi come Andreotti ha vissuto in prima persona certe dinamiche di controllo e amministrazione della cosa pubblica. Penso pero' al rischio che tale paura nei confronti della trasparenza e della verita’ possa degenerare nell’oscurantismo e nel doppiogiochismo, nonche’ nella perdita di fiducia nei confronti di chi li pratica. Da questo punto di vista, mentre guardavo Andreotti ne “Il Divo” mi sembrava di rivedere molti atteggiamenti che osservo nella classe politica italiana, in particolare quelli dell’attuale primo ministro Berlusconi impegnato a sostenere la propria verita’ in molti processi. Il pensiero andava ai media italiani, per buona parte schierati con la politica e focalizzati sulle opinioni personali, sui dibattiti politici, sui giochi di potere.
Quello che sembra mancare in Italia e forse nella maggior parte dei paesi del mondo e’ una cultura scientifica di osservazione e rispetto dei fatti, applicata alla politica, al giornalismo, e in una certa misura a tutti i settori. Al contrario, si finisce spesso per tollerare che possano coesistere versioni diverse degli stessi fatti, una implicita ma massima dichiarazione di sfiducia nel metodo e nelle tecniche scientifiche. Cosi' facendo, si apre anche il campo a molte piu’ opinioni, soddisfando un legittimo e molto umano bisogno di parlare, di confrontarsi, di sfoggiare eloquenza, di divertirsi chiaccherando che anima gli italiani come tanti altri popoli.
Che tale esercizio di democrazia diretta (ciascuno e’ legittimato a dir la sua) si trasformi in ultima istanza in quella che Luca Ricolfi chiama "arte del non governo"?
Forse sono in molti coloro che pensano, come Andreotti, che la verita’ sia una cosa giusta, ma anche destabilizzante e potenzialmente sovversiva dello status quo. L’istinto umano di conservazione della propria posizione e del perseguimento del bene per se’ stessi sembra impedire a tutti noi di dire sempre la verita’ e di cercarla in quello che ci circonda.
Spesso ci mancano il tempo e gli strumenti per registrare e descrivere appropriatamente i fatti della vita. Spesso ce lo impediscono le nostre emozioni.
Nonostante tutto, siamo forse tutti d'accordo nel pensare che la verita’, in fin dei conti, sia una cosa giusta. Questa, secondo me, e’ una cosa straordinaria.
A proposito di contraddizioni:
si noti come i contenuti di questo articolo siano in apparente contraddizione con quanto sostenuto in "Scienza del passato?" Ma ne siamo veramente sicuri? Ah, se fosse tutto facile...
sabato 10 aprile 2010
Appunto dall'Olanda
Mi si schiudono le orecchie quando l’aereo buca la fitta coltre di nubi che divide l’Olanda dal cielo. La geometria visibile dal finestrino non inganna: linee rette, canali e forme squadrate per proteggere la terra dal mare, la campagna dalla citta’, i centri abitati da quelli commerciali. Di sera, le serre brillano di luce gialla punteggiando la tavola del paesaggio.
Una volta a terra mi imbarco sui chilometrici tapis roulant del mega-aereporto di Schiphol: hostess bionde, robuste e sorridenti sfilano al mio fianco, mentre una voce meccanica di donna accompagna il tragitto verso il nastro bagagli: “mind your step”, attenti al passo. Valigia pronta, mi dirigo verso la stazione ferroviaria sotterranea che collega Schiphol a tutta l'Olanda. Monto in treno e il mio orologio si sincronizza sul futuro: suono ovattato dei binari; grattacieli squadrati e futuristici con i centri di ricerca, design e marketing di grandi aziende multinazionali; macchine che procedono sincronizzate sull’autostrada parallela alla ferrovia. I viaggiatori cercano di non parlare ma sfoggiano sguardi immersi in se’ stessi e disinteressati a tutti gli altri. Poi Amsterdam: una festa di biciclette, una festa di giovani, una festa di tram, una festa di pittoreschi ma troppo perfetti edifici in mattone rosso scuro. Una poesia disciplinata e pulita, fatta di canali e di biciclette, di poca emozione e di molta logica.
Sono quasi 6 anni che frequento regolarmente Amsterdam e l’Olanda, per studio e per lavoro. Ho ancora pero' la sensazione di non comprendere appieno il paese, di avere trovato il bandolo della matassa per sbrogliarne il filo rosso. L’apparenza sembra non ingannare, perche’ tutto si concilia in Olanda: il PIL con la sostenibilita’ ambientale; l’efficienza sul lavoro con il godersi la vita; la sperimentazione con la tradizione; l’alta tecnologia con la produzione culturale; la ricchezza con la frugalita’ e l’equita’ sociale; la riservatezza con la trasparenza e il fare tutto alla luce del sole.
E’ forte la tentazione di vedere nel paese un modellino di quello che dovrebbe essere il mondo, e c’e’ da augurarsi che sempre piu’ persone e leader globali possano arrivare a conoscere questo magico equilibrio dell’Olanda.
Allo stesso tempo, piu’ frequento il paese piu’ comprendo la mentalita' degli abitanti. Sul lavoro, hanno sempre riscosso la mia ammirazione per una grande attenzione alla professionalita', raramente accompagnata da eccessiva serieta' quanto piuttosto da un atteggiamento cordiale, amichevole ed attento a mettere a proprio agio gli interlocutori.
Allo stesso tempo, dopo qualche anno arrivo a cogliere le intenzioni alla base di molti comportamenti e mi rendo conto di quanto esse non siano sempre umanamente edificanti come si possa pensare. Sembra che dietro ciascuna azione si nasconda un calcolo di massimizzazione del proprio vantaggio personale e dell’impiego dei propri soldi. Mai come in Olanda mi sembra di cogliere il significato piu’ profondo dei concetti di opportunismo e di business.
Il permissionismo del sessantotto ha profondamente marcato la traiettoria del paese, ma se oggi in Olanda esistono i coffee shop e i quartiere a luci rosse e’ anche e soprattutto perche’ si tratta di un’enorme opportunita’ commerciale. Il porto di Rotterdam e’ nodo strategico per il traffico di droga verso l’Europa e il mondo, mentre Amsterdam ha sfruttato la libera circolazione delle droghe leggere e del sesso come leva di marketing per diventare una delle capitali mondiali del turismo. Perche’ lasciare dei mercati cosi’ vasti ad esclusivo profitto delle mafie?
Andare in bicicletta e’ anche un modo per risparmiare i soldi della benzina e del mezzo pubblico. Perche’ mai lasciare il monopolio di questa opportunita’ agli appassionati e ai meno abbienti?
D’altronde, l’Olanda con i suoi pochi milioni di abitanti e’ stata ed e’ tuttora una delle piu’ grandi potenze commerciali del mondo. Nell’enorme area metropolitana del Randstad “l’etica protestante e lo spirito del capitalismo” di Max Weber si respirano nell’aria.
L’altra faccia della filosofia dominante della tolleranza e del “vivi e lascia vivere” sembra essere quella del “problema tuo non e’ problema mio”. Ho imparato sulla mia pelle, sul lavoro, quanto la compassione sia un concetto poco compreso. In molte occasioni, i miei interlocutori sono rimasti completamente sordi alle mie ragioni, per quanto legittime queste potessero essere state, continuando senza scrupoli ad avanzare le loro richieste nei miei confronti. Se il problema tuo non e’ problema mio, il concetto di aiuto sembra non essere necessario: una volta che codifichiamo i ruoli, definendo cosa spetta a te e cosa a me, non ci resta che attenervici. Venirci incontro? Cosa vuol dire?
La mia esperienza ad Amsterdam mi ha fatto conoscere la difficolta’ di negoziare con persone che, in buona fede, si sono dimostrate determinate a spillare tutto il possibile e a non mollare l’osso fino a quando questo non fosse completamente spolpato.
La razionalita’ che fa dell’Olanda il paese ordinato, supermoderno ed efficiente che possiamo ammirare sembra essere la stessa che rende chiuso il cuore di molte persone. Il binario della ragione e della logica sembra tenerle incollate al calcolo e all’interesse personale, rendendo loro piu’ difficile attivare il binario dell’emozione, della compassione, dell’irrazionalita’ e, in definitiva, dell’amore. Da questo punto di vista, credo che grande rispetto vada portato all’Italia e ai popoli latini (e a chissa' quanti altri popoli del mondo): spesso confusionari ma dotati di grande cuore. Allenati nella capacita’ di “sentire” le persone e il mondo, e di lasciarsi muovere da questo sentimento. Ho conosciuto persone cosi' anche in Olanda, ma come forse in tutta la sfera umana e culturale il punto non e’ se certi caratteri siano presenti o meno, ma in che misura e quanto spesso lo siano.
