sabato 19 dicembre 2009

Copenhagen mostra i suoi limiti: e adesso che si fa?

Ed e’ cosi’ che il summit di Copehagen tradi’ le aspettative e i bisogni del mondo. Sembra che l'accordo non preveda ne’ un tetto massimo di emissioni inquinanti, ne’ una data limite per raggiungere alcuni obiettivi, ne’ sanzioni che vincolino i paesi a rispettare gli impegni.

Cosa potevamo aspettarci da un consesso di 192 paesi che operano in regime di competizione economica tra loro? Forse e’ gia’ un risultato straordinario il fatto che cosi’ tanti capi di stato siano accorsi a Copenhagen, riconoscendo l’importanza del problema e la necessita’ di fare qualcosa, anche a scapito di limitare la competitivita' delle proprie aziende e la capacita’ di creare lavoro per le persone che rappresentano. In un certo senso, non e’ tanto colpa loro se non l'accordo non ci porta molto lontano, ma del sistema in cui si trovano ad operare.

Una cosa mi lascia perplesso: si parla dei paesi del mondo come suoi principali inquinatori, in primo luogo di USA e di Cina; a ben vedere, pero', non sono invece le industrie che vi operano e le persone che si avvalgono dei prodotti inquinanti? I responsabili fattuali dell’inquinamento globale sono l’industria automobilistica, quella energetica (specie per le centrali a carbone), quella degli impianti di riscaldamento e condizionamento, quella di produzione di legname attraverso deforestamento, quella delle compagnie aeree. Insieme a tutti noi che guidiamo l’automobile, ricarichiamo i nostri molteplici dispositivi elettronici, teniamo le luci accese, riscaldiamo e raffreddiamo i nostri appartamenti.
Quindi: perche’ al summit di Copenhagen dovrebbero essere protagonisti i capi di stato e non quelli delle multinazionali, delle Shell, General Electric, Wolkswagen ed ENEL di tutto il mondo?

La risposta piu’ ovvia e’ che sono i governi gli enti preposti a stabilire le regole del gioco per le multinazionali e per le imprese nazionalizzate, cosi' come per i propri elettori. La responsabilita’ ultima delle decisioni spetta a loro. Il problema e’ quello dell’impotenza dei governi rispetto alla volonta’ delle imprese e della societa’ civile: dipendono troppo da loro per schierarvisi contro; sono una loro emanazione e hanno un interesse costituito nella loro permanenza. Perche’ la Cina dovrebbe bandire le centrali a carbone e i SUV? Entrambe le industrie contribuiscono alla creazione di lavoro, agli introiti fiscali, alle tangenti che arricchiscono i politici stessi che dovrebbero limitarne la liberta’ d’azione.

Sembra non esserci via d’uscita.
Per un momento, immaginiamoci pero’ il consesso di Copehagen popolato dagli amministratori delegati di tutte le principali industrie del mondo. Normalmente, le imprese creano alleanze e cartelli per un tutelare i propri interessi e bloccare i cambiamenti a loro sfavorevoli. E se questi stessi cartelli venissero usati per promuovere un cambiamento favorevole al mondo?
Supponiamo che a Copehagen l’industria automobilistica decidesse che nessun produttore immettera’ piu’ in nessun mercato del mondo un veicolo che inquini oltre un certo livello. Tale decisione andrebbe a vantaggio di alcuni - quelli che non producono tali veicoli - e a svantaggio di altri - quelli che li producono -: potrebbe trovarsi un modo per cui chi ci guadagna compensa chi perde? Le aziende e i loro indotti destinate a fallire potrebbero essere rilevate da quelle destinate a prosperare: la dirigenza compensata con participazioni azionarie; gli operai e i lavoratori riassunti e riqualificati.
Fermi tutti: tale operazione non e’ forse cio’ che gia’ normalmente avviene nel mercato globale?
Recentemente, la Fiat in grado di produrre veicoli poco inquinanti ha rilevato parte dalla Chrysler, che immetteva sul mercato veicoli ad alti consumi che gli americani non compravano piu’ a sufficienza.

Piu’ che cambiare il mondo, si tratterebbe quindi di accelerare i processi per cui i “cattivi” attori sul mercato sopravvivono piu’ del dovuto. Il cambiamento necessario potrebbe essere implementato poco a poco: l’industria energetica potrebbe darsi l’obiettivo di smantellare e riconvertire le centrali a carbone entro un certo numero di anni, altrimenti l’economia cinese si troverebbe ferma dall’oggi al domani. La dirigenza politica cinese non accetterebbe di rinuciare al controllo diretto della sua industria? Adesso come adesso forse no, ma i trend della finanza globale - con l’avanzare di strumenti quali i “fondi sovrani” investiti direttamente dai governi nelle multinazionali - sembrano suggerire il contrario: se tutti ci guadagnano, perche’ no?

L’attuale strada di Copehagen - governi nazionali che tentano di contenere l’industria globale - ha dimostrato tutti i suoi limiti. Potrebbe valere la pena testare la strada contraria, con l’industria globale chiamata ad espandere le sue migliori pratiche verso tutti i mercati nazionali? Perche’ le principali catene di supermercati non potrebbero essere stesse porsi l’obiettivo per far sparire dagli scaffali di tutto il mondo le lampadine ad alto consumo energetico? I governi, nel frattempo, potrebbero pensare a far crescere la sensibilita’ della societa’ civile sul problema...

L’industrializzazione globale e’ all’origine dei cambiamenti climatici. Se non possiamo combatterla, forse potremmo spingerla a tirare fuori il meglio di se’, accelerando il successo della globalizzazione piu’ sostenibile e il fallimento di quella piu’ nociva. Invece di colpevolizzare i capitani d’industria, potremmo provare a trasferire loro piu’ responsabilita’, lasciando un’opportunita’ di riscatto. Potremmo elevare anche loro a “governo del mondo”, esplicitamente e sotto i riflettori, privando i politici di parte delle prime pagine dei giornali e del ruolo di capro espiatorio di problemi che non possono controllare.
Copenhagen ha dimostrato che le sfide globali sono troppo grandi per i governi nazionali: credo che la ricerca di ulteriori strade, senza pregiudizio, sia ora un imperativo di tutti.

giovedì 17 dicembre 2009

Copenhagen tornasole del mondo

Copenhagen, 17 dicembre 2009.
I leader stanno per arrivare, comincia il conto alla rovescia verso la conclusione di COP15, inedito summit sui cambiamenti climatici. Il mondo e’ in bilico, l’opportunita’ e’ unica per prendere decisioni in grado di riportare il pianeta su una rotta sostenibile.

Le tensioni negoziali dei giorni precedenti fanno presagire che l'evento potra' passare alla storia come “fallimento” piuttosto che come “successo”: le aspettative sono grandi, ma sembra un test fin troppo difficile per una tavola rotonda di 192 paesi chiamati ad essere tutti d’accordo sul da farsi.

Il punto piu’ delicato delle negoziazioni riguarda da una parte l’esborso di fondi per combattere il surriscaldamento globale, dall’altra il contenimento di quello sviluppo economico inquinante che continua a contribuirvi. Il problema e’ sorprendentemente chiaro:

- il clima sta cambiando anche per colpa delle attivita’ umane;
- il cambiamento del clima ha conseguenze devastanti, specialmente sui paesi del Sud del mondo che meno hanno contribuito a generarlo;
- e’ necessaria una rivoluzione tecnologica “verde”, insieme alla messa a punto di nuovi incentivi per inquinare meno, insieme al cambiamento comportamentale di tutti.

In misura diversa il problema riguarda tutti, ma il punto e’: chi si sacrifica per risolverlo?
Tutti guardano al paese leader del mondo, nonche’ principale inquinante: gli Stati Uniti. Il congresso sembra far chiare le proprie intenzioni ad Obama: “l’America non paghera’ soldi che finiranno all’estero”. Tale dichiarazione conferma al mondo l’egoismo degli USA, ma il momento non e’ dei piu’ propizi: sbancatasi per salvare le banche, l’amministrazione Obama e’ chiamata a contrastare l'alto tasso di disoccupazione sull’onda lunga del crollo finanziario del 2008.

Il congresso si preoccupa dell’opinione pubblica americana, prima ancora di quella mondiale, perche’ il suo futuro a fine legislatura dipendera’ dalla prima e non dalla seconda. Tale constatazione rivela una grande contraddizione del mondo odierno: siamo chiamati a risolvere dei problemi globali attraverso delle istituzioni - i governi - il cui fine e’ quello di tutelare gli interessi nazionali. Come uscire dall'impasse?

Si potrebbe rispondere: se gli interessi globali coincidessero con quelli nazionali, i governi si allineerebbero nell’affrontarli. Se gli USA avessero sufficientemente a cuore i cambiamenti climatici, si farebbero promotori di un accordo al rialzo. Compresibilmente, invece, l’amministrazione Obama da' la priorita' al problema del lavoro per tutti i cittadini americani.
E cosi’ fa anche l’amministrazione cinese. Una volta ancora la questione del lavoro sembra diventare discriminante, anche e soprattutto perche’ al giorno d’oggi una delle piu’ grandi paure dei governi nazionali e’ quella di perdere posti di lavoro a discapito dei paesi contro cui si ritrovano a competere economicamente. Penso alle recenti reazioni del governo tedesco all’annuncio che la multinazionale americana GM avrebbe potuto lasciare fallire la OPEL. Penso alle proteste operaie nei paesi piu' ricchi contro le delocalizzazioni nei paesi piu' poveri.

E se i fondi richiesti al summit di Copenhagen aiutassero a creare lavoro nei paesi che li sborsano? Potrebbero essere di sussidio alla creazione della "green economy" di casa propria, finendo nelle tasche degli istituti di ricerca e delle multinazionali esistenti e nasciture, i soli soggetti in grado di produrre soluzioni tecnologiche contro i cambiamenti climatici globali. In parte si potrebbero destinare ad azioni comunicative e educative volte a promuovere i cambiamenti comportamentali per inquinare meno, con conseguente creazione di lavoro in quei settori. Sono probabilmente queste le azioni piu’ facilmente approvabili a livello nazionale.
Tale modello non ci si allontanerebbe molto da quello gia’ utilizzato per combattere la poverta’ in Africa e nei paesi in via di sviluppo: io Stati Uniti ed Europa vi trasferisco dei fondi, anche a patto che voi con questi facciate lavorare le nostre organizzazioni ed aziende.

Il paradosso odierno e’ che c’e’ sempre meno garanzia che i datori di lavoro che recepiscono sussidi nazionali assumano delle persone di quella nazione per fare il lavoro. In un sistema in cui si compete globalmente, prevale la logica efficientistica e tecnocratica: si assumono coloro che sono in grado di portare a termine il lavoro nel miglior modo possibile, piu’ velocemente possibile e per meno soldi possibile. Quale probabilita’ c’e’ che questi super lavoratori si trovino a casa propria?
Ed e’ cosi’ che i governi vanno rassicurati due volte: la prima sul fatto che i fondi pubblici sborsati per le cause globali finiscano anche alle imprese nazionali; la seconda che tali imprese vadano effettivamente a impiegare i connazionali.

Probabilmente, l’unica via d’uscita e’ quella della creazione di un governo globale. Se chi crea e da’ lavoro opera a livello globale, perche’ il governo di queste dinamiche non dovrebbe essere tale? Forse piu’ di ogni altra cosa, il “teatrino” di Copenhagen ci racconta di una missione impossibile, quella di mettere d’accordo la bellezza di 192 paesi sul destino di 1 solo pianeta. La logica egostica su cui i paesi si fondati - prima gli interessi del paese poi quelli di tutti gli altri - non puo’ che palesarsi con sconcertante chiarezza.