In Italia ci si lamenta a ben vedere dell’eccesso di garantismo, di lassismo e di pietas cristiana nella sfera pubblica, caratteristiche che tengono il paese lontano da una maggiore giustizia ed efficienza sociale. Potremmo pero’ rincuorarci del fatto che dietro a tali pratiche si nasconde uno spirito di compassione profondamente umano, lo stesso olio che lubrifica le nostre interazioni sociali nella vita quotidiana.
E poi viene il business, l’attivita’ privata a fini commerciali.
L'osservazione e la mia limitata esperienza imprenditoriale di lancio di una fondazione in Olanda mi hanno portato ad alcune considerazioni. Mi hanno confermato anzitutto la straordinaria positivita' dell'iniziativa privata, come ambito di azione che consente alle persone di mettere il proprio talento, la propria energia e il proprio tempo al servizio di quello che e’, nel bene o nel male, un bisogno della collettivita’. Una palestra di socialita’ e di umanita’, che lega dipendenti e collaboratori in un destino comune, quello della propria azienda. Allo stesso tempo, mi hanno fatto cogliere il rischio di rimanere imprigionati dentro un canale utilitaristico: ogni azione diventa funzionale a uno scopo da raggiungere, tutto il resto “non conta”, tutti gli altri “non contano”, e’ materia per gli idealisti. Prima di accorgesene, l'attenzione puo' diventare selettiva, si trattengono le tesi piu’ convenienti alla propria causa mentre quelle scomode ci sfilano difianco inosservate. Mi viene la tentazione di pensare che, se fatta in un certo modo, l'attivita’ commerciale possa contribuire ad asciugare le emozioni delle menti piu’ predisposte alla razionalita’, cosi’ come forse avviene per chi studia ingegneria. A volte mi spiego cosi’ il panorama di sguardi distanti, distantissimi, che mi accoglie quando scendo dal treno alla stazione di Amsterdam Sud-World Trade Center.
Poi c'e' la questione dei soldi. Dell'auto-controllo verso una tentazione che sembra irresistibile e per certi aspetti al di sopra delle capacita’ umane di arricchirsi quando ce n’e’ la possibilita’, di afferrare la banconota che sventola davanti agli occhi. E’ frutto dell’amore per la vita, in fin dei conti: in apparenza, equivale a dare a se’ stessi l’opportunita’ di accedere e accumulare quanto di piu’ meraviglioso questo mondo abbia da offrire. E’ il mors tua vita mea: piu’ tu dipendente mi chiedi, piu’ togli a me datore di lavoro.
Ricordo i miei primi messaggi dall’Olanda all’Italia: “Mi sento privilegiato nel poter vivere e lavorare in una societa’ cosi’ avanzata”. Continuo a pensarlo, ma piu’ viaggio piu’ mi rendo conto che l’oro puo’ luccicare ovunque, ma il mondo perfetto sembra proprio non esistere.
Per quanto imperfetto, pero’, questo mondo non finisce mai di sorprendermi.
Una volta a terra mi imbarco sui chilometrici tapis roulant del mega-aereporto di Schiphol: hostess bionde, robuste e sorridenti sfilano al mio fianco, mentre una voce meccanica di donna accompagna il tragitto verso il nastro bagagli: “mind your step”, attenti al passo. Valigia pronta, mi dirigo verso la stazione ferroviaria sotterranea che collega Schiphol a tutta l'Olanda. Monto in treno e il mio orologio si sincronizza sul futuro: suono ovattato dei binari; grattacieli squadrati e futuristici con i centri di ricerca, design e marketing di grandi aziende multinazionali; macchine che procedono sincronizzate sull’autostrada parallela alla ferrovia. I viaggiatori cercano di non parlare ma sfoggiano sguardi immersi in se’ stessi e disinteressati a tutti gli altri. Poi Amsterdam: una festa di biciclette, una festa di giovani, una festa di tram, una festa di pittoreschi ma troppo perfetti edifici in mattone rosso scuro. Una poesia disciplinata e pulita, fatta di canali e di biciclette, di poca emozione e di molta logica.
Sono quasi 6 anni che frequento regolarmente Amsterdam e l’Olanda, per studio e per lavoro. Ho ancora pero' la sensazione di non comprendere appieno il paese, di avere trovato il bandolo della matassa per sbrogliarne il filo rosso. L’apparenza sembra non ingannare, perche’ tutto si concilia in Olanda: il PIL con la sostenibilita’ ambientale; l’efficienza sul lavoro con il godersi la vita; la sperimentazione con la tradizione; l’alta tecnologia con la produzione culturale; la ricchezza con la frugalita’ e l’equita’ sociale; la riservatezza con la trasparenza e il fare tutto alla luce del sole.
E’ forte la tentazione di vedere nel paese un modellino di quello che dovrebbe essere il mondo, e c’e’ da augurarsi che sempre piu’ persone e leader globali possano arrivare a conoscere questo magico equilibrio dell’Olanda.
Allo stesso tempo, piu’ frequento il paese piu’ comprendo la mentalita' degli abitanti. Sul lavoro, hanno sempre riscosso la mia ammirazione per una grande attenzione alla professionalita', raramente accompagnata da eccessiva serieta' quanto piuttosto da un atteggiamento cordiale, amichevole ed attento a mettere a proprio agio gli interlocutori.
Allo stesso tempo, dopo qualche anno arrivo a cogliere le intenzioni alla base di molti comportamenti e mi rendo conto di quanto esse non siano sempre umanamente edificanti come si possa pensare. Sembra che dietro ciascuna azione si nasconda un calcolo di massimizzazione del proprio vantaggio personale e dell’impiego dei propri soldi. Mai come in Olanda mi sembra di cogliere il significato piu’ profondo dei concetti di opportunismo e di business.
Il permissionismo del sessantotto ha profondamente marcato la traiettoria del paese, ma se oggi in Olanda esistono i coffee shop e i quartiere a luci rosse e’ anche e soprattutto perche’ si tratta di un’enorme opportunita’ commerciale. Il porto di Rotterdam e’ nodo strategico per il traffico di droga verso l’Europa e il mondo, mentre Amsterdam ha sfruttato la libera circolazione delle droghe leggere e del sesso come leva di marketing per diventare una delle capitali mondiali del turismo. Perche’ lasciare dei mercati cosi’ vasti ad esclusivo profitto delle mafie?
Andare in bicicletta e’ anche un modo per risparmiare i soldi della benzina e del mezzo pubblico. Perche’ mai lasciare il monopolio di questa opportunita’ agli appassionati e ai meno abbienti?
D’altronde, l’Olanda con i suoi pochi milioni di abitanti e’ stata ed e’ tuttora una delle piu’ grandi potenze commerciali del mondo. Nell’enorme area metropolitana del Randstad “l’etica protestante e lo spirito del capitalismo” di Max Weber si respirano nell’aria.
L’altra faccia della filosofia dominante della tolleranza e del “vivi e lascia vivere” sembra essere quella del “problema tuo non e’ problema mio”. Ho imparato sulla mia pelle, sul lavoro, quanto la compassione sia un concetto poco compreso. In molte occasioni, i miei interlocutori sono rimasti completamente sordi alle mie ragioni, per quanto legittime queste potessero essere state, continuando senza scrupoli ad avanzare le loro richieste nei miei confronti. Se il problema tuo non e’ problema mio, il concetto di aiuto sembra non essere necessario: una volta che codifichiamo i ruoli, definendo cosa spetta a te e cosa a me, non ci resta che attenervici. Venirci incontro? Cosa vuol dire?
La mia esperienza ad Amsterdam mi ha fatto conoscere la difficolta’ di negoziare con persone che, in buona fede, si sono dimostrate determinate a spillare tutto il possibile e a non mollare l’osso fino a quando questo non fosse completamente spolpato.
La razionalita’ che fa dell’Olanda il paese ordinato, supermoderno ed efficiente che possiamo ammirare sembra essere la stessa che rende chiuso il cuore di molte persone. Il binario della ragione e della logica sembra tenerle incollate al calcolo e all’interesse personale, rendendo loro piu’ difficile attivare il binario dell’emozione, della compassione, dell’irrazionalita’ e, in definitiva, dell’amore. Da questo punto di vista, credo che grande rispetto vada portato all’Italia e ai popoli latini (e a chissa' quanti altri popoli del mondo): spesso confusionari ma dotati di grande cuore. Allenati nella capacita’ di “sentire” le persone e il mondo, e di lasciarsi muovere da questo sentimento. Ho conosciuto persone cosi' anche in Olanda, ma come forse in tutta la sfera umana e culturale il punto non e’ se certi caratteri siano presenti o meno, ma in che misura e quanto spesso lo siano.
In Italia ci si lamenta a ben vedere dell’eccesso di garantismo, di lassismo e di pietas cristiana nella sfera pubblica, caratteristiche che tengono il paese lontano da una maggiore giustizia ed efficienza sociale. Potremmo pero’ rincuorarci del fatto che dietro a tali pratiche si nasconde uno spirito di compassione profondamente umano, lo stesso olio che lubrifica le nostre interazioni sociali nella vita quotidiana.
E poi viene il business, l’attivita’ privata a fini commerciali.
L'osservazione e la mia limitata esperienza imprenditoriale di lancio di una fondazione in Olanda mi hanno portato ad alcune considerazioni. Mi hanno confermato anzitutto la straordinaria positivita' dell'iniziativa privata, come ambito di azione che consente alle persone di mettere il proprio talento, la propria energia e il proprio tempo al servizio di quello che e’, nel bene o nel male, un bisogno della collettivita’. Una palestra di socialita’ e di umanita’, che lega dipendenti e collaboratori in un destino comune, quello della propria azienda. Allo stesso tempo, mi hanno fatto cogliere il rischio di rimanere imprigionati dentro un canale utilitaristico: ogni azione diventa funzionale a uno scopo da raggiungere, tutto il resto “non conta”, tutti gli altri “non contano”, e’ materia per gli idealisti. Prima di accorgesene, l'attenzione puo' diventare selettiva, si trattengono le tesi piu’ convenienti alla propria causa mentre quelle scomode ci sfilano difianco inosservate. Mi viene la tentazione di pensare che, se fatta in un certo modo, l'attivita’ commerciale possa contribuire ad asciugare le emozioni delle menti piu’ predisposte alla razionalita’, cosi’ come forse avviene per chi studia ingegneria. A volte mi spiego cosi’ il panorama di sguardi distanti, distantissimi, che mi accoglie quando scendo dal treno alla stazione di Amsterdam Sud-World Trade Center.
Poi c'e' la questione dei soldi. Dell'auto-controllo verso una tentazione che sembra irresistibile e per certi aspetti al di sopra delle capacita’ umane di arricchirsi quando ce n’e’ la possibilita’, di afferrare la banconota che sventola davanti agli occhi. E’ frutto dell’amore per la vita, in fin dei conti: in apparenza, equivale a dare a se’ stessi l’opportunita’ di accedere e accumulare quanto di piu’ meraviglioso questo mondo abbia da offrire. E’ il mors tua vita mea: piu’ tu dipendente mi chiedi, piu’ togli a me datore di lavoro.
Ricordo i miei primi messaggi dall’Olanda all’Italia: “Mi sento privilegiato nel poter vivere e lavorare in una societa’ cosi’ avanzata”. Continuo a pensarlo, ma piu’ viaggio piu’ mi rendo conto che l’oro puo’ luccicare ovunque, ma il mondo perfetto sembra proprio non esistere.
Per quanto imperfetto, pero’, questo mondo non finisce mai di sorprendermi.
mercoledì 3 marzo 2010
Alle 4 e mezza in Piazza Skype
Lo scoccare delle 16.25 preallarma i colleghi sulla riunione incombente.
F., direttore del gruppo di lavoro per lo sviluppo del nuovo sofware, chiude la finestra delle e-mail e riordina gli appunti in una delle sue due postazioni di lavoro di Padova, un ufficio condiviso in uno studio medico di famiglia.
V., supervisore tecnico e contemporaneamente neo-assunto in una multinazionale della Silicon Valley, chiude la porta del proprio ufficio casalingo: in attesa della nuova sede della multinazionale ad Amsterdam, lavora da casa durante il pomeriggio e la sera fino a tardi, sincronizzato agli orari dei colleghi californiani.
B., specialista nell’analisi dei dati, consegna il nipotino alla baby sitter e si fa spazio sul tavolo del soggiorno in una casa di Velbert, in Germania: e’ li’ da un mese per aiutare la sorella che sta per partorire il secondo figlio e il cui marito e’ in ospedale.
P., supervisore scientifico, chiude la porta del proprio ufficio presso il dipartimento di Fisica dell’Universita’ di Atene, altrimenti gli studenti potrebbero fare irruzione.
K., sviluppatrice e grafico, mette le cuffie al computer, altrimenti potrebbe disturbare gli altri studenti che sono con lei in un’aula dell’Universita’ di Poznan, in Polonia, dove sta seguendo una lezione.
P., specialista del server, esce dall’ufficio che condivide con altri ricercatori presso un laboratorio tecnologico dell’Universita’ Sapienza di Roma, per non disturbare e farli indispettire. Se fosse estate siederebbe a casa nella sua Siracusa, perche' non riesce a stare lontano dal mare.
R. e. E., imprenditori di un’azienda del software di Amsterdam, hanno gia’ comunicato che non riusciranno a venire.
Il computer segna ora le 16.30. Verde. Verde. Verde. Verde. Verde. Verde. Tutti i 6 partecipanti segnalano la disponibilita’. F. clicca “Avvia la teleconferenza”. Pronto. Pronto. Pronto. Pronto. Pronto. Pronto. La riunione comincia puntuale: on-line, ognuno difronte al proprio computer, gratuitamente, su Skype. V. condivide con tutti i partecipanti lo schermo del proprio computer in cui e’ visibile il foglio Excel con il piano di lavoro. Poi tocca a K. mostrare a tutti le ultime modifiche apportate all’interfaccia grafica del sofware. La riunione e’ ormai decollata.
Alle 4 e mezza in Piazza Skype.
Questo il titolo dell’e-mail che ho utilizzato per promuovere le riunioni del gruppo di lavoro descritto. Dopo una lunga sessione in presenza presso la sede della nostra Fondazione ad Amsterdam, ho deciso che ci saremmo trovati in Piazza Skype tutti i giorni feriali per 4 settimane consecutive, per poi convenire nuovamente ad Amsterdam per il “debriefing” (analisi retrospettiva) del lavoro svolto e la programmazione dei prossimi passi. Grazie ad affiliazioni con istituti di ricerca ed aziende in piu’ paesi, io e il secondo fondatore dell’iniziativa abbiamo messo insieme un gruppo di lavoro internazionale, per buona parte gia’ impegnato in altri progetti e ben poco intenzionato a lasciare il proprio paese per l’Olanda, per ragioni perlopiu' famigliari e personali. La nostra Fondazione ha sede in un business center localizzato dentro il meraviglioso Museo delle Carte Geografiche di Amsterdam. Naturalmente, affittiamo e paghiamo una sala di lavoro solo quando ci serve, per il resto provvede Skype. Naturalmente rimborsiamo il viaggi ai nostri collaboratori, ma per fortuna i voli intraeuropei non costano piu' come una volta. Naturalmente se lavorassimo tutti in uno stesso ufficio tutto il tempo saremmo piu' efficienti, ma come tutti dobbiamo fare di necessita' virtu'.
Ora che lo scrivo, la cosa mi sembra ancora piu’ incredibile.
In realta’, chi in un modo chi nell’altro, sono in tanti, tantissimi, milioni in tutto il mondo coloro che si stanno convertendo al tele-lavoro, diventando imprenditori di se’ stessi e gestendosi autonomamente molteplici progetti dal proprio computer portatile. Nei settori creativi e tecnologici in cui la materia prima e’ digitalizzata, si va affermando il trend per cui non e’ piu’ la persona che si sposta sul luogo di lavoro, bensi’ il lavoro che si sposta nei luoghi in cui la persona preferisce stare. (Ultimamente - ma non spargete la voce - mi e’ capitato di gestire un’importante telefonata di lavoro disteso su uno sdraio sulla terrazza di un appartamento di montagna, portatile appoggiato sulle ginocchia).
British Telecom offre incentivi ai propri dipendenti per lavorare da casa due giorni alla settimana, adempiendo al piano del governo inglese per combattere il traffico. Cisco Systems ha equipaggiato le proprie sedi in tutto il mondo con la tele-presenza: entri in una stanza, prendi posto e intorno al tavolo siedono gli altri partecipanti, ciascuno dentro a uno schermo in grandezza reale. La stessa Cisco sta per chiudere un’intera ala del proprio campus di Amsterdam: chi da casa, chi in viaggio dagli alberghi e prenotando sale in altre sedi, sembra che nessuno “vada piu’ in ufficio”, concetto superato visto che molti dipendenti considerano tale solamente il proprio computer portatile. Allo stesso modo, quando lavoro dal MIT a Boston, sono piu’ le volte in cui le riunioni progettuali con certi professori avvengono in teleconferenza piuttosto che in presenza: finche’ non glielo chiedi non sai mai dove sono, potrebbero essere a casa dietro l’angolo o all’aeroporto di Singapore.
Fino a qui la mia limitata esperienza.