Sara’ mai pronta l’umanita’ per il grande salto?
Il progressivo rafforzamento di istituzioni globali quali la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale ci fa pensare che un governo globale stia gia’ prendendo forma, ma probabilmente questi istituti sposano una politica e una filosofia economica che giocano troppo a favore delle nazioni piu’ forti.

Quello che forse manca di piu’ e’ una nuova filosofia al contempo globalistica e altruistica, una mentalita’ da “cittadino del mondo” per il quale gli interessi di tutti e del tutto contino quanto gli interessi propri. Alla domanda “chi si sacrifica?” dovremmo essere in tanti pronti ad offrirsi, gratificati dalla consapevolezza che il nostro sacrificio fara’ il bene del mondo e forse anche di noi stessi. Cosi' i potenti del mondo, come tutti i loro elettori nella vita di tutti i giorni.

Se serve una rivoluzione, credo che questa debba partire da dentro di noi. E la forza della nuova cultura dovra’ essere tale da riuscire a trovare l’accordo di tutti.


Sull'importanza della questione del lavoro, confronta in questo blog l'articolo su "Fine del lavoro".
Su quella del governo globale, confronta l'articolo "Mercato comune. Regole diverse"

giovedì 3 dicembre 2009

Complessita': che fare?

Obama finalmente delibera: 30.000 soldati per vincere la guerra in Afghanistan. Michael Ware, inviato della CNN a Kabul, commenta la notizia con un mezzo sorriso sulla bocca: l’invio di nuovo soldati puo’ essere utile, ma e’ lontano dall’essere sufficiente per risolvere i problemi dell’Afghanistan. Michael si scalda, il suo e’ un approccio da “frontline”, giornalista al fronte disilluso che comprende la complessita’ della situazione perche’ ci vive dentro.

L’Afghanistan e’ indirettamente anche il terreno della grande battaglia tra India e Pakistan, che supportano fazioni rivali. L’Afghanistan e’ obiettivo di egemonia economica e culturale dell’Iran. Con grande lucidita’, Ware ci persuade ad ampliare il punto di vista prima di pensare alle possibili soluzioni. Si smarca dalla corrente dominante nei media che vuole opinionisti e pubblico schierati a favore o contro la guerra, come se il miglioramento della situazione potesse solo dipendere da questa. L'Afghanistan e' un problema complesso e richiede una strategia interdisciplinare, a molteplici livelli.

Complessita’ e interdisciplinarita’.
Due concetti tanto importanti quanto forse abusati nel giornalismo contemporaneo, cosi’ come nella letteratura scientifica. Due chiavi di volta per comprendere il mondo di oggi. Da ricercatore nelle scienze sociali, ho posto grande attenzione a entrambi. Definirei "complessita’" il fatto che le determinanti di un problema sono normalmente molte piu’ di quanto ci possiamo immaginare, e il risultato della loro combinazione non e’ necessariamente la somma delle parti. "Interdisciplinarita’" il bisogno di mettere in gioco diverse prospettive e discipline per la comprensione del problema complesso, sia nel suo merito tecnico che nel suo ruolo sistemico.

Crediamo che le cose siano semplici?
Prendiamo una questione apparentemente meno sofisticata della guerra in Afghanistan, quella del lancio di un nuovo modello di blue jeans sul mercato globale. L’azienda produttrice dovra’ considerare che un paio di jeans al contempo sono: un insieme di tessuti e materiali; un oggetto di moda; il risultato di un processo industriale manifatturiero; un prodotto su uno scaffale con un prezzo; un capo di abbigliamento per pubblici diversi, e via di questo passo. Piu’ tale merito tecnico viene approfondito in modo coordinato dagli esperti disciplinari, maggiori saranno le chances di successo. Ed e’ cosi’ che la Levi's del caso si avvale di scienziati dei materiali, designer, esperti di logistica e controllo di gestione, esperti di marketing, e cosi’ via.

Sara’ sufficiente tale interdisciplinarita’ a fare del nuovo prodotto un successo?
Non necessariamente, il lancio di un nuovo modello di blue jeans resta una questione piu’ complessa... Dipendera’ anche infatti dall’abbinabilita’ di quel pantalone con altri capi di abbigliamento; dalle fluttuazioni del cambio Euro-Dollaro che renderanno quel prodotto piu’ o meno economico in certi paesi; dalle mode emergenti a livelli globale e dalle strategie della concorrenza; dalla capacita’ di spesa dei clienti, che verra’ a sua volta influenzata da variabili macroeconomiche come l’espansione o contrazione dei salari, e via di questo passo.
Il “sistema mondo” in continua evoluzione rende l'operazione una scommessa ancora piu’ grande di quanto essa gia’ sia...

Ho l’impressione che se da un lato la complessita’ e l’interdisciplinarita’ tecnica vengano sempre piu’ comprese e gestite, dall’altro la complessita’ e l’interdisciplinarita’ sistemica restino questioni ancora spesso sottovalutate.
Paradossalmente, questo potrebbe essere piu’ vero nelle nazioni anglosassoni piu’ avanzate del mondo, dove la forma mentis e’ dominata un approccio scientifico e tecnico che alcuni non a caso definiscono “riduzionista” della complessita’. Una ragione di ordine pragmatico c’e’: le dinamiche sistemiche o “di ordine superiore” sono meno facilmente individuabili e controllabili di quelle tecniche, quindi...in definitiva...why caring? Perche’ preoccuparsene se comunque non ci si puo’ fare molto?

Una tale conclusione potrebbe essere quantomai rischiosa. Torniamo in Afghanistan...
Sul tavolo di Obama saranno sicuramente arrivati numerosi rapporti tecnici sulla complessita’ della guerra in Afghanistan e sull’esigenza di un strategia interdisciplinare: le caratteristiche del nemico e del territorio; il dispiego dei soldati e delle armi; le diverse tattiche adottabili; la tenuta psicologica dei soldati, e cosi’ via. Auspicabilmente, sono anche arrivati alcuni rapporti sistemici: il ruolo della guerra sullo scacchiere geo-politico mondiale; gli interessi di Iran, India e Iran; le conseguenze della guerra sull’economia mondiale; le implicazioni sull’elettorato americano e sull’immagine di Obama nel mondo.

Nutrendo forti speranze in Obama, non posso che augurarmi che la scelta di dislocare 30.000 nuovi soldati sia giustificata da un ragionamento strategico che contempli l’evoluzione di tutte le variabili. Resta sempre il dubbio che forse Obama avesse potuto fare a meno di immischiarsi con tutta questa complessita’ e fare una scelta etica contro la guerra, scelta che avrebbe a sua volta avuto ripercussioni sistemiche...

Insomma, e’ un bel casino.
Paradossalmente, piu’ il mondo si fa complesso, piu’ i “quick fix”, le soluzioni tecniche rapide all’americana potrebbero trovare adito. Se tanto le ripercussioni sono imprevedibili, meglio perlomeno agire e lanciare un messaggio inequivocabile, no?
Mi auguro che sempre piu' giornalisti, scienziati e consulenti possano distanziarsi da tale approccio univoco: per comprendere il mondo di oggi occorre uno sforzo supplementare di sintesi della complessita’.

Ma anche con le migliori analisi sul tavolo, c'e' forse da augurarsi che i potenti del mondo mettano in gioco anche il proprio cuore al momento di prendere le decisioni piu' importanti.
Forse un mondo con piu' etica e piu' umanita' sarebbe anche un mondo piu' semplice.

Un mio articolo su questi temi verra' pubblicato in un libro di prossima uscita intitolato "Visions of Transdisciplinarity'", insieme ai contributi di alcuni Premi Nobel (!)
Il libro e' il risultato del Dialogo Mondiale sulla Conoscenza a cui ho partecipato nel 2008:

venerdì 20 novembre 2009

Liberta' d'informazione...ma quale?

Per quanto provi a scappare, ci sara’ sempre una notizia in grado di raggiungermi. In Italia sembra impossibile sottrarsi al bombardamento mediatico su omicidi passionali da un lato, passioni e malefatte del primo ministro dall’altro. La veemenza e regolarita’ con la quale tale tipologia di notizie viene proposta mi fa pensare a una deriva mediatica; e' una saturazione che mi toglie parte della liberta' di informarmi...

Al di la’ delle importanti ragioni ed emozioni in gioco, mi chiedo che cosa possa avere spinto i media a imboccare una strada tanto univoca. Perche’ si sacrificano la possibilita’ di informare e far crescere l'opinione pubblica a favore di morbosita’ e accanimento?
Sembra piu’ facile appurare l'influenza della politica sull’informazione, piuttosto che le responsabilita’ dei media stessi. L’ossessione per gli omicidi passionali non ha connotazioni politiche, ma forse la dice lunga rispetto al potere dei media di imporre un tema, in questo caso con rischi di imitazione che plausibilmente stanno gia’ producendo i propri effetti.

Seppure la posta in gioco sia alta, perche’ si parla tanto del primo ministro invece che di qualcos’altro? Conducendo delle crociate contro o a difesa di una persona, si rinuncia a un ruolo propositivo, edificante e di crescita dell’opinione pubblica. Pensare di dover salvare un paese da una persona o con una persona e' legittimo, ma forse si smette di credere che il modo migliore di farlo sia far maturare l’opinione pubblica in modo equilibrato, verso il prossimo voto.
Non ci si pone piu' il problema che tanta devianza e accanimento possano danneggiare l’immagine che il paese ha di se’ stesso, nonche' l’autostima e la serenita’ delle persone. Forse non ci si chiede piu' se quello che si fa e' piu' dannoso o di beneficio al paese.

Una cosa che mi ha fatto sempre fatto riflettere rispetto all’influenza esercitata dai media sulla societa’ e’ il fatto che si privilegino sistematicamente le notizie cattive su quelle buone. Che il mondo "faccia schifo" sembra un luogo comune, quando il contrario e’ probabilmente molto piu’ vero. Spesso i media fanno passare le eccezioni per normalita’: nel mondo odierno innamorato dell’istantanea dell’immagine, si potrebbe finire per credere che quello che si vede sia la realta’ dei fatti. L’emozione sopraffa’ la riflessione. Pochi media si preoccupano di accompagnare le immagini con statistiche fatte scientificamente, da cui si dedurrebbe che quello che si vede rappresenta lo 0.01% della realta’. Il resto e’ probabilmente fatto di pace, di equilibrio e di persone oneste.
Le belle notizie, gli esempi edificanti, la bonta’ ordinaria e straordinaria piu’ raramente vengono coperte dai media, rispetto a tutto quello che e’ negativo. Mi dico: se le cose vanno cosi’ ci saranno certamente solide ragioni, storiche, psicologiche, commerciali e molte di piu'.
Mi chiedo: perche’ le cose dovrebbero andare necessariamente cosi’?

Alcuni notiziari americani aprono con le immagini sulla meraviglia delle recenti nevicate e con i premio consegnato all'insegnante piu' innovatore della scuola locale. Non si parla pero' ne’ dei soldati morti in Iraq ne’ degli ultimi conflitti politici. L’ignoranza del male e’ rassicurante, ma non contribuisce a far maturare l’opinione pubblica. Oltre che una questione di qualita’, chiedendosi a quali notizie dare spazio, e’ forse quindi ancora piu’ produttivo farne una questione di quantita’, chiedendosi quanto spazio dare a notizie di stampo diverso. Lo stesso approccio potrebbe essere adottato con i diversi linguaggi: ancora prima di preferire un'immagine a un testo a una statistica, e’ forse piu’ opportuno chiedersi quanto spazio riservare a ciascun linguaggio e come integrarli verso una maggiore completezza.