Qualcuno potrebbe considerarla un presente moderno e affascinante, in cui le persone non sono piu’ schiave degli uffici e del pendolarismo; qualcun’altro la massima espressione di una societa’ individualizzata e atomizzata, fatta di persone che in fin dei conti passano la maggior parte del proprio tempo sole davanti al computer.
Credo che entrambi gli argomenti siano validi e veritieri, ma il punto per me non e’ schierarsi dall’una o dall’altra parte, ma piuttosto capire come ciascuno possa trovare la propria giusta via di mezzo. Che potrebbe essere quella di abbinare i due mondi, piuttosto che sostituire l’uno all’altro: lavorare con i propri colleghi in ufficio qualche giorno alla settimana, o settimana al mese, e lavorare da casa o in viaggio il resto del tempo (piu’ facile a dirsi che a farsi!). Sfruttare l’opportunita’ offerta dal nuovo mezzo tecnologico per trascorre piu’ tempo di qualita’, anziche’ meno tempo, con la propria famiglia e i propri amici (piu’ facile a dirsi che a farsi!).
Forse l’avvento di Internet e’ stato come regalare una Ferrari a chi aveva sempre guidato una FIAT. Si possono fare cose che prima si erano solo sognate, ma ci si puo’ anche schiantare molto piu’ facilmente. Con il tempo e l’esperienza mi auguro che tutti possano imparare nuovamente a guidare.
F., direttore del gruppo di lavoro per lo sviluppo del nuovo sofware, chiude la finestra delle e-mail e riordina gli appunti in una delle sue due postazioni di lavoro di Padova, un ufficio condiviso in uno studio medico di famiglia.
V., supervisore tecnico e contemporaneamente neo-assunto in una multinazionale della Silicon Valley, chiude la porta del proprio ufficio casalingo: in attesa della nuova sede della multinazionale ad Amsterdam, lavora da casa durante il pomeriggio e la sera fino a tardi, sincronizzato agli orari dei colleghi californiani.
B., specialista nell’analisi dei dati, consegna il nipotino alla baby sitter e si fa spazio sul tavolo del soggiorno in una casa di Velbert, in Germania: e’ li’ da un mese per aiutare la sorella che sta per partorire il secondo figlio e il cui marito e’ in ospedale.
P., supervisore scientifico, chiude la porta del proprio ufficio presso il dipartimento di Fisica dell’Universita’ di Atene, altrimenti gli studenti potrebbero fare irruzione.
K., sviluppatrice e grafico, mette le cuffie al computer, altrimenti potrebbe disturbare gli altri studenti che sono con lei in un’aula dell’Universita’ di Poznan, in Polonia, dove sta seguendo una lezione.
P., specialista del server, esce dall’ufficio che condivide con altri ricercatori presso un laboratorio tecnologico dell’Universita’ Sapienza di Roma, per non disturbare e farli indispettire. Se fosse estate siederebbe a casa nella sua Siracusa, perche' non riesce a stare lontano dal mare.
R. e. E., imprenditori di un’azienda del software di Amsterdam, hanno gia’ comunicato che non riusciranno a venire.
Il computer segna ora le 16.30. Verde. Verde. Verde. Verde. Verde. Verde. Tutti i 6 partecipanti segnalano la disponibilita’. F. clicca “Avvia la teleconferenza”. Pronto. Pronto. Pronto. Pronto. Pronto. Pronto. La riunione comincia puntuale: on-line, ognuno difronte al proprio computer, gratuitamente, su Skype. V. condivide con tutti i partecipanti lo schermo del proprio computer in cui e’ visibile il foglio Excel con il piano di lavoro. Poi tocca a K. mostrare a tutti le ultime modifiche apportate all’interfaccia grafica del sofware. La riunione e’ ormai decollata.
Alle 4 e mezza in Piazza Skype.
Questo il titolo dell’e-mail che ho utilizzato per promuovere le riunioni del gruppo di lavoro descritto. Dopo una lunga sessione in presenza presso la sede della nostra Fondazione ad Amsterdam, ho deciso che ci saremmo trovati in Piazza Skype tutti i giorni feriali per 4 settimane consecutive, per poi convenire nuovamente ad Amsterdam per il “debriefing” (analisi retrospettiva) del lavoro svolto e la programmazione dei prossimi passi. Grazie ad affiliazioni con istituti di ricerca ed aziende in piu’ paesi, io e il secondo fondatore dell’iniziativa abbiamo messo insieme un gruppo di lavoro internazionale, per buona parte gia’ impegnato in altri progetti e ben poco intenzionato a lasciare il proprio paese per l’Olanda, per ragioni perlopiu' famigliari e personali. La nostra Fondazione ha sede in un business center localizzato dentro il meraviglioso Museo delle Carte Geografiche di Amsterdam. Naturalmente, affittiamo e paghiamo una sala di lavoro solo quando ci serve, per il resto provvede Skype. Naturalmente rimborsiamo il viaggi ai nostri collaboratori, ma per fortuna i voli intraeuropei non costano piu' come una volta. Naturalmente se lavorassimo tutti in uno stesso ufficio tutto il tempo saremmo piu' efficienti, ma come tutti dobbiamo fare di necessita' virtu'.
Ora che lo scrivo, la cosa mi sembra ancora piu’ incredibile.
In realta’, chi in un modo chi nell’altro, sono in tanti, tantissimi, milioni in tutto il mondo coloro che si stanno convertendo al tele-lavoro, diventando imprenditori di se’ stessi e gestendosi autonomamente molteplici progetti dal proprio computer portatile. Nei settori creativi e tecnologici in cui la materia prima e’ digitalizzata, si va affermando il trend per cui non e’ piu’ la persona che si sposta sul luogo di lavoro, bensi’ il lavoro che si sposta nei luoghi in cui la persona preferisce stare. (Ultimamente - ma non spargete la voce - mi e’ capitato di gestire un’importante telefonata di lavoro disteso su uno sdraio sulla terrazza di un appartamento di montagna, portatile appoggiato sulle ginocchia).
British Telecom offre incentivi ai propri dipendenti per lavorare da casa due giorni alla settimana, adempiendo al piano del governo inglese per combattere il traffico. Cisco Systems ha equipaggiato le proprie sedi in tutto il mondo con la tele-presenza: entri in una stanza, prendi posto e intorno al tavolo siedono gli altri partecipanti, ciascuno dentro a uno schermo in grandezza reale. La stessa Cisco sta per chiudere un’intera ala del proprio campus di Amsterdam: chi da casa, chi in viaggio dagli alberghi e prenotando sale in altre sedi, sembra che nessuno “vada piu’ in ufficio”, concetto superato visto che molti dipendenti considerano tale solamente il proprio computer portatile. Allo stesso modo, quando lavoro dal MIT a Boston, sono piu’ le volte in cui le riunioni progettuali con certi professori avvengono in teleconferenza piuttosto che in presenza: finche’ non glielo chiedi non sai mai dove sono, potrebbero essere a casa dietro l’angolo o all’aeroporto di Singapore.
Fino a qui la mia limitata esperienza.
Qualcuno potrebbe considerarla un presente moderno e affascinante, in cui le persone non sono piu’ schiave degli uffici e del pendolarismo; qualcun’altro la massima espressione di una societa’ individualizzata e atomizzata, fatta di persone che in fin dei conti passano la maggior parte del proprio tempo sole davanti al computer.
Credo che entrambi gli argomenti siano validi e veritieri, ma il punto per me non e’ schierarsi dall’una o dall’altra parte, ma piuttosto capire come ciascuno possa trovare la propria giusta via di mezzo. Che potrebbe essere quella di abbinare i due mondi, piuttosto che sostituire l’uno all’altro: lavorare con i propri colleghi in ufficio qualche giorno alla settimana, o settimana al mese, e lavorare da casa o in viaggio il resto del tempo (piu’ facile a dirsi che a farsi!). Sfruttare l’opportunita’ offerta dal nuovo mezzo tecnologico per trascorre piu’ tempo di qualita’, anziche’ meno tempo, con la propria famiglia e i propri amici (piu’ facile a dirsi che a farsi!).
Forse l’avvento di Internet e’ stato come regalare una Ferrari a chi aveva sempre guidato una FIAT. Si possono fare cose che prima si erano solo sognate, ma ci si puo’ anche schiantare molto piu’ facilmente. Con il tempo e l’esperienza mi auguro che tutti possano imparare nuovamente a guidare.
mercoledì 17 febbraio 2010
Normativa? No, grazie.
Rifletto su una certa diffidenza della societa’ moderna verso la pianificazione del proprio futuro attraverso divieti e normative. Prendo spunto da alcune recenti esperienze...
Lo scorso aprile sedevo al seminario su “Innovazione nei mercati globali”, organizzato dall’associazione SwissNext a Boston. In quell’occasione, nessuno dei partecipanti accennava a una possibile nuova normativa globale a tutela dell’ambiente e di migliori condizioni lavorative nei paesi piu’ poveri. Come descritto nel mio articolo su “Mercato comune, regole diverse” le multinazionali hanno la liberta’ di spostare le proprie sedi produttive in quei paesi in cui e’ lecito inquinare di piu’ e chiedere di piu' a una manodopera poco protetta.
Lo scorso dicembre partecipavo alla tavola rotonda su “Mobilita’ eco-sostenibile in montagna”, per il ciclo SWOMM, a Genova. In quell’occasione, venivano proposte molte soluzioni: un trenino ecologico per esplorare le valli al posto della propria automobile; una piu’ intelligente pianificazione della rete viaria; l’affitto di biciclette tecnologiche che vanno da sole. Nessuno dei partecipanti, eccetto me, ha posto la questione in termini di normativa: non si potrebbe bandire l’accesso ai centri di montagna ai veicoli che inquinano oltre un certo livello?
La scorsa settimana assistevo on-line ad alcune sessioni dello scorso World Economic Forum, tenutosi a fine gennaio a Davos. Ogni relatore proponeva la propria ricetta per uscire dalla coda lunga della crisi economica, rilanciare la crescita globale, evitare che crolli finanziari simili a quello del 2008 possano ripresentarsi in futuro. Seppure molti dibattiti siano in corso, nessun relatore tra quelli ascoltati proponeva una nuova normativa per tenere sotto controllo i mercati finanziari.
Regolarmente mi capita di sorvolare la pianura veneta in avvicinamento a Venezia Tessera. Tipicamente, proveniendo da nord, si sbuca dalla Valsugana sul Vicentino orientale, poi in discesa sulla citta’ di Padova, la bassa, Chioggia e finalmente in virata verso il Marco Polo.
Tante volte ammirata dall’alto, ma ancora non sono in grado di trovare una regolarita’ e delle forme ricorrenti in questa ampia sezione di Veneto centrale. Un esempio da manuale di “urban sprawl” o “citta’ diffusa”, in cui sono mancate le regole per la pianificazione urbana e del paesaggio. Ciascuno si e’ costruita la villetta, il residence o il capannone industriale dove ha voluto, forte di permessi erogati dalle singole micro-entita’ amministrative locali piuttosto che da un ente comune per la pianificazione del territorio.
In tutti i quattro casi descritti la riluttanza per la normativa porta a conseguenze negative, in particolare per “gli anelli deboli” del sistema. Nell’economia globale, a pagare sono l’ambiente e la qualita’ della vita della manodopera nei paesi piu’ poveri. Nei centri di montagna, a pagare e’ l’ambiente: probabilmente, a Cortina e Courmayeur la densita’ di SUV e’maggiore che in citta’.
Nella finanza globale, a pagare sono i governi nazionali, chiamati a salvare le banche anche con i soldi dei cittadini e delle imprese. Nella pianura veneta, a pagare e’ l’ambiente, cosi’ come il sistema dei trasporti messo a dura prova dall’urbanizzazione diffusa.
Certo, se le cose vanno cosi’ un motivo valido ci deve pur essere.
Molto probabilmente, sono le forze di generazione del denaro e del lavoro a fare la parte del leone. Nell’economia globale, i governi non vogliono mettere i bastoni tra le ruote alle multinazionali, portatrici di lavoro per i propri elettori cosi' come di tangenti. In montagna, gli albergatori non si inimicano i proprietari di SUV, clienti redditizi. Nella finanza globale, i governi dipendono dalle banche, fornitrici di risorse al sistema produttivo che a sua volta crea posti di lavoro e introiti fiscali. In Veneto, gli amministratori locali non vogliono rinunciare agli introiti collegati ai permessi di costruzione e all’edilizia.
Il problema, pero', potrebbe risiedere ancora piu’ a monte.
Coloro che sono chiamati a introdurre nuove regole potrebbero non vedere ne’ le alternative ne’ le vie di mezzo, per la mancanza di strumenti e conoscenza, nonche' di coraggio nella sperimentazione. Chi l’ha detto che nuove norme economiche e finanziarie globali - cosi’ come divieti alla circolazione di automobili in montagna e costruzione di edifici in pianura - debbano necessariamente essere di freno alle attivita’ economiche? Chi l’ha detto che i SUV non possano essere lasciati nei parcheggi degli hotel, e un sistema intelligente di navette non possa trasportare i vacanzieri dove vogliono arrivare?
Sul lungo periodo la tutela dell’ambiente e del territorio e’ destinata a pagare, dal momento che generera’ piu’ qualita’ della vita, piu’ attrattivita’ verso le imprese piu’ avanzate, piu’ turismo, minori problemi di mobilita’. In materia, i nostri vicini di Austria, Germania e nord Europa fanno scuola nel mondo.
Sembra pero’ che l’ottica predominante sia poco lungimirante: fin che si puo’, continuiamo cosi. Perche’ mi dovrei interessare al futuro della pianura veneta se i miei elettori risiedono solo nel mio comune e le prossime elezioni saranno tra meno di 5 anni? Perche’ dovrei promuovere nuove normative per l’economia e la finanza globale, sei i miei elettori mi chiedono solo creazione di posti di lavoro e i miei azionisti mi chiedono solo di aumentare il fatturato?
Difficile evitare “the tragedy of commons”, la tragedia dello spazio comune in cui l’arricchimento dei singoli impoverisce la collettivita’ a cui appartengono. In occidente abbiamo a cuore la liberta' individuale, non le norme e i divieti, ma a volte non ci rendiamo conto di quanto qualche liberta' possa limitare il bene comune. Forse l’unica soluzione, un po’ cinese, e’ quella “dell’uno per tutti, tutti per uno”, in cui si ribilancia un sistema predisposto all’anarchia delle tante piccole decisioni. In Veneto si parla di citta’ metropolitana, in Europa di comunita’ europea, nel mondo di governance globale: si riconosce l’esigenza di accorpare i livelli decisionali, ma spesso vengono a mancare il coraggio e la fiducia per il grande salto.
Diceva Churchill: “La democrazia e’ la peggiore forma di governo, eccetto per tutte le altre forme che si sono sperimentate”. Credo che fino a quando non ci convinceremo del contrario la democrazia sia condannata a rimanere tale.
Lo scorso aprile sedevo al seminario su “Innovazione nei mercati globali”, organizzato dall’associazione SwissNext a Boston. In quell’occasione, nessuno dei partecipanti accennava a una possibile nuova normativa globale a tutela dell’ambiente e di migliori condizioni lavorative nei paesi piu’ poveri. Come descritto nel mio articolo su “Mercato comune, regole diverse” le multinazionali hanno la liberta’ di spostare le proprie sedi produttive in quei paesi in cui e’ lecito inquinare di piu’ e chiedere di piu' a una manodopera poco protetta.
Lo scorso dicembre partecipavo alla tavola rotonda su “Mobilita’ eco-sostenibile in montagna”, per il ciclo SWOMM, a Genova. In quell’occasione, venivano proposte molte soluzioni: un trenino ecologico per esplorare le valli al posto della propria automobile; una piu’ intelligente pianificazione della rete viaria; l’affitto di biciclette tecnologiche che vanno da sole. Nessuno dei partecipanti, eccetto me, ha posto la questione in termini di normativa: non si potrebbe bandire l’accesso ai centri di montagna ai veicoli che inquinano oltre un certo livello?
La scorsa settimana assistevo on-line ad alcune sessioni dello scorso World Economic Forum, tenutosi a fine gennaio a Davos. Ogni relatore proponeva la propria ricetta per uscire dalla coda lunga della crisi economica, rilanciare la crescita globale, evitare che crolli finanziari simili a quello del 2008 possano ripresentarsi in futuro. Seppure molti dibattiti siano in corso, nessun relatore tra quelli ascoltati proponeva una nuova normativa per tenere sotto controllo i mercati finanziari.
Regolarmente mi capita di sorvolare la pianura veneta in avvicinamento a Venezia Tessera. Tipicamente, proveniendo da nord, si sbuca dalla Valsugana sul Vicentino orientale, poi in discesa sulla citta’ di Padova, la bassa, Chioggia e finalmente in virata verso il Marco Polo.
Tante volte ammirata dall’alto, ma ancora non sono in grado di trovare una regolarita’ e delle forme ricorrenti in questa ampia sezione di Veneto centrale. Un esempio da manuale di “urban sprawl” o “citta’ diffusa”, in cui sono mancate le regole per la pianificazione urbana e del paesaggio. Ciascuno si e’ costruita la villetta, il residence o il capannone industriale dove ha voluto, forte di permessi erogati dalle singole micro-entita’ amministrative locali piuttosto che da un ente comune per la pianificazione del territorio.