Forse al giorno d’oggi diamo talmente per scontata la presenza ubiqua ed incessante dei media, che ci dimentichiamo spesso di quanto essi possano diventare fonte di apprendimento e di esempio. Da un punto di vista di fruizione oraria, per molti di noi i media rappresentano la piu’ importante istituzione educativa, e come tali andrebbero trattati. Che ci piaccia o meno, i media sono una scuola, sono un’universita’, sono dei genitori e dei maestri di vita. Cosi' come ci parla un padre o un insegnante, cosi' ci parlano anche un conduttore televisivo, l'autore di un videoclip, e il redattore di un sito Internet.
Credo che i giornalisti abbiano la straordinaria opportunita’ di proporci una societa’ migliore: nell’epoca del web 2.0, la responsabilita’ ricade su tutti noi.

venerdì 30 ottobre 2009

L'elefante in salotto

77 Massachusetts Avenue: scendi dalla macchina e ti si para davanti un tempio di scienza e di tecnologia.
Ti arrampichi a grandi passi sulla scalinata, schivi una delle possenti colonne a capitello ionico, entri nell’atrio del Massachusetts Institute of Technology. Schermi e manifesti promuovono gli eventi del giorno e del trimestre, ti accorgi che fa da padrone la ricerca sull'efficienza energetica e le energie rinnovabili. Ti salta all'occhio la pubblicita' della M.I.T. Energy Initiative: "mettiamo insieme scienza, innovazione e politica per trasformare i sistemi energetici del mondo".

Poi, improvvisamente, forse per l’emozione, senti l’esigenza di andare in bagno. L’insegna maschile sporge sul “corridoio infinito”: entri e fai per appoggiare lo zaino sul lungo termos che corre sotto la finestra, ma questo e’ talmente bollente che ti rovinerebbe il portatile. Ma come? Ti domandi. E’ fine aprile e fuori ci sono 20 gradi. Guarda un po’: la finestra e’ aperta. Questa si’ che e’ efficienza energetica.

Si sa, tra il dire e il fare c’e’ una bella differenza, ma qualche volta mi sembra che solo gli Stati Uniti, il paese dove tutto e’ piu’ grande, siano capaci di contraddizioni tanto evidenti.
Basta sintonizzarsi sull’agenda politica mondiale, cosa che gli americani fanno piu’ distrattamente di altri popoli a parita’ di scolarizzazione e su base statistica. In materia di energia apprendo che: “e’ necessario fermare l’IRAN nella produzione dell’energia nucleare a scopi bellici”. Passando alla salute: “obesita’ in aumento in tutti i paesi avanzati, necessarie nuove abitudini alimentari e stili di vita”. Finendo con l’economia: “Cina nuovo gigante dell’economia, sempre piu’ posti di lavoro “dirottati” dagli USA ai paesi emergenti”.

Facile lamentarsi, ma ci siamo mai chiesti perche’ le cose stiano cosi’?
Ci facciamo campioni di un nuovo futuro energetico, ma intanto teniamo le finestre aperte con il thermos acceso. Promuoviamo la denuclearizzazione, ma intanto i dati vedono il budget USA per la sicurezza nucleare 14 volte piu’ grande di quello per la ricerca e lo sviluppo in ambito energetico(stime di Schwartz e Choubey, per l’anno fiscale 2008). Tessiamo le lodi di di uno stile di vita piu’ sano, ma intanto al supermercato abbondano le taniche di latte, i sacchetti di carne, le offerte 5 per 4, gli snack e le bevande ipercaloriche frutto degli ultimi ritrovati della ricerca scientifica in materia di nuovi sapori. Ci lamentiamo della crescita della Cina, ma intanto facciamo a gara per attrarre i migliori scienziati e ingegneri cinesi nelle nostre universita’, coloro che una volta rientrati in patria diventeranno gli artefici del riscatto cinese.

E’ quindi tutto sbagliato?
Piu’ che sbagliato, e' forse la logica conseguenza di un sistema fatto di mondi che non comunicano tra di loro, ciascuno con i propri obiettivi ed incentivi.
Gli accademici si preoccupano delle pubblicazioni e di attrarre i migliori scienziati per arrivare ad ottenerle, prima ancora che della propria efficienza energetica e della competizione cinese. Le aziende di produzione di cibi si preoccupano di massimizzare il profitto, prima ancora della salute della gente. Il governo americano si preoccupa della propria sicurezza, prima ancora di quella del mondo in generale.
E’ come un’orchestra senza un direttore: manca una figura super-partes capace di fare convergere i solisti verso un unico spartito; mancano obiettivi condivisi di ordine superiore, dai quali tutti possano beneficiare.

Che gli Stati Uniti e molte realta' del mondo occidentale soffrano di un “eccesso di democrazia”? Che sotto questo profilo una Cina non democratica sia un bene per il mondo?
Senza una pianificazione verso un fine superiore, la democrazia sembra diventare anarchica: tutti fanno quello che ritengono importante e nessuno si sente responsabile del risultato complessivo...

E’ facile per un visitatore far notare agli americani contraddizioni tanto evidenti.
Ma non sorprendiamoci se essi stessi non riescono o non vogliono vedere tale “elefante in salotto”. Dopo tutto, sono esseri umani tali e quali a noi, e l’ultima cosa che vogliamo augurarci e’ che il terreno ci crolli sotto i piedi. In fin dei conti, il DNA del sogno e della civilta’ occidentale e’ la valorizzazione del dio dentro di noi, delle straordinarie capacita’ esprimibili dall'uomo quando lasciato libero di fare di testa propria. Abbiamo fatto grandi cose, la maggior parte di noi in buona fede, ma l’inizio del nuovo millennio sembra averci riportato con i piedi per terra.

La strada imboccata non e’ sostenibile, perche’ strada non e'.
Armiamoci quindi di nuove carte e bussole, il nuovo cammino non puo' piu' aspettare.

venerdì 23 ottobre 2009

Una grande ossessione

La rotta e’ sempre la stessa. Entro, tiro dritto fino all’ultimo corridoio e inizio il mio “grocery shopping” dalla sezione dei latticini, per poi spostarmi ai succhi di frutta e quindi al reparto “food from the world”.
Le mie prime battaglie allo Star Supermarket di Cambridge (Massachusetts) cominciano dagli yogurt: rovisto gli scaffali in tutte le direzioni, perche' non riesco a trovare dei vasetti che consentano di essere finiti una volta aperti. Vanno tutti oltre le mie capacita’: troppo grandi. Poi scorro i prezzi: tutti sistematicamente piu’ alti dei loro cugini vasetti residenti nei supermercati italiani. Yogurt piu’ grande, prezzo piu’ grande: non fa una piega.

Sembra banale, ma ho l'impressione che la storia dello yogurt la dica lunga rispetto a quella che potrei considerare un’ ossessione della moderna societa’ globalizzata: la grandezza. Il trend e’ abbastanza chiaro, in molta parte dei settori economici: quando possibile, invece di semplici casette a due piani si costruiscono grattacieli; invece di normali automobili, si propongono SUV; invece di pagare le singole telefonate, si ipotizzano rate fisse di “traffico illimitato”.
Non importa se tutta questa grandezza non ci serve, verra’ sotto-utilizzata o esaurira’ le risorse del pianeta prima che queste possano rigenerarsi. La grandezza ha una giustificazione commerciale: consente al produttore di “scalare” i costi (quindi di risparmiare in termini relativi) e rappresenta la ragione piu’ ovvia per aumentare il prezzo.

La ragione commerciale pero’ non basta. Ci dovra’ essere qualcuno disposto a spendere di piu’ per aquistare questi prodotti piu’ grandi. Negli Stati Uniti, il problema e’ facilmente risolto: le persone non hanno abbastanza soldi? Glieli prestiamo noi!
Sembra che sia stato questo l’assunto alla base delle politiche della crescita (non a caso) promosse dalla Banca Centrale Americana e dalle banche in generale: tassi d’interesse bassi, quindi prestiti e mutui molto convenienti; carte di credito spedite direttamente a casa delle persone, che ne finiscono per collezionare molteplici e usano le une per ripagare i debiti accumulati con le altre.

Dove non arrivano gli incentivi finanziari, gioca a supporto una cultura della grandezza.
Reduce dal suo primo viaggio in Europa, un caro amico peruviano rifugiato politico a Boston da molti anni mi racconta: “In Germania, mi ha colpito la citta’ di Costanza, sul lago omonimo. E' popolata da persone ricchissime - facile a dirlo a giudicare dalle automobili e dai ristoranti presenti - ma anche disposte a vivere nelle case alte e strette del borgo storico. In America la prima cosa a cui si pensa appena si fa qualche soldo e’ … GOING BIG: casa piu’ grande, macchina piu’ grande, tutto piu’ grande.”

In un mercato globale in cui il valore delle aziende e dei paesi si misura in termini prettamente quantitativi (fatturato, valore dei titoli azionari, PIL) , ancora prima che un’ossessione la grandezza sembra essere una necessita’. A valle del crollo finanziario globale dello scorso anno, l’amministratore delegato di Bank of America, Ken Lewis, rivela all’emittente PBS che “nell’economia di oggi o diventi sempre piu’ grande o muori”.
D’altronde, e’ quello che gli economisti italiani da ormai molti anni continuano a ripetere alle nostre Piccole e Medie Imprese (PMI): se non andate oltre il modello di gestione famigliare su piccola scala siete destinate a sparire.

Anche se questo non vale per tutti i settori - piu’ la tua conoscenza e’ specializzata e di alto profilo, meno e’ sostituibile -, il trend verso la grandezza sembra avere facile giustificazione: nell’economia globale dominata dalla finanza la quantita’ conta piu’ della qualita’.
Prima ci si preoccupa di fare piu’ soldi possibile (massimizzare l’investimento), poi, eventualmente, di come si e' arrivati a farli. Machiavelli docet.
Quindi, come possono artigiani e PMI competere con le multinazionali, maestre di economie di scala e dominatrici di media di massa?

Fino a qui, il quadro puo’ apparire solo negativo, soprattutto agli occhi di un italiano e di un abitante del vecchio continente. Che fine faranno l’artigiano e l’impresa-famiglia? Tutti coloro che il proprio lavoro lo fanno con passione ed amore prima ancora che per denaro? Tutti quelli che di diventare grandi proprio non ne vogliono sapere?

Seppure spietato e in urgente necessita’ di modifiche strutturali, il sistema attuale non manca di offrire il buono e il bello. La conoscenza delle multinazionali si e’ talmente evoluta negli ultimi decenni, che esse stesse sono diventate i nuovi gioelli del mondo produttivo, in cui il lavoratore si misura non solo con le ultime tecnologie e pratiche, ma altre con un ambiente multiculturale aperto e collaborativo. Anche se il loro obiettivo ultimo e’ la quantita’, non vuol dire che al proprio interno la qualita’ non possa essere perseguita a molteplici livelli. Al contrario, deve esserlo, per garantirsi di produrre sempre piu'.

E’ cosi’ che le multinazionali possono diventare ambienti di lavoro straordinari, soprattutto per i lavori piu’ specializzati, piu’ scolarizzati e per tutti coloro che lavorano con la testa e con il computer. Per chi lavora con le mani, la realta’ e’ probabilmente molto diversa, come spesso riportano le organizzazioni umanitarie contro lo sfruttamento dei lavoratori nei paesi in via di sviluppo.