In tutti i quattro casi descritti la riluttanza per la normativa porta a conseguenze negative, in particolare per “gli anelli deboli” del sistema. Nell’economia globale, a pagare sono l’ambiente e la qualita’ della vita della manodopera nei paesi piu’ poveri. Nei centri di montagna, a pagare e’ l’ambiente: probabilmente, a Cortina e Courmayeur la densita’ di SUV e’maggiore che in citta’.
Nella finanza globale, a pagare sono i governi nazionali, chiamati a salvare le banche anche con i soldi dei cittadini e delle imprese. Nella pianura veneta, a pagare e’ l’ambiente, cosi’ come il sistema dei trasporti messo a dura prova dall’urbanizzazione diffusa.
Certo, se le cose vanno cosi’ un motivo valido ci deve pur essere.
Molto probabilmente, sono le forze di generazione del denaro e del lavoro a fare la parte del leone. Nell’economia globale, i governi non vogliono mettere i bastoni tra le ruote alle multinazionali, portatrici di lavoro per i propri elettori cosi' come di tangenti. In montagna, gli albergatori non si inimicano i proprietari di SUV, clienti redditizi. Nella finanza globale, i governi dipendono dalle banche, fornitrici di risorse al sistema produttivo che a sua volta crea posti di lavoro e introiti fiscali. In Veneto, gli amministratori locali non vogliono rinunciare agli introiti collegati ai permessi di costruzione e all’edilizia.
Il problema, pero', potrebbe risiedere ancora piu’ a monte.
Coloro che sono chiamati a introdurre nuove regole potrebbero non vedere ne’ le alternative ne’ le vie di mezzo, per la mancanza di strumenti e conoscenza, nonche' di coraggio nella sperimentazione. Chi l’ha detto che nuove norme economiche e finanziarie globali - cosi’ come divieti alla circolazione di automobili in montagna e costruzione di edifici in pianura - debbano necessariamente essere di freno alle attivita’ economiche? Chi l’ha detto che i SUV non possano essere lasciati nei parcheggi degli hotel, e un sistema intelligente di navette non possa trasportare i vacanzieri dove vogliono arrivare?
Sul lungo periodo la tutela dell’ambiente e del territorio e’ destinata a pagare, dal momento che generera’ piu’ qualita’ della vita, piu’ attrattivita’ verso le imprese piu’ avanzate, piu’ turismo, minori problemi di mobilita’. In materia, i nostri vicini di Austria, Germania e nord Europa fanno scuola nel mondo.
Sembra pero’ che l’ottica predominante sia poco lungimirante: fin che si puo’, continuiamo cosi. Perche’ mi dovrei interessare al futuro della pianura veneta se i miei elettori risiedono solo nel mio comune e le prossime elezioni saranno tra meno di 5 anni? Perche’ dovrei promuovere nuove normative per l’economia e la finanza globale, sei i miei elettori mi chiedono solo creazione di posti di lavoro e i miei azionisti mi chiedono solo di aumentare il fatturato?
Difficile evitare “the tragedy of commons”, la tragedia dello spazio comune in cui l’arricchimento dei singoli impoverisce la collettivita’ a cui appartengono. In occidente abbiamo a cuore la liberta' individuale, non le norme e i divieti, ma a volte non ci rendiamo conto di quanto qualche liberta' possa limitare il bene comune. Forse l’unica soluzione, un po’ cinese, e’ quella “dell’uno per tutti, tutti per uno”, in cui si ribilancia un sistema predisposto all’anarchia delle tante piccole decisioni. In Veneto si parla di citta’ metropolitana, in Europa di comunita’ europea, nel mondo di governance globale: si riconosce l’esigenza di accorpare i livelli decisionali, ma spesso vengono a mancare il coraggio e la fiducia per il grande salto.
Diceva Churchill: “La democrazia e’ la peggiore forma di governo, eccetto per tutte le altre forme che si sono sperimentate”. Credo che fino a quando non ci convinceremo del contrario la democrazia sia condannata a rimanere tale.
domenica 7 febbraio 2010
Un brusco atterraggio
The hard landing, il brusco atterraggio.
Mi viene in mente questa pregnante metafora quando penso al ciclo attuale del governo Obama. Passata la lunga fase di idealismo e messaggio universale raccolto con entusiasmo in tutto il mondo, chi volava alto si ritrova improvvisamente con le alti schiacciate per terra. Ed e' probabilmente disorientato sulle nuove posizioni da adottare.
I recenti sviluppi nel rapporto USA-Cina in qualche modo riassumono bene tale parabola. Tutto comincia quando Barack Obama conduce la sua prima visita di stato a Pechino: proclama parita’ nella relazione e rispetto reciproco. Tali posizioni, mantenute in altre visite nel mondo, gli frutteranno il premio Nobel per la pace.
Poi arrivano la minaccia nucleare in Iran e il summit mondiale sul clima. In entrambi i casi, la Cina non coopera: rifiutandosi di condannare l’operato di Teheran e giocando al ribasso sull’accordo di Copenhagen. Il canale di fiducia aperto da Obama non e’ stato corrisposto. E adesso che cosa si fa?
L’altro giorno apprendo che l’amministrazione Obama approva la vendita di una partita di armi a Taiwan, per un valore di 6 miliardi di dollari. Uno smacco cocente per la Cina, che sta gia’ preparando le contromosse.
Quello che osservo e’ che Obama parte con le alte intenzioni, mai poi sembra incappare in basse strategie. Storia simile in Afghanistan: chi poteva immaginarsi che la stessa persona che ha rivoluzionato il linguaggio della politica nel segno della speranza, potesse approvare la spedizione in Afghanistan di ulteriori 30.000 soldati, molti dei quali non torneranno piu’ a casa?
Certo, le cose potrebbero essere piu’ complicate di quello che sembrano. E’ rischioso speculare sulle intenzioni personali senza conoscerne tutti i retroscena: tanti fattori potrebbero entrare in gioco nelle scelte di un capo di stato, dalla convenienza politica alla sudditanza verso le lobby, dall’essersi montato la testa a chissa’ quali altri ragioni a noi oscure. Resta pero’ il fatto che il recente operato di Obama sembra incarnare il fallimento del suo idealismo iniziale.
In un recente discorso pubblico in occasione della cerimonia pubblica del commencement (consegna delle lauree), Susan Hockfield, presidente del Massachusetts Institute of Technology, afferma che la missione del MIT e’ quella di fare dei propri studenti dei “pragmatic idealists”, degli idealisti pragmatici. Che cosa intende dire?
Avendo trascorso molti anni al MIT, credo di coglierne il significato: un idealista pragmatico e’ colui che non solo persegue i propri ideali, ma che riesce a trovare delle forme inedite per metterli in pratica. Strumento principe dell’idealista pragmatico e’ l’inventiva: in fin dei conti se l’ideale e’ ancora tale, vuol dire che non si e' ancora trovato il modo per trasformarlo in realta’. Servono fantasia ed idee per costruire nuovi mondi possibili.
Quanta fantasia c’e’ nella decisione di Obama di “sgridare” la Cina vendendo armi a Taiwan? A me sembra una mossa piuttosto ovvia. In un mondo globale in cui la rete di relazioni economiche e politiche tra paesi e’ sempre piu’ estesa ed intricata, con piu' inventiva si sarebbero forse trovate altre soluzioni. (sono idealista? lasciatemi pensare, sono sicuro che prima o poi un’idea mi verra’...)
Analisi a parte, credo che il nuovo linguaggio portato da Obama rimanga un regalo prezioso all’umanita’. Forse si tratta della restituzione di un idealismo in sintonia con il mondo del ventunesimo secolo, anche a dispetto delle ragioni di Hillary Clinton secondo cui Obama mancava di esperienza per governare. Nessuno ci impedisce di sperare che, in un futuro, pragmatismo ed idealismo, fantasia e concretezza, non possano trovare maggiore conciliazione.
Mi viene in mente questa pregnante metafora quando penso al ciclo attuale del governo Obama. Passata la lunga fase di idealismo e messaggio universale raccolto con entusiasmo in tutto il mondo, chi volava alto si ritrova improvvisamente con le alti schiacciate per terra. Ed e' probabilmente disorientato sulle nuove posizioni da adottare.
I recenti sviluppi nel rapporto USA-Cina in qualche modo riassumono bene tale parabola. Tutto comincia quando Barack Obama conduce la sua prima visita di stato a Pechino: proclama parita’ nella relazione e rispetto reciproco. Tali posizioni, mantenute in altre visite nel mondo, gli frutteranno il premio Nobel per la pace.
Poi arrivano la minaccia nucleare in Iran e il summit mondiale sul clima. In entrambi i casi, la Cina non coopera: rifiutandosi di condannare l’operato di Teheran e giocando al ribasso sull’accordo di Copenhagen. Il canale di fiducia aperto da Obama non e’ stato corrisposto. E adesso che cosa si fa?
L’altro giorno apprendo che l’amministrazione Obama approva la vendita di una partita di armi a Taiwan, per un valore di 6 miliardi di dollari. Uno smacco cocente per la Cina, che sta gia’ preparando le contromosse.
Quello che osservo e’ che Obama parte con le alte intenzioni, mai poi sembra incappare in basse strategie. Storia simile in Afghanistan: chi poteva immaginarsi che la stessa persona che ha rivoluzionato il linguaggio della politica nel segno della speranza, potesse approvare la spedizione in Afghanistan di ulteriori 30.000 soldati, molti dei quali non torneranno piu’ a casa?
Certo, le cose potrebbero essere piu’ complicate di quello che sembrano. E’ rischioso speculare sulle intenzioni personali senza conoscerne tutti i retroscena: tanti fattori potrebbero entrare in gioco nelle scelte di un capo di stato, dalla convenienza politica alla sudditanza verso le lobby, dall’essersi montato la testa a chissa’ quali altri ragioni a noi oscure. Resta pero’ il fatto che il recente operato di Obama sembra incarnare il fallimento del suo idealismo iniziale.
In un recente discorso pubblico in occasione della cerimonia pubblica del commencement (consegna delle lauree), Susan Hockfield, presidente del Massachusetts Institute of Technology, afferma che la missione del MIT e’ quella di fare dei propri studenti dei “pragmatic idealists”, degli idealisti pragmatici. Che cosa intende dire?
Avendo trascorso molti anni al MIT, credo di coglierne il significato: un idealista pragmatico e’ colui che non solo persegue i propri ideali, ma che riesce a trovare delle forme inedite per metterli in pratica. Strumento principe dell’idealista pragmatico e’ l’inventiva: in fin dei conti se l’ideale e’ ancora tale, vuol dire che non si e' ancora trovato il modo per trasformarlo in realta’. Servono fantasia ed idee per costruire nuovi mondi possibili.
Quanta fantasia c’e’ nella decisione di Obama di “sgridare” la Cina vendendo armi a Taiwan? A me sembra una mossa piuttosto ovvia. In un mondo globale in cui la rete di relazioni economiche e politiche tra paesi e’ sempre piu’ estesa ed intricata, con piu' inventiva si sarebbero forse trovate altre soluzioni. (sono idealista? lasciatemi pensare, sono sicuro che prima o poi un’idea mi verra’...)
Analisi a parte, credo che il nuovo linguaggio portato da Obama rimanga un regalo prezioso all’umanita’. Forse si tratta della restituzione di un idealismo in sintonia con il mondo del ventunesimo secolo, anche a dispetto delle ragioni di Hillary Clinton secondo cui Obama mancava di esperienza per governare. Nessuno ci impedisce di sperare che, in un futuro, pragmatismo ed idealismo, fantasia e concretezza, non possano trovare maggiore conciliazione.
mercoledì 20 gennaio 2010
La difficile ricerca della certezza
Padova. Una madre, un padre e un figlio di 20 giorni.
Ti svegli di notte, il piccolo ha la febbre, sale a 39, nell’incertezza corri all’ospedale. Diagnosi: trovata quantita’ ridotta di batteri Escherichia Coli, probabile infezione delle vie urinarie, ma non si possono escludere problemi renali piu’ gravi. Azione: immediata ospedalizzazione, della durata di una settimana, per piccolo e madre; cura antibiotica di 6 mesi al piccolo, per mantenere condizioni necessarie affinche’ un esame renale successivo vada a buon fine. L’esame avra' esito negativo. Il padre sono io.
Padova. Una madre, un padre e un figlio di 1 anno e 20 giorni.
Dolori persistenti alla bocca dello stomaco per la madre, dopo i pasti serali e di notte. Chiami l’ospedale. Diagnosi telefonica: potrebbero essere molte cose. Azione: facciamo tutti gli esami possibili per verificare le condizioni dell’area corporea in questione; facciamo anche un’ecografia e una gastroscopia, non si sa mai.
Siamo in attesa degli esiti. Il padre sono sempre io. Vi sto raccontando la mia limitata recente esperienza con il mondo ospedaliero in Italia.
Qui reparto: nell’incertezza, pregasi fare tutto il possibile.
Lente di ingrandimento sulla parte dolorante, meno interesse verso quello che vi sta intorno: interdipendenze con altri organi, con la psiche, con la storia del paziente. Pubblicazioni scientifiche alla mano, la diagnosi medica si appoggia su un calcolo delle probabilita’ e lo 0.001% non puo’ escludere un’eventualita’ negativa. E’ necessario controllare, anche se il paziente ricade appena al di fuori del campione a rischio.
Il fine giustifica i mezzi. I problemi creati al paziente passano in secondo piano rispetto alla missione medica: l’investimento psicologico, di tempo e di denaro per i tanti esami e cure; le spese per i farmaci e i loro effetti indesiderati; la possibile rottura di delicati equilibri famigliari e sociali importanti per il benessere della persona.
Credo che rispetto ed ammirazione per le meraviglie della medicina nei paesi avanzati sia un atto dovuto di gratitudine verso chi si e’ preso carico di una responsabilita’ tanto importante come la salute delle persone. In questo contesto, pero’, mi interessa capirne di piu’ rispetto a un approccio medico che sembra ansioso e preventivo, nonche’ “riduzionistico” sui valori fuori norma piuttosto che “olistico” sulla situazione della persona. Un metodo giustificato e che contribuisce a salvare molte vite, ma che forse si puo’ integrare con altri ed essere reso un po’ meno dogmatico. Un approccio che probabilmente contraddistingue altri paesi avanzati (come gli USA, dove ho un’esperienza simile), ma non tutti. Mi si racconta che in Olanda, la filosofia di fondo della missione medica e’ quella del non-intervento, fino a quanto questo non diventi assolutamente necessario.
Un ordine di ragioni che sembra favorire l’approccio interventista e' di natura finanziaria: piu’ esami, operazioni e medicinali si prescrivono, piu’ aumentano gli incassi degli ospedali, dei medici e delle aziende farmaceutiche. Un altro e’ legale: meglio fare tutto il possibile per evitare che qualcosa vada storto e finire per essere denunciati.
Per mia formazione, mi interessa pero’ approfondire il ruolo giocato dall’analisi scientifica e dal buon senso ruolo in campo medico. Mi chiedo: quanto buon senso c’e’ quando si prescrivono 6 mesi di terapia antibiotica a un neonato di 20 giorni vittima di una febbre di qualche ora?
Ben intesi, di buon senso ce ne potrebbe essere poco, ma la terapia potrebbe essere comunque assolutamente necessaria. La domanda, pero’, resta.
Per iniziare a cercare una risposta, credo occorra fare un passo indietro e comprendere come vengono effettuati gli studi scientifici sulle malattie, quelli che consentono di associare i sintomi del paziente a delle cause. La mia limitata esperienza di ricercatore nelle scienze sociali mi ha insegnato che la determinazione di cause ed effetti e’ dei piu’ grandi grattacapi della scienza, anche e soprattutto perche’ il piu’ delle volte non vengono considerati e misurati tutti i fattori che concorrono al problema.
La mia esperienza con le regressioni - statistiche che misurano la correlazione tra fenomeni osservati su piu’ soggetti - e’ stata disarmante: il risultato iniziale mi diceva che il fattore X era causa “statisticamente significativa” del mio fenomeno; non appena pero’ inserivo nuovi potenziali fattori esplicativi nell'analisi, il nuovo risultato mi diceva che il fattore X era scomparso dall'essere causa statisticamente significativa!
Quello che spiega un fenomeno e' quindi "spiegabile" attraverso altre variabili che magari il ricercatore non arrivera' mai ad individuare e a misurare. Disarma non solo il rischio di prendere fischi per fiaschi, quanto il rendersi conto che una causa apparente possa dipendere da altre cause invisibili piu’ a monte. Crediamo che il problema stia in una certa cosa e per certi versi abbiamo ragione; il punto e’ quella cosa e’ il frutto dell'interdipendenza con altre, che potrebbero presentarsi diversamente da soggetto a soggetto.
Per questo motivo il medico di Harvard Atul Gawande afferma che ogni manifestazione di malattia e’ unica, e come tale va trattata per i sintomi che manifesta nel soggetto. Perche’ un paziente non sara’ mai identico a un altro. Ed e' li’ che interviene il buon senso, a mio avviso, insieme all’intelligenza e alla sensibilita’ umane: ad allargare gli orizzonti. A dirci che le cose, forse, non sono cosi' lineari come potremmo pensare.