Insomma sembra che la storia della grandezza sia una storia grande, una di quelle che ti permette di tagliare tutti i problemi in un colpo solo. E’ una storia di ambizione e avidita’ umane, ma rivela anche la capacita’ dell'uomo di “puntare in grande” e in un certo modo il suo amore per l’abbondanza del mondo.
E’ una storia che e' necessario contestualizzare in questo momento storico: crescita esponenziale della popolazione mondiale (US Census Bureau stima che domani sabato saremo 6 milioni in piu’ di oggi venerdi’); dominio della mentalita’ anglosassone, basata sui fatti e sul presente, nel bene e nel male; trend ecologicamente insostenibile, perche’ procediamo nel progresso troppo veloci e senza visione di lungo termine.

Sembra che gli uomini e a maggior ragione le societa’ umane siano esseri fondalmente conservatori: per cambiare rotta ci vuole un grande trauma. C’e’ chi attende rivoluzioni in Cina, chi disastri climatici in occidente.
Senza alcun malaugurio, speriamo di imparare dai nostri errori, riuscendo a trovare la forza di perdonarceli. Prima ancora che gli uni con gli altri, verso l’imperfetta ma pur straordinaria specie umana.

venerdì 2 ottobre 2009

Il mondo secondo Google

Accendiamo il computer. Clicchiamo sull’icona di Internet Explorer. Digitiamo google.com nella barra degli indirizzi. Inseriamo una A nello spazio bianco. Leggiamo i suggerimenti comparsi a completamento della nostra A. Nel mio caso:
Ansa; Agenzia delle entrate; Alitalia; Animedb - the streaming paradise; Autoscout24 - marketplace europeo delle auto nuove e usate; Air One; Alice Adsl; Alice Mail.

Ogni secondo, ogni giorno, in ogni angolo del mondo, la storia si ripete: milioni di persone contribuiscono con le loro richieste a determinare la classifica delle ricerche piu’ cliccate, alcune delle quali ci sono appena state prosposte da “Google suggerimenti”. Altre vengono censurate. Altre ancora appaiono perche’ qualcuno ha pagato per pubblicizzarle, piuttosto che per meriti sul campo.

Google ha cambiato il mondo.
Non solo: ha reso il mondo in grado di capire come sta cambiando.
Agendo da sensore dell’opinione pubblica mondiale, Google ci racconta che cosa occupi la mente delle persone. I suoi dati sono una miniera d’oro per la ricerca sociale e per le ricerche di mercato. La storia di Google nasce dall’assunzione del “do good” (fare del bene), promossa dai suoi fondatori: consentendo il reperimento della conoscenza mondiale messa in rete, Google si fa vassallo di cultura e di democrazia, su scala mai conosciuta prima.
Siamo pero' sicuri di sapere che cosa questo veramente significhi?

L'implicazione a tutt’oggi piu' studiata e’ il fatto che Internet - reso significativo da Google e dagli altri motori di ricerca - sposti il bilanciamento di potere dalle istituzioni ai singoli individui.
E' piu' difficile nascondersi: l’informazione in rete consente ai cittadini e consumatori di avere un quadro piu’ ampio e completo della situazione, di confrontare prezzi e caratteristiche dei prodotti, cosi’ come l’offerta e l'operato politico. E' piu' difficile ignorarsi: la voce di cittadini e consumatori organizzati in social networks puo’ diventare importante agente di cambiamento.

Improvvisamente, le istituzioni - pubbliche o private che siano - si potrebbero ritrovare il fiato sul collo. Come loro, i ruoli “istituzionali”: dal medico all’avvocato, dall’insegnante al padre di famiglia. Non necessariamente ne sanno piu’ di noi.
Tale pressione e’ problematica per tutti: e’ occasione per migliorarsi, ma potrebbe sconvolgere delicati equilibri sociali. Puo’ renderla piu' stimolante, ma puo’ anche aumentare lo stress nella nostra vita. Una vita che probabilmente Internet ha gia’ contribuito a scuotere, negli equilibri personali: tempo trascorso davanti al computer; interazioni e confronti con nuovi contatti e conoscenze in rete; totale accesso alla pornografia.
In qualche modo, persone e istituzioni dovranno ricostruirsi un nuovo equilibrio.

Mi chiedo: in che misura la situazione e' veramente quella descritta?
Se tutto e’ possibile, non e’ detto che tutti possano o vogliano fare tutto.
In particolare, mi domando perche' Internet dovrebbe aumentare la nostra gamma di interessi.
Se non conosco la musica classica, non andro’ a cercarla in rete; se non mi interesso di politica, forse non diventero’ mai un attivista in rete; se non ho molta curiosita' probabilmente non mi spingero' molto oltre lo scambio di messaggi all'interno della mia cerchia di amici; ma se conosco l’inglese mi si spalancheranno le porte di un mondo infinito.
Da questo punto di vista credo che Internet sia molto piu’ simile alla televisione di quanto normalmente pensiamo: ciascuno sintonizzato sul canale che piu’ preferisce. Certo, c'e' sempre piu' zapping da fare, ma alla fine e' probabile che i nostri interessi e limiti ci facciano approdare ai porti sicuri (torno a rileggermi gli 8 suggerimenti che Google mi propone digitando la A…).

E’ forse quindi arrivato il momento di allargare la discussione dal piano tecnologico a quelli educativo e formativo?
Al riguardo, la mia limitata esperienza mi ha insegnato che piu’ sai, piu’ Internet ti permette di sapere, attivando un circolo virtuoso esponenziale. Parallelamente a una spinta di democratizzazione, sembra quindi che Internet porti con se’ anche una forza di segregazione: le elite acculturate e cosmopolite potrebbero saperne sempre di piu’, mentre la posizione di tutti gli altri non cambierebbe di molto. Come nel ciclismo: pochi in fuga, i piu’ rimangono dentro la lunga coda del gruppo.

Le fughe non sono pero' sempre vincenti. L'istruzione potrebbe non bastare.
L’altra sera nessuno aveva voglia di cucinare. Mi sono messo le scarpe e sono sceso alla pizzeria vicino casa. Nell’attesa del mio turno, ho osservato la preparazione delle nostre pizze: maestria e velocita’ straordinarie. Ho fatto i complimenti al pizzaiolo. Lui mi ha chiesto che lavoro facevo.
Gli ho risposto: il ricercatore. Ha replicato: bel lavoro, tu usi la testa, io le mani. Ha poi aggiunto: non dimenticarti, pero’, nella vita essere istruiti non vuol dire essere saggi.
La saggezza ci potra' arrivare anche dalla rete, ma meglio non farci completo affidamento.

venerdì 18 settembre 2009

Un oceano di mezzo, in teoria

Se mi venisse chiesto quale sia la differenza piu' fondamentale tra la scuola di pensiero americana e quella europea, credo rispondei l'approccio alla teoria, strumento ultimo per assegnare significato a quello che ci circonda.

Ho l'impressione che oltreoceano le teorie si possano facilmente reinventare. Non che gli americani non vi diano importanza, ma piuttosto sono maggiormente in grado di assegnare loro "il tempo che trovano" e quando serve, di sbarazzarsene.
Questo fa quadrato con la visione del mondo che li caratterizza: in uno stato di transizione permanente il concetto di “radice” e “radicamento” - del pensiero in questo caso - non è esigenza così forte come in Europa. In una societa' aperta al cambiamento e dominata dal pragmatismo (dove contano anzitutto i fatti e, ancora di piu', i risultati), le teorie non sono nient’altro che un’altra “story”. Sono una storia che così come ha preso forma in un contesto determinato, puo' venire smontata e superata in altri contesti: dai nuovi fatti, perché questi hanno sempre la precedenza.

Credo sia anzitutto tale “state of mind” a rendere l’accademia americana ben più agile e meno impantanata rispetto a quella europea continentale. Da noi mettere radici nelle teorie sembra un’esigenza imprescindibile: per fare scienza, in Europa le teorie le devi rispettare, in America devi semplicemente sapere che esistono. Se oltreoceano l’arte del ricercatore consiste nel metterle in questione o riformularle, sulla nostra sponda la scienza assomiglia assai meno ad un’arte quanto piuttosto a un’opera di paziente accumulazione di quello che si va depositando nel tempo. In un modo molto simile a cio' che noi europei definiamo patrimonio culturale (non a caso molti americani difficilmente ci capiscono, quando ne parliamo).

La mentalita' europea richiede che le cose cambino più lentamente: così è anche per le teorie, storie che mettono radici e di cui a volte finiamo per diventare prigionieri.
Quante volte in cima alla lunga lista dei problemi dell’università italiana si pone “è troppo teorica”? Credo che la teoria fine a sé stessa sia molto meglio di niente, ma anche che sia limitante e sterile fare della teoria il fine ultimo della ricerca e dell’insegnamento.
Gli americani vedono la questione in modo radicalmente diverso: per loro una teoria non ha un senso se non quello di interpretare i problemi concreti, quelli della vita di tutti i giorni. La teoria da fine diventa mezzo: difficilmente l'accademico americano "teorizzera'" se non per spiegare qualche fatto o fenomeno di attualità.

E' quindi poco probabile che in USA un ricercatore investa tutto il suo tempo nell'approfondimento delle teorie marxiste sulla produzione industriale; piuttosto condurrà una ricerca per analizzare le cause di un fenomeno di attualità (per esempio, l’avvento dei contratti atipici) utilizzando le teorie marxiste, assieme a molte altre, per far chiarezza su ciò che accade.
Volendo essere radicali, in America un professore che non faccia esempi non ha ragione di esistere. Come non ha ragione di esistere una ricerca che non si fondi su dati di fatto osservabili e misurabili.

Mi chiedo: cosa si guadagna e cosa si perde se la teoria da fine diventa mezzo?
Di certo se ne guadagna in puntualita' di giudizio, obiettivita' e capacità di produrre risposte reali a problemi reali, piuttosto che un pensiero fine a sé stesso. Quanto a perderci, così facendo è forse più difficile astrarsi dai problemi del proprio tempo, riuscendo a mantenere quella prospettiva distante e “a-storica” che potrebbe generare impreviste obiezioni al sistema.

Non mi sorprendo infine che la maggior parte delle nuove scoperte scientifiche arrivi dai ricercatori che lavorano negli Stati Uniti. Avendo pero' toccato con mano la difficolta' di generare l'evidenza dei fatti a supporto di una nuova scoperta o teoria, mi rendo conto che l'approccio americano richieda un'iper-specializzazione e iper-dedizione che ci potrebbe isolare dal resto del mondo. Vengono a mancare gli incentivi e il tempo necessario ad alzare la testa e guardare oltre il proprio "baby" (cosi' molti ricercatori e professionisti americani chiamano il prodotto del proprio lavoro), con il rischio di rimanere incastrati dentro le ideologie dominanti.
Insomma, ancora una volta, il mondo perfetto sembra proprio non esistere.

sabato 29 agosto 2009

Una Toscana di virtu'

La strada sguscia tra le ultime colline, sfocia in una piana, punta dritta verso il mare. Freccia a sinistra, svoltiamo, il campo visivo ci si spalanca contro una distesa giallo-verde di girasoli, sovrastata da un profilo collinare che sembra la firma di un’artista.
Tutt’intorno, nitidezza: di un cielo e di una luce che demarcano nettamente i confini, che fanno brillare i colori con una gentilezza inusuale, che non accennano alcuna offesa a uno sguardo che ormai non offre alcuna resistenza.
Freno. Entro nello sterrato. Parcheggio. Ci attende una settimana di vacanza e riposo nella Maremma Toscana, in una delle infinite fattorie che accolgono i tanti pellegrini dell’armonia che convergono in questa regione dall’Italia e dal mondo.

Giorno 3, ci sorprende il diluvio.
In seconda, risaliamo la costa piu’ inclinata di una collina, mentre terra e cielo si fondono in nuvole di pioggia. Il verde di Scansano sembra avere una sete disperata.
La porzione e’ abbondante, la consistenza densa ma frastagliata. Il gusto disorienta perche’ porta in tante direzioni: ogni ingrediente ha un sapore forte, ben marcato, genuino fino ad arrivare ad un retrogusto di terra. Non sembra vero che stiamo mangiando uno dei piatti piu’ poveri della tradizione maremmana contadina, l’“acqua cotta”: un’improbabile zuppa di sedano, pomodori, pane e uova, la cui unica speranza e’ quella di contare sulla bonta’ dei singoli ingredienti.
Mi ero dimenticato cosa questo potesse voler dire.

Giorno 5, manca poco piu’ di un’ora al tramonto.
Lasciamo il casale di corsa, non vogliamo perderci un’istante della luce piu’ bella, sfilando nella molteplicita’ di vedute che un breve tragitto in macchina puo’ magicamente offrire. La strada sale a chiocciola, Montepescali e la sua sagra del cinghiale ci guardano dal cucuzzolo. Da qui, il mare e’ macchia blu-grigia che scompare e compare all’orizzonte, compagno fedele di questa terra, introdotto da impressionanti pinete millenarie.
Un parcheggiatore mi fa accostare a sinistra, una navetta potra’ portarmi comodamente in cima. Non mi sorprende l’efficienza organizzativa: nuovi dispositivi elettronici alimentati da energia solare regolano l’accesso al Parco Naturale della Maremma.

La sagra e’ la festa di tutti, il pranzo di famiglia dell’intero paese, un ambiente sano in cui i bambini sgattaiolano sotto le gambe dei nonni. La dolcezza e l’affabilita’ delle persone generano un’atmosfera fluida e naturale. E’ tempo pero’ di ascoltare i grilli, a piedi in discesa, pilotati dal quarto di luna che squarcia il buio pesto, esaltando il profilo della maestosa foresta di lecci regno del cinghiale. Il paesaggio e’ se’ stesso: intatto, selvaggio, autentico, amorevole.

E’ arrivato il momento di ripartire e non posso che domandarmi se la Toscana che ho conosciuto e’ cio' che l’Italia dovrebbe cercare di essere. Nel pieno di una crisi di identita’, di una globalizzazione che non riusciamo ad assorbire nelle sue richieste di una filosofia di vita che non ci appartiene, potremmo forse riscoprire la grande anima umanistica del paese.
Inchiodati al nostro passato industriale, costantemente sul banco di prova per rimanere “tra i grandi paesi del mondo”, ho spesso l’impressione che non riusciamo apprezzare abbastanza la meraviglia e le straordinarie potenzialita’ dell’attitudine italiana alla vita.
Nell’epoca della super-accelerazione, dell’uomo imprenditore di se’ stesso, dell’innovazione a tutti i costi, dell’indispensabilita’ della grande scala e della massimizzazione dei profitti, potremmo offrire al mondo quello che piu’ prezioso abbiamo: noi stessi.
Come esempio vivente di ricerca del bello, di un certo equilibrio e leggerezza del vivere, di socialita’ e di spontaneita’, di amore verso la terra attraverso la buona tavola. Riscoprendo e prendendoci cura di un paesaggio che inevitabilmente parla di noi. Capendo come la nostra grande tradizione umanistica e artistica possa essere riproposta in chiave moderna, messaggio verso quella fetta di mondo globalizzato fatta di uomini sempre piu’ stressati, soli, alienati. Capitani di un rinascimento post-moderno.

La firma dell’Italia nel grande libro del mondo potrebbe assomigliare al profilo delle colline che circondano Montepescali: un gesto spontaneo di una mano mossa da genio e pace interiore.

venerdì 21 agosto 2009

Stati Uniti d'Arabia

Stiamo iniziando la nostra discesa verso l’aeroporto internazionale di Dubai, siete pregati di allacciare le cinture. Il messaggio dirama il torpore dei passeggeri, qualche occhio si schiude, i miei continuano a mantenersi aperti, cadendo regolarmente sullo schermo con la rotta. Poco piu' di un'ora fa abbiamo sorvolato Baghdad e Falluja, con un certo sussulto, per poi imboccare il Golfo Persico all’altezza di Al Basrah.

La storia recente ci e’ sfilata sotto i piedi, ma noi in un batter d’occhio ci troviamo in coda all’immigrazione, dove ci attende un arabo barbuto in thobe, tunica e cuffia bianche, con sguardo tra l’indifferente e il superiore. Sono gia’ passato di qui, poco piu’ di un anno fa, ma non riconosco piu’ il terminal dell’aeroporto. Palme finte e giganteschi pilastri fosforescenti di giallo scandiscono un atrio mai visto tanto grande. Salto in taxi: Abu Dhabi, Rotana Beach Hotel. Da domani, domenica feriale musulmana, mi aspetta una settimana di lavoro a Masdar, la nuova citta’ voluta dallo sceicco Khalifa ibn Zaid al-Nahayan come modello di eco-sostenibilita’ per il mondo.

I 140 km di autostrada sono un righello, regolarmente punteggiato da piloni pubblicitari destinati alla promozione degli investimenti negli Emirati Arabi Uniti (UAE): “stiamo costruendo la storia”, “lunga vita all’ambizione”, “70 nuovi km di citta’ costiera tra Dubai e Abu Dhabi, due volte Hong Kong”, “capitalismo a tutta forza”.

Sveglia, colazione, strette di mano, taxi, cantiere di Masdar.
Il gruppo di consulenza a cui appartengo e’ capitanato da una societa’ inglese e si occupera’ di mettere a punto il futuro sistema di orientamento nella citta’: segnaletica, mappe e strumenti multimediali avanzati. Una sfida interessante, dal momento che Masdar non potra’ concedersi inefficienze in quanto prima citta’ “carbon-neutral” del mondo: per ogni molecola di CO2 rilasciata, ce ne dovrà essere una sequestrata o la generazione dell'equivalente di energia.
Sorta di cittadella fortificata in cui le automobili non potranno entrare, sara’ scrigno e banco di prova per le piu’ avanzate tecnologie sostenibili: navette a lievitazione magnetica pilotate da computer e ottimizzate negli spostamenti; obbligo di eco-sostenibilita’ per tutti i materiali costruttivi; perno su energia solare ed eolica; attivita’ pedonale promossa e resa possibile da studi sulla massimizzazione dell’ombreggiatura degli edifici nonche’ da enormi “ombrelloni” che si apriranno e chiuderanno magicamente nelle piazze.
Centrata su un’universita’ i cui curricula sono stati commissionati al MIT, Masdar dovra’ diventare la citta’ della scienza e della ricerca piu’ importante al mondo, sui temi del design sostenibile e delle energie rinnovabili, facendo leva sulla forza lavoro qualificata del mondo arabo e del sub-continente indiano.

Masdar e’ anche un chiaro messaggio verso il mondo: difronte al dramma dei cambiamenti climatici, l’emiro di Abu Dhabi si fa paladino di un nuovo modello di citta’. A futura referenza: da imitare, da citare nelle piu’ prestigiose riviste, da raccontare nei mass media. D’altronde, la pressione dell’opinione pubblica internazionale comincia a montare, verso una delle realta' (quella degli UAE) meno ecologicamente sostenibili al mondo:

• per essere abitabili tutti i lussuosi edifici recentemente costruiti dovranno essere condizionati 24 ore su 24, la maggior parte dell'anno; d’altro canto la maggior parte degli abitanti del paese
(si parla dell’80% del totale) sono stranieri non abituati a tale clima estremo;
• enormi quantita’ d’acqua vengono importate nel paese o desalinizzate dal Golfo Persico, per l’imponente irrigazione dei campi da golf presenti e in costruzione nel paese;
• gli impianti di fognatura spesso non esistono ancora, cosi’ che i rifiuti urbani cosi’ come i residui delle petroliere vengono scaricati in mare, non da ultimo al largo delle coste del corno d’Africa, recente teatro di assalti pirateschi;
• la stragrande maggioranza delle automobili che affollano le strade sono SUV o comunque di alta e altissima cilindrata, grazie ai bassi costi del carburante e alla massiccia presenza di nuovi ricchi occidentali e iraniani (mi e’ stato detto: “se non me la compro qui, dove altrimenti?”);
• si diffonde il fenomeno dello “splashing out”, letteralmente lo “spendere e spandere” a scopo di ostentazione, rigorosamente senza che ne esista alcun bisogno. I recenti locali alla moda di Dubai, tra cui il Just Cavalli introducono una “minimum expenditure”, spesa minima (spesso superiore ai 100 dollari) di ammissione del cliente. A partire da quella cifra non resta che affogarsi di caviale e champagne.

La porta si chiude, entrano i manager responsabili del nostro ingaggio per conto di Masdar.
Parte di loro lavora per la multinazionale Americana CH2M HILL, vincitrice dell’appalto per la gestione generale del progetto, cosi’ come di altri appalti importanti negli Emirati.
Immagino il sottofondo di connessioni politiche di alto livello tra Abu Dhabi e Washington: io ti compro il petrolio, tu con il ricavato fai arricchire le mie aziende, che trasformeranno Abu Dhabi nella New York del ventunesimo secolo. Apprendero’ ben presto che nel linguaggio di qualche manager americano ed inglese, gli UAE sono uno “start-up country”, mutuando l’appellativo “start-up” (in fase di avvio) associato alle aziende: un’organizzazione appena nata, una tabula rasa che con determinazione, ingegno e senso degli affairi si potrebbe presto far diventare caso di successo, un bel dipinto della cui paternita’ si andra’ fieri.

Nei corridoi dell’open-space del nostro prefabbricato all’interno del cantiere mi sembra di ritrovare uno spirito a me famigliare: l'energia imprenditoriale che si respira nei corridoi del MIT a Boston. Con la differenza che in buona parte dei pochi uffici presenti siedono arabi a cui spetta molta dell’autorita’ decisionale. Uomini in bianco e donne in nero (non velate) che le aziende straniere sono obbligate ad assumere, spesso persone molto intelligenti e qualificate formatesi proprio nelle universita’ americane. Alcuni di loro sembrano osservare la frenesia dall’alto verso il basso, sono vassalli di un mondo parallelo da cui non si nessuno puo' prescindere.

Torno all’hotel, e’ tardi, il tempo e le energie per mettere il naso fuori ed esplorare la citta’ se ne sono andati da un pezzo. D’improvviso pero’ mi ritrovo a spalancare una porta che mi porta dritto in un grande centro commerciale, che scopro essere adiacente all’albergo, come molti altri. Non posso non rimanere colpito dalle molte donne velate fino agli occhi, che sembrano fare a gara nello sfoggio di borsette e sandali intarsiati di preziosi, finanche diamanti.

Emirati Arabi: crocevia della globalizzazione, sintesi degli opposti.
Rispolverando questo appunto dal mio viaggio precedente, cerco disperatamente il telecomando per spegnere l’aria condizionata nella mia stanza. Che luogo singolare quello in cui il deserto convive con i campi da golf; le transazioni virtuali degli hedge funds con i linghotti d’oro spediti ai talebani; il rigore della sharia e del ramadan con lo splashing out e le architetture piu’ strabilianti al mondo.