La complessita’ e’ talmente grande che i risultati pubblicati nelle riviste scientifiche non bastano: il medico dovra’ raccogliere nuove informazioni e attingere a nuovi canali per analizzare la situazione e per sintetizzarla. Non posso saperlo, ma immagino che questo processo raggiunga il suo culmine nel corso delle operazioni chirurgiche piu' complesse...
Per concludere, sembra che la societa’ moderna, come il metodo scientifico, non possa tollerare l’incertezza e faccia di tutto per annullarla. Dopo il mancato attentato sul volo Amsterdam-Detroit, i paesi occidentali hanno adottato norme piu’ restrittive per l’accesso ai voli, comprensive di scanner corporeo completo. A fronte del rischio un 1 aereo esploso su milioni e milioni in volo, l’umanita’ si autoinfligge un danno economico (perdita di tempo) e psicologico (perdita di privacy, fatica) dalle dimensioni gigantesche. Si puo’ approvare o meno, ma questa misura preventiva sicuramente colpisce.
Credo che la tenace salvaguardia di ogni vita umana, si trovi essa in un lettino di ospedale o in un sedile d’aereo, possa essere salutata come conquista e faccia onore all'uomo. Il problema e’ che la complessita’ del mondo e’ tale in confronto alla capacita’ conoscitiva dell’uomo e dei computer, che l’incertezza, probabilmente, non cessera’ mai di esistere. Accettarla, rinunciando ai dogmatismi, e’ forse il primo passo per farvi fronte.
Ti svegli di notte, il piccolo ha la febbre, sale a 39, nell’incertezza corri all’ospedale. Diagnosi: trovata quantita’ ridotta di batteri Escherichia Coli, probabile infezione delle vie urinarie, ma non si possono escludere problemi renali piu’ gravi. Azione: immediata ospedalizzazione, della durata di una settimana, per piccolo e madre; cura antibiotica di 6 mesi al piccolo, per mantenere condizioni necessarie affinche’ un esame renale successivo vada a buon fine. L’esame avra' esito negativo. Il padre sono io.
Padova. Una madre, un padre e un figlio di 1 anno e 20 giorni.
Dolori persistenti alla bocca dello stomaco per la madre, dopo i pasti serali e di notte. Chiami l’ospedale. Diagnosi telefonica: potrebbero essere molte cose. Azione: facciamo tutti gli esami possibili per verificare le condizioni dell’area corporea in questione; facciamo anche un’ecografia e una gastroscopia, non si sa mai.
Siamo in attesa degli esiti. Il padre sono sempre io. Vi sto raccontando la mia limitata recente esperienza con il mondo ospedaliero in Italia.
Qui reparto: nell’incertezza, pregasi fare tutto il possibile.
Lente di ingrandimento sulla parte dolorante, meno interesse verso quello che vi sta intorno: interdipendenze con altri organi, con la psiche, con la storia del paziente. Pubblicazioni scientifiche alla mano, la diagnosi medica si appoggia su un calcolo delle probabilita’ e lo 0.001% non puo’ escludere un’eventualita’ negativa. E’ necessario controllare, anche se il paziente ricade appena al di fuori del campione a rischio.
Il fine giustifica i mezzi. I problemi creati al paziente passano in secondo piano rispetto alla missione medica: l’investimento psicologico, di tempo e di denaro per i tanti esami e cure; le spese per i farmaci e i loro effetti indesiderati; la possibile rottura di delicati equilibri famigliari e sociali importanti per il benessere della persona.
Credo che rispetto ed ammirazione per le meraviglie della medicina nei paesi avanzati sia un atto dovuto di gratitudine verso chi si e’ preso carico di una responsabilita’ tanto importante come la salute delle persone. In questo contesto, pero’, mi interessa capirne di piu’ rispetto a un approccio medico che sembra ansioso e preventivo, nonche’ “riduzionistico” sui valori fuori norma piuttosto che “olistico” sulla situazione della persona. Un metodo giustificato e che contribuisce a salvare molte vite, ma che forse si puo’ integrare con altri ed essere reso un po’ meno dogmatico. Un approccio che probabilmente contraddistingue altri paesi avanzati (come gli USA, dove ho un’esperienza simile), ma non tutti. Mi si racconta che in Olanda, la filosofia di fondo della missione medica e’ quella del non-intervento, fino a quanto questo non diventi assolutamente necessario.
Un ordine di ragioni che sembra favorire l’approccio interventista e' di natura finanziaria: piu’ esami, operazioni e medicinali si prescrivono, piu’ aumentano gli incassi degli ospedali, dei medici e delle aziende farmaceutiche. Un altro e’ legale: meglio fare tutto il possibile per evitare che qualcosa vada storto e finire per essere denunciati.
Per mia formazione, mi interessa pero’ approfondire il ruolo giocato dall’analisi scientifica e dal buon senso ruolo in campo medico. Mi chiedo: quanto buon senso c’e’ quando si prescrivono 6 mesi di terapia antibiotica a un neonato di 20 giorni vittima di una febbre di qualche ora?
Ben intesi, di buon senso ce ne potrebbe essere poco, ma la terapia potrebbe essere comunque assolutamente necessaria. La domanda, pero’, resta.
Per iniziare a cercare una risposta, credo occorra fare un passo indietro e comprendere come vengono effettuati gli studi scientifici sulle malattie, quelli che consentono di associare i sintomi del paziente a delle cause. La mia limitata esperienza di ricercatore nelle scienze sociali mi ha insegnato che la determinazione di cause ed effetti e’ dei piu’ grandi grattacapi della scienza, anche e soprattutto perche’ il piu’ delle volte non vengono considerati e misurati tutti i fattori che concorrono al problema.
La mia esperienza con le regressioni - statistiche che misurano la correlazione tra fenomeni osservati su piu’ soggetti - e’ stata disarmante: il risultato iniziale mi diceva che il fattore X era causa “statisticamente significativa” del mio fenomeno; non appena pero’ inserivo nuovi potenziali fattori esplicativi nell'analisi, il nuovo risultato mi diceva che il fattore X era scomparso dall'essere causa statisticamente significativa!
Quello che spiega un fenomeno e' quindi "spiegabile" attraverso altre variabili che magari il ricercatore non arrivera' mai ad individuare e a misurare. Disarma non solo il rischio di prendere fischi per fiaschi, quanto il rendersi conto che una causa apparente possa dipendere da altre cause invisibili piu’ a monte. Crediamo che il problema stia in una certa cosa e per certi versi abbiamo ragione; il punto e’ quella cosa e’ il frutto dell'interdipendenza con altre, che potrebbero presentarsi diversamente da soggetto a soggetto.
Per questo motivo il medico di Harvard Atul Gawande afferma che ogni manifestazione di malattia e’ unica, e come tale va trattata per i sintomi che manifesta nel soggetto. Perche’ un paziente non sara’ mai identico a un altro. Ed e' li’ che interviene il buon senso, a mio avviso, insieme all’intelligenza e alla sensibilita’ umane: ad allargare gli orizzonti. A dirci che le cose, forse, non sono cosi' lineari come potremmo pensare.
La complessita’ e’ talmente grande che i risultati pubblicati nelle riviste scientifiche non bastano: il medico dovra’ raccogliere nuove informazioni e attingere a nuovi canali per analizzare la situazione e per sintetizzarla. Non posso saperlo, ma immagino che questo processo raggiunga il suo culmine nel corso delle operazioni chirurgiche piu' complesse...
Per concludere, sembra che la societa’ moderna, come il metodo scientifico, non possa tollerare l’incertezza e faccia di tutto per annullarla. Dopo il mancato attentato sul volo Amsterdam-Detroit, i paesi occidentali hanno adottato norme piu’ restrittive per l’accesso ai voli, comprensive di scanner corporeo completo. A fronte del rischio un 1 aereo esploso su milioni e milioni in volo, l’umanita’ si autoinfligge un danno economico (perdita di tempo) e psicologico (perdita di privacy, fatica) dalle dimensioni gigantesche. Si puo’ approvare o meno, ma questa misura preventiva sicuramente colpisce.
Credo che la tenace salvaguardia di ogni vita umana, si trovi essa in un lettino di ospedale o in un sedile d’aereo, possa essere salutata come conquista e faccia onore all'uomo. Il problema e’ che la complessita’ del mondo e’ tale in confronto alla capacita’ conoscitiva dell’uomo e dei computer, che l’incertezza, probabilmente, non cessera’ mai di esistere. Accettarla, rinunciando ai dogmatismi, e’ forse il primo passo per farvi fronte.
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