Dove alcuni leggono un tradimento verso la grande nazione musulmana, altri un suo riscatto.
A pensarci bene, il messaggio all’umanita’ lanciato implicitamente dagli emiri sembra mutuato dal sessantotto, ma per il nuovo millennio: fate gli affari, non la guerra.
Questo luna park dei ricchi del mondo sembra esemplificarne la problematicita’, ma intanto ringraziamo che non si faccia la guerra.

venerdì 24 luglio 2009

Una nuova ricerca della bellezza

Sono a Venezia e apprendo che la citta’ ospita due nuove esposizioni di arte contemporanea. Facoltose fondazioni hanno investito nell’allestimento di edifici storici di una citta’ che, sede della Biennale, si candida a diventare uno dei punti di riferimento mondiali per gli amanti della disciplina.

Nonostante il mio amore per l’arte, non sono pero’ sicuro che questa sia una notizia che mi faccia interamente piacere. Piuttosto, mi da’ l’occasione di riflettere sulla complessita’ dell’arte contemporanea: in quanto arte, mi dico che dovrebbe essere prima di ogni altra cosa “ricerca del bello”. Piu’ spesso, pero’ - per quella che e’ la mia molto limitata esperienza - mi trovo difronte a opere fondate sulla provocazione, sulla contro-intuizione, sulla morbosita’, dalle quali non riesco a provare quell’emozione di appagamento ed equilibrio che associo alla bellezza.
Quando le capisco, il piu’ delle volte ne apprezzo l’idea; mi capita di simpatizzare con le intenzioni, le denuncie politiche o le sofferenze interiori dell’artista, la cui creazione puo’ svolgere funzione terapeutica. Altre volte, prendono il sopravvento la frustrazione di non capire, nonche’ il disturbo che mi deriva da tutto il brutto dell’opera.

Mi chiedo che cosa possa avere portato l’arte e gli artisti ad accettare tanto allontamento dalla bellezza. Di primo acchito, mi viene da pensare che nelle societa’ piu’ moderne e relativiste si dia la precedenza al rispetto dell’interiorita’ dell’artista (per quanto idiosincratica ed auto-referenziale questa possa essere) sui canoni condivisi di bellezza. Mai come nell’arte contemporanea mi sembra che gli artisti si facciano carico di tutto il male del mondo.
Inoltre, pur nascendo come grido di dolore contro una societa’ massmediatica e globalizzata a senso unico, sembra che molte opere contemporanee diventino vittima della stessa dinamica, per cui per apparire devi “spararla sempre piu’ grossa”.

Il tutto porterebbe comunque ad un arricchimento culturale se l’arte contemporanea fosse una delle tante praticate e visibili, ma a mio avviso puo’ essere problematico se questa diventa la corrente predominante, nelle arti visive cosi’ come in quelle figurative.
Altrimenti, che fine fa il bello?
In molti argomenterebbero in qualche modo che “non e’ bello cio’ che e’ bello ma cio’ che piace”.
Io credo che la bellezza viva di se’ stessa oltre che di cio’ che piace. Se e’ vero che tutti gli uomini sono uguali, deve pur essere vero che tutti gli uomini siano dotati della facolta’ di percepire la bellezza. Allo stesso tempo, la diverse culture, educazioni, interessi e sensibilita’ ci portano a trovare ulteriore bellezza in cose diverse.

Credo infine che il potere della bellezza non si debba mai sottovalutare.
Nella sua capacita’ di gratificare l’uomo cosi’ come in quella di predisporlo al bene. Lo sanno bene architetti ed urbanisti: il brutto cosi’ come il degrado non agevolano le persone a prendersi cura dei luoghi in cui vivono. Una cosa che mi fa sempre riflettere e’ che tutt’oggi nel mondo nessuno pensi piu’ a costruire le Firenze, mentre tutti si affrettino a far nascere la prossima citta’ di grattacieli. Quando in Corea mi hanno chiesto che consiglio dare agli studenti si apprestavano a progettare la nuova citta’ del futuro, ho risposto senza esitazione: si puo’ trovare in molti modi, ma in quello che costruirete non dimenticatevi di cercare la bellezza.

venerdì 10 luglio 2009

Il duro mestiere dell'innovatore

In questi anni di permanenza nel mondo della ricerca, ho sempre cercato il contatto con il mondo esterno, come veicolo per capire come le cose effettivamente succedano, al di la’ delle "fotografie" scientifiche e delle speculazioni teoriche.

Il momento storico e il mio background in comunicazione hanno fatto si’ mi incanalassi quasi naturalmente verso il settore delle nuove tecnologie dell’informazione. Stanno rivoluzionando il mondo, ci veniva detto. Io volevo capire in che modo tale rivoluzione si potesse governare per creare nuove possibilita’ che facessero contente le persone, per come lo ritenessi giusto io. Ho cominciato le mie frequentazioni al MIT, che mi hanno consentito di cominciare a lavorare con chi la tecnologia la stava sviluppando, su questi due fronti:

- un’audio-video guida attraverso la quale visitatori e cittadini potessero navigare le citta’ d’arte attraverso voci e racconti degli abitanti del luogo (di cui avremmo presentato il prototipo alla Biennale d’Arte 2005);
- un servizio di visualizzazione delle attivita’ urbane, costruito sulla base dei dati aggregati e anonimizzati generati dai nostri telefoni cellulari, per monitorare in tempo reale la presenza e i flussi di persone. Obiettivi: agevolare operazioni di soccorso in caso di emergenza, quantificare la popolarita’ delle opere pubbliche, individuare gli sprechi di energia relativi alla presenza delle persone (una sorta di “grande fratello buono”, attualmente promosso attraverso la mia fondazione, Currentcity).

In entrambi i progetti, ho recitato la parte dell’"uomo di marketing", colui che, non sapendo sviluppare la tecnologia, si occupa di capire il modo in cui questa possa risolvere dei problemi esistenti o rispondere a un bisogno. Piu’ acquisisco esperienza in questa professione, piu’ mi rendo conto di quanto difficile sia il mestiere dell’innovatore, per lo meno in un ramo tecnologico sempre piu’ inflazionato come il nostro.
Darei forse la priorita’ a tre grandi questioni su altre:

- la capacita’ di convincere il futuro utilizzatore dell'utilita' del nuovo servizio.
Al riguardo concorrono due ordini di fattori: da una parte l’esplosione caustica di ogni genere di tecnologia, parallelamente alla diminuzione del tempo utile per utilizzarla; dall’altro il fatto che, piu’ avanzata e', meno e' indispensabile;

- la capacita’ di convincere i finanziatori della bonta’ della propria idea.
Qui vedo due ordini di problemi: da una parte questi devono esistere (e da questo punto di vista al futuro imprenditore conviene rimanere in USA); dall’altra si deve essere in grado di convincerli in termini prettamente finanziari (a fronte di un tuo investimento X guadagnerai Y). Tale esercizio e’ quanto mai difficile per gli accademici che, forse nella maggior parte dei casi, portano avanti la ricerca sulla base delle proprie passioni e principi, piuttosto che sui dati di mercato;

- la capacita’ di trovare dei collaboratori a cui delegare capacita' decisionale nelle aree che non sono di propria competenza. Per molti innovatori, questo comporta il superare una umana attitudine protettiva ed eccentrica (in America, con orgoglio, l'invenzione diventa “my baby”), nonche' risolvere il problema della mancanza di tempo, per chi vuole continuare a fare anche l’accademico.

Last but not least: fiducia, energia ed ottimismo costanti, sottostimando le difficolta’ e pensando che le cose andranno per il verso giusto (credendo che i Google siano piu’ la norma che l’eccezione!). Il dramma e’ che l’innovatore e’ obbligato a tale approccio nel bene e nel male: se il successo arriva, l’ottimismo avra’ portato i suoi frutti; se tarda ad arrivare, meglio continuare ad essere ottimisti, perche’ mollare a quel punto equivarrebbe ad avere sacrificato un sacco di tempo ed energie per nulla. E cosi’ tanti innovatori continuano a trascinare i piedi nella sabbia, troppo emozionalmente “dentro” la propria idea per poterne vedere obiettivamente i problemi ed accettarli, verso possibili soluzioni.

In ogni caso, l’universita’ e’ un mondo pieno di idee, perche’ e’ un mondo pieno di giovani. E il mondo reale puo’ rappresentare un’opportunita’ unica di apprendimento per il ricercatore, se non altro per sprovincializzare la propria visione del mondo. Ogni volta che una bella idea muore sui banchi mi piange il cuore: finiscono i fondi per la ricerca, finisce l’idea.

Speriamo che il futuro ci porti canali piu’ fluidi per trasformare le idee in realta’. Speriamo anche che si facciano sempre piu' largo nuove forme di imprenditoria, per cui le idee socialmente ed eticamente utili siano sempre di piu’ e si possano realizzare anche se non si riesce a passare il test del mercato. Sulle orme di Muhammad Yunus, premio nobel per la pace per le sue idee sulla micro-finanza e il business sociale.

martedì 30 giugno 2009

Scienza del passato?

Con il proseguire della mia avventura accademica, mi domando in che modo la forma mentis scientifica influenzi il modo in cui l’uomo moderno costruisce il mondo di oggi.

Prendendo a prestito filosofia e metodi dalle scienze naturali, le scienze sociali hanno come oggetto di osservazione tutti i fenomeni frutto dell’intervento umano. Dall’espansione dei centri urbani alla politica monetaria della Banca Centrale Europea; dalle migrazioni di massa alle dinamiche psicologiche sottese alla gestione di un condomio.
Per essere tali, le scienze sociali devono essere obiettive: non devono cioe’ raccontare “come le cose potrebbero o dovrebbero andare”, ma piuttosto “come le cose stanno”.

Assicurando la massima imparzialita’, io scienziato osservo e raccolgo i dati. Li analizzo e ne attribuisco un valore statistico. Li interpreto, cercando di esplicitare una serie di relazioni di causa ed effetto. Il resto non e’ affar mio: per definizione, da scienziato non sono tenuto ad esprimere un’opinione su una direzione auspicabile da prendere sulla base di tali risultati.
Al contrario, l’opinione e il giudizio personale, negli ambienti scientifici piu' rigorosi, sono forse quanto di piu’ deprecabile ci possa essere.

Esempio.
Supponiamo che io sia uno scienziato sociale e che mi occupi del processo di urbanizzazione che ha sconvolto il mondo negli ultimi 10 anni. Per prima cosa, andro’ alla ricerca dei dati sulla costruzione di nuove abitazioni (quante, dove, metratura, etc.), per poi confrontarli con i dati relativi all’espansione della popolazione (numero di nascite, morti, nuovi immigrati, etc.), e con quelli relativi al costo del denaro e dei mutui (tassi di interesse, etc.). Probabilmente, trovero’ e quantifichero’ la seguente correlazione tra le variabili: allo scendere del costo del denaro e dei mutui, si registra un incremento nella costruzione di nuove case, ma non un’espansione di pari valore nel numero di abitanti.

Il punto a cui vorrei arrivare e’ questo: questa conclusione non dice nulla rispetto al fatto che il fenomeno osservato sia bello o brutto, giusto o sbagliato. Per esempio, non dice nulla sul fatto che costruendo piu’ case che abitanti:

- ci ritroveremo in un mondo sempre piu’ privo di natura e pieno di cemento, anche se non ce n’e’ bisogno;
- se il mercato degli investimenti non venisse piu’ a compensazione, il prezzo delle case prima o poi crollerebbe (ed e’ quello che e’ successo, non a caso poco pronosticato dagli economisti).

Per un momento mi piacerebbe pensare ad un mondo in cui tutti ragionano come gli scienziati.
Un mondo cioe’ in cui tutti studiano il passato per capire il presente (come nell’esercizio appena fatto), ma in cui nessuno si chiede che futuro stiamo costruendo, e si interroga sulla bonta’ della direzione presa. In altre parole, mi sembra che la scienza guardi al passato piuttosto che al futuro: non a caso si fonda su un metodo statistico chiamato “regressione” (!).

E' interessante notare, inoltre, che oltre alla scienza anche la finanza risulta schiacciata sul presente. Si fonda infatti sul principio di "valore presente": la bonta' di un investimento non si misura sul guadagno futuro, quanto sulla sua convenienza presente a fronte della svalutazione del denaro e delle altre alternative in gioco.

Credo quindi che se scienza e finanza non vengono compensate da etica e conoscenza normativa (quella fondata sulle norme condivise, che ci indicano cosa e’ bene e cosa e’ male), esiste il rischio di ritrovarsi una societa’ che non ha idea di dove sta andando.
Guarda alla globalizzazione odierna, imperniata su un approccio al business sempre piu' scientifico e finanziario: "senza accorgersene", sta distruggendo gli ecosistemi del mondo; sta introducendo nuove tecnologie prima di verificarne un possibile danno futuro agli esseri umani (penso per esempio alle nanotecnologie); sta generando un villaggio globale senza che le persone abbiano il tempo di adattarvici.
A mio avviso, non e’ tanto sorprendente il fatto che non si abbia idea del mondo che consegneremo ai nostri figli. Ma il fatto che non ci si ponga il problema.
E se ce lo si pone, che ci si affidi a una visione ideologica e semplicistica: "la globalizzazione, imperniata sulla massima liberta' di scienza e finanza, e' la soluzione a tutti i mali".

Non credo pero' che la soluzione risieda nel colpevolizzare scienza e finanza.
Al contrario, avremo forse un sempre piu’ disperato bisogno di entrambi per risolvere le sfide che abbiamo difronte. Il punto e’ riassegnare loro il giusto valore. Contestualizzarle, de-ideologizzarle, smussarle nei tratti piu’ radicali, perseguendo l’interdisciplinarita’ e la pratica del buon senso nell’educazione e formazione delle persone.
Per far si’ che anche il futuro, oltre che il passato e il presente, venga contabilizzato nell’approccio scientifico cosi' come in quello finanziario. Per creare quei meccanismi per cui i leader del futuro non possano che essere tali a tutto tondo.

(sullo stesso argomento, “Umanisti contro Tecnici”:

venerdì 26 giugno 2009

Tutto il bello dell'Italia

E’ un venerdi’ pomeriggio di giugno quando le ruote del nostro aereo riaccarezzano la pista del Marco Polo di Venezia. Il nuovo terminal a torrette di mattoni a vista con cupola verde consegna un sapore arabeggiante al nostro arrivo. L’Italia e’ momentaneamente un posto esotico per noi: dopo tre mesi di Boston, i pavimenti di parquet smaltato e il nastro delle valigie con i numeri della roulette non tardano a ricordarci che un aeroporto puo’ essere anche un luogo bello e fantasioso, oltre che funzionale.

Si aprono le porte automatiche e immediatamente il caldo estivo mediterraneo ci avvolge in un abbraccio famigliare. Il sole ci abbaglia, qualche cicala ci chiama dall’ombra di un pino marittimo, l’umidita’ padana la odori nell’aria. La nostra Punto mi sembra una meraviglia del design: sofisticata e giovanile nelle forme, leggera nel suo colore chiaro metallizzato. Le persone sono magre, abbronzate, vestite elegantemente e sorridenti. Belle da vedere. Scherzano tra di loro e parlano una lingua dolce, l’italiano, con una varianti ancora piu’ dolci, quelle del dialetto veneto. Benvenuti. Non Welcome Back.

In viaggio verso casa, le villette scorrono una dietro l’altra, allineate con fantasia, con recinzioni ritagliate creativamente per separare il proprio giardinetto da quello del vicino. Nelle laterali e difronte ai “bar” piccoli crocchi di persone sembrano discutere animatamente: intravvedo sorrisi sulla bocca. La maggior parte di palazzi e abitazioni risplende di colori forti: terra di siena, giallo, arancio, rosa e verde ti accendono la vista in tutte le direzioni. Il verde brillante dei campi di mais tiene insieme il paesaggio. L’ingresso in casa porta con se’ la frescura del pavimento in marmo. Lo sbattere dei piatti, le sigle dei telegiornali e le scroscianti chiaccherate dei vicini in terrazzo sono la colonna sonora di questa nostra prima serata italiana.

Il giorno dopo usciamo per incamminarci verso il centro pedonale di Padova.
Passeggiare sul selciato e sotto un porticato medievale fa un certo che. Varcato l’arco di porta Altinate, il tripudio. Veniamo inghiottiti da una folla festosa che si muove in tutte le direzioni: chi con i sacchetti in mano, chi a manina con i bambini, chi abbracciato al fidanzato, chi piantato in mezzo alla via a chiaccherare, chi con un bicchiere in mano dal vicino bar, chi in un angolo a suonare, chi di corsa a zig-zag, chi affacciato al balcone, chi vociferante al telefonino, chi seduto a un tavolino. Gli sguardi sono intensi, i modi sofisticati e sensuali. Il mood della folla quanto mai vivace e caldo. Sentiamo la gioia di vivere. Vediamo la gioia di vivere.

E insieme, percepiamo il nostro senso di estraneazione e alienazione, abituati a ben altro negli USA: quanti sguardi assenti e distaccati, quanta crudezza nel vestire e nei modi, quanta fretta e auricolari nelle orecchie, quanta solitudine. Mi sono temporaneamente dimenticato dei problemi dell’Italia e mi domando: come e’ possibile che questo popolo, che ha cosi’ tanto, sia anche tanto insoddisfatto della propria condizione? Che la propensione alla gioia di vivere e alla bellezza non siano abbastanza? Di che cosa potranno lamentarsi tanto? Non bastano le alpi, la pianura, i laghi, le colline, le citta’ d’arte, il mediterraneo, il sole, il sorriso, la buona cucina?

Forse l’attitudine al lamentarsi di tutto e’ proprio il giusto “contrappasso” per tenere il sistema in equilibrio. Forse e’ il complesso di inferiorita’ che ci portiamo dietro verso i paesi piu’ moderni. Forse sono lo scarso senso civico e la cultura “mafiosa”, in tutte le loro sfumature, che non ci fanno sentire a posto con noi stessi. Forse e’ giusto cosi’, ma vale la pena ricordarsi spesso di tutto il bello dell’Italia. Il mondo di oggi ha un grande bisogno anche di noi.

domenica 24 maggio 2009

Politica contro economia

Cosa pubblica e interesse costituito.
Due mondi che spesso si sovrappongono, allorquando la politica, che dovrebbe essere spesa a beneficio della piu’ ampia collettivita’, viene declinata a favore di gruppi di interesse o addirittura singoli individui.

Politica ed economia. In un regime cosiddetto di mercato, la prima deve gran parte della sua esistenza alla seconda. Infatti, la politica si finanzia attraverso le tasse, che vengono contabilizzate come percentuale dell’attivita’ economica complessiva: piu’ le aziende fatturano, piu’ la politica ha soldi da spendere. Credo che tale anello vitale sia all’origine di molte delle attuali distorsioni della politica stessa, ponendo in essere un incentivo perverso: la politica cerca di compiacere la volonta’ dei grandi gruppi di interesse, anche se cio' fa piu’ male che bene all’interesse della collettivita’.

Nel titolo di un best seller, Greg Palast riassume bene questa condizione: “The best democracy money can buy”. Gli USA hanno la migliore democrazia che si possa comprare. Il caso delle aziende di produzione di SUV (Chrisler e Ford) mi sembra un ottimo esempio: la maggior parte delle leggi “anti-SUV” non e’ stata approvata, nonostante esistesse un interesse collettivo a disincentivare la messa sul mercato di questi veicoli (inquinano, cannibalizzano il suolo pubblico, sono pericolosi per gli altri in caso di incidenti).
La lobby delle case automobilistiche, che al tempo attraverso le tasse rimpinguavano le casse statali, ha prevalso. Non solo: adesso che Chrisler e Ford sono sull’orlo del fallimento, il governo si fa avanti per aiutarle, prosciugando fondi pubblici da altri settori o indebitandosi.

Il punto e’: chi genera i fondi pubblici?
Il ritornello popolare vuole che essi siano “i soldi miei e tuoi, di tutti noi onesti cittadini che paghiamo le tasse”. Questo e’ vero, ma solo in parte. Una grande porzione dei fondi pubblici viene infatti generata dalle tasse sul profitto dei grandi gruppi economici. Questi stessi gruppi danno un lavoro alla maggior parte dei clienti finali della politica, gli elettori, che sono anche coloro che pagano le tasse. E magari questi stessi gruppi sono anche diposti a trasferire qualche soldo personale ai politici, “under the table”, sotto forma di tangente, regalo o consulenza.

Insomma, perche’ pensare che la politica si possa inimicare l’economia, se il successo degli stessi politici ne dipende cosi’ direttamente? Perche’ pensare che la politica non si debba preoccupare degli interessi particolari e costituiti prima ancora che dell’interesse della piu’ larga collettivita’? Da questo punto di vista, la politica e’ ostaggio dell’economia.
Una mia recente conversazione con un dipendente del Ministero dell’Agricoltura, a Washington, ci ha presto portato a una considerazione ineludibile: “Obama nel parlare di cambiamento ha sottovalutato la natura ultima della politica di Washington: comandano le lobby storiche, il cui principale obiettivo e’ mantenere lo status quo”. Chi paga, comanda.
Ed e’ cosi’ che, con tutte le complicazioni del caso: Berlusconi e’ ancora al potere in Italia dopo piu’ di 15 anni; il protocollo di Kyoto contenente limitazioni alle emissioni industriali non e’ mai stato ratificato dall’amministrazione Bush; Obama ha nominato un ex-Wall Street (Tim Geithner) segretario all'economia, procedendo successivamente al salvataggio di Wall-Street attraverso fondi pubblici.

Se non esiste un incentivo condiviso verso il cambiamento, sembrerebbe che nel sistema attuale nulla si possa veramente cambiare. Quanto alle alternative, non credo che la risposta risieda in un sistema totalmente centralizzato, in cui l’economia viene controllata dalla politica: si verrebbero a creare altri tipi di distorsioni, come dimostrato dalla storia dei paesi ex-comunisti. Forse l’equilibrio sta in mezzo, nella giusta misura, in quella combinazione cosi’ straordinariamente difficile da trovare e mantenere. E non credo che una soluzione possa arrivare solo dalla politica, ma anche e soprattutto da una rinnovata coscienza e senso civico delle persone.

lunedì 18 maggio 2009

Generazione opportunita'

Ogni volta che ritorno qui a MIT non posso che lasciarmi sorprendere dall’energia e dal dinamismo delle persone che mi circondano. Giovani studenti e ricercatori accorsi a Boston da tutto il mondo per giocarsi una “grande opportunita’” cercano di non farsi scappare nemmeno un minuto del tempo a loro disposizione.

Pensando alla mia generazione e ai miei tempi che hanno visto l’avvento di Internet e dei voli low-cost, ho la sensazione che sia proprio “opportunita’” la parola chiave per capire chi siamo. Opportunita’ di vita, di lavoro, di relazione, di esperienza, di viaggio, di business, di apprendimento, di divertimento…
Cresciuti nella prosperita’ economica e nel liberismo culturale, siamo abituati a pensare alla vita come qualcosa che possiamo sceglierci: possiamo decidere come vestirci, chi frequentare, dove abitare e dove andare in vacanza, cosa studiare e chi diventare. Per molti di noi, tutto e’ possibile, e cosi’ facendo definiamo noi stessi in termini relativi all’opportunita’, senza mezzi termini: questa infatti non lascia alternative (o la cogli o la perdi), e tutti noi siamo circondati da esempi di opportunita’ colte o perdute. Potrei andare a vivere a Londra come mio cugino; potrei lasciare il mio lavoro per fare quell’altro che mi piace di piu’; potrei divorziare come il mio collega, per ricominciare quella mia vecchia relazione ritrovata su Facebook. L’abbondanza di opportunita’ spinge molti a ritardare le scelte piu’ impegnative, come stabilire la propria residenza o l’avere figli, per paura di precludersi qualche opportunita’.

Tutte queste opzioni da una parte ci rendono la vita piu’ varia e soddisfacente, dall’altra moltiplicano scelte e confronti, indecisioni e rimorsi. Ci allargano gli orizzonti e ricaricano di nuova energia, ma ci rendono anche piu’ soli, ognuno a caccia delle proprie opportunita’. Ci fanno sognare e ci danno speranza, ma spesso ci fanno sfuggire il presente dalle mani, concentrati come siamo su come le cose potrebbero essere. Per molti, crearsi nuove opportunita’ e’ una necessita’ piu’ che una scelta, dal momento che l’attuale mondo del lavoro richiede una flessibilita’ di cui farebbero volentieri a meno.

Resta inoltre da capire per che cosa queste opportunita’ vengono sfruttate. Per fare che cosa. Cresciuti in un mondo in cui nulla e’ veramente necessario e tutto ci e’ dovuto (non dobbiamo lavorare i campi per procurarci da mangiare, ma piuttosto ci facciamo servire al ristorante), siamo abituati a pensare all’opportunita’ di fare qualcosa che piace a noi, piuttosto che qualcosa di utile per far fronte a un bisogno. Quello che spesso mi colpisce in America, nel competitivo ambiente accademico che frequento, e’ notare quanto opportunita’, passioni personali e autocentratura vadano di pari passo. Ho l’impressione che la scienza e le applicazioni ad essa collegate crescano molto intorno alle fissazioni dei singoli, che solo a volte coincidono con quello di cui la societa’ avrebbe piu' urgentemente bisogno. Tale autocentratura ci puo' rendere meno capaci di ascoltare gli altri, ma piuttosto a desiderare sempre di piu’ per noi. La recente crisi finanziaria ha dimostrato come la rincorsa all’opportunita’ di fare sempre piu’ soldi abbia progressivamente allontanato tanti banchieri da buon senso e bene comune.

In sintesi, mi sembra che un mondo pieno di opportunita’ sia anche un mondo piu’ impegnativo. Per questo motivo credo che si debba guardare alla nostra generazione con grande compassione, piuttosto che con attitudine di giudizio come una generazione di “debosciati” (perche’ non si sono confrontati con la “dura realta’”, come i nostri padri nel caso dell’Italia) o come una generazione di “opportunisti”. A dispetto dell’apparenza, probabilmente l'esistenza di questa generazione non e’ piu’ semplice di quelle precedenti. Dobbiamo costantemente gestire l’attrazione di ogni sorta di stimoli e distrazioni che mettono a dura prova la nostra volonta’. Inoltre, la mentalita’ moderna e positivistica ci fanno pensare che il destino stia tutto nelle nostre mani, che dipenda solo da noi. Questo ci riempie di responsabilita’, lasciandoci come unici imputati nel caso le cose non vadano come potrebbero andare considerate le mille opportunita’.

Forse l’opportunita’ piu’ grande che abbiamo e’ ricordarci che la vita e’ straordinariamente piu’ grande di noi e il nostro percorso e’ appeso a mille istanti e casualita’. Se ci concediamo che comunque vada avremo fatto del nostro meglio, forse apprezzeremo di piu’ questa nostra condizione. C’est la vie: la storia ci ha consegnato alla generazione delle opportunita’ e noi giustamente le rincorriamo. Se non lo facciamo, il mondo resta straordinario lo stesso.
Nella speranza di riuscire a fare tesoro dei nostri errori, e consegnarne gli insegnamenti alle future generazioni.

lunedì 4 maggio 2009

Mercato comune, regole diverse?

L'altra mattina ho preso parte a un’interessante tavola rotonda su come promuovere sostenibilita’ ambientale e equita’ sociale, ripensando al ruolo del mondo della produzione come motore dell’innovazione. Argomento di grande attualita’, visto che Obama ha pianificato grandi investimenti per lo sviluppo dei nuovi settori energetici, verso maggiore efficienza e sfruttamento di fonti rinnovabili.

Intorno al tavolo siedevano rappresentanti di diversi settori: accademia; societa’ di consulenza per il design di prodotto; venture capitalist (agenzie che partecipano al finanziamento di nuove aziende tecnologiche); agenzie di produzione e lavorazione del cemento; consulenti indipendenti. Un tavolo tecnico da cui sono emersi molteplici spunti su come indurre i settori produttivi a innovare per migliorare il loro impatto sull’ambiente, minimizzando i costi che cio' comporta e trasformando la sostenibilita’ in vantaggio competitivo e d’immagine. Produrre cemento utilizzando meno sabbia consente di ridurre i costi ed essere piu’ competitivi; produrre automobili a motore ibrido consente di riposizionarsi come azienda sensibile ai problemi ambientali.

Noto che ognuno presenta una soluzione coerente seguendo il proprio ragionamento, ma nessuno pone la questione su un piano piu’ sistemico, nonche’ normativo. Ovvero: tutti propongono nuove tattiche per vincere la partita, ma nessuno si chiede se sia anche necessario ripensare alle regole del gioco. Credo infatti che - nonostante cresca la motivazione e la capacita' delle aziende ad innovare - allo stesso tempo la globalizzazione le spinga completamente controcorrente: esse infatti sono libere di spostarsi laddove le condizioni per produrre sono piu' vantaggiose.
Le richieste di sostenibilita’ e equita’ sociale possono infatti essere parzialmente eluse trasferendo stabilimenti e filiere produttive in questi paesi in cui:

- si e’ piu’ liberi di inquinare;
- il personale costa meno;
- le risorse prime costano meno;
- si pagano meno tasse.

Da questo punto di vista, i governi dei paesi in via di sviluppo (e non solo) potrebbero considerarsi ostaggio dei grandi gruppi multinazionali: in assenza di idee su come promuovere le loro economie locali, sono alla mercè di chi porta lavoro. Invece che un gioco al rialzo assistiamo a una corsa al ribasso, dal momento gli stessi governi sono facilmente ricattabili: tu Messico non ci offri condizioni vantaggiose? Allora andiamo a produrre i nostri componenti per computer in Thailandia. Lo stesso accade ai fornitori: tu fornitore non ci offri pomodori a basso prezzo per le nostre passate in scatola? Allora li andiamo a chiedere al tuo competitore in un altro paese. Tu stilista milanese non ci offri design a basso prezzo per produrre i nostri vestiti? Allora andiamo a chiedere lo stesso servizio alla Camorra.

Credo sia limitativo riporre tutta la colpa di tale problema nelle multinazionali: esse infatti si comportano da attori economici "razionali", rincorrendo minimizzazione dei costi e massimizzazione dei profitti. Se sostenibilita’ ed equita' rientrano in questo schema, bene, altrimenti non avendo senso economico non hanno senso di esistere. Al contrario, un economista sosterebbe che tale pressione verso governi e fornitori a offrire la propria merce a un prezzo piu' basso, da una parte li incentiva a innovare (come?), dall'altra fa si' che i prezzi possano essere piu' bassi per i consumatori (ma su cosa si e' risparmiato?).

Teorie economiche a parte, un problema fondamentale, a mio avviso, esiste ancora piu’ a monte: allorquando non ci saranno delle regole globali, per cui per produrre e vendere in qualsiasi paese si devono rispettare un certo numero di standard, si andra’ sempre a caccia del miglior offerente. Potrebbe considerarsi un difetto di gioventu’ dell’economia globale: il gioco e' lo stesso, ma le regole sono diverse. In tale panorama, i grandi assenti credo siano quindi politici e legislatori, coloro che fanno le regole, e di fatto non c’era nessun politico al seminario a cui ho partecipato.

Finche’ le normative sono nazionali, perche’ aspettarsi che non si continui a giocare al ribasso per attrarre a se’ i datori di lavoro?
Se l’economia e’ globale, anche la politica dovrebbe esserlo. Altrimenti, in assenza di regole, comanda il piu’ forte?

domenica 26 aprile 2009

Angels of Harlem

Domenica di Pasqua 2009.
Siamo a New York e decidiamo di accogliere l’invito di due amici: vediamoci alle 10.30 alla Convent Baptist church, 145esima e Convent, Harlem.
Siamo puntuali, la messa inizia le 11 ma la chiesa e’ gia’ gremita. Siamo bianchi e veniamo indirizzati verso l’alto, tribuna di destra, dove troviamo posto accanto a un gruppo di giovani, probabilmente europei, in maglietta e scarpe da ginnastica.

La posizione e’ privilegiata: le navate centrale e di sinistra, cosi’ come il grande altare con un semicerchio di posti rialzati, sono perfettamente visibili. Assistiamo all’arrivo degli ospiti: famiglie allargate di colore, vestite a festa, si fanno accompagnare al loro posto dalle damigelle, anch’esse di colore e di una certa eta’, vestite completamente di bianco, guanti e cappelli compresi. Il panorama e’ una festa di colori: gli abiti delle donne risplendono di arancio, azzurro, verde e rosso; cappelli e turbanti meritano uno sguardo attento, uno a uno, da quanto sono belli e originali; uomini e bambini in doppiopetto siedono gli uni accanto agli altri, indirizzando sguardi orgogliosi e modesti allo stesso tempo. Magari devono ancora saldare il debito per le migliaia e migliaia di dollari che indossano, ma l’importante e’ che oggi siano all’altezza dell’evento. Ci fanno sfigurare, a noi bianchi, ora ci appare fin troppo chiaro il perche’ ci abbiano spedito su.

Comincia la celebrazione.
Non fanno in tempo a essere impostati i primi canti, che gia’ qualcuno, di spontanea iniziativa, si alza in piedi, scuote il pugno e grida “Jesus is great!”. Qualcunaltro gli risponde “yea, Jesus is great!” e finanche l’intera delegazioni di celebranti (il “Father” e i suoi consiglieri), schierata ordinatamente sul palco, riprende lo spunto per dettagliare il perche’ abbiano ragione. Presto cogliamo l’essenza della messa gospel: una festa comunitaria, un rito catartico per dar sfogo alla propria fede e sentirsi una sola famiglia. Quando fanno il loro ingresso trionfale le danzatrici, quando il coro di bambini intona il primo canto, e’ il tripudio: donne il lacrime, vecchietti con le mani al cielo, gente in cammino per la chiesa in cerca degli abbracci di amici e parenti. Mentre i piu’ piccoli continuano a dormire, a pancia in su sulle panche come se fossero nel divano di casa, ma con il nodo della cravatta accuratamente intatto.
Il piu’ progressista dei nostri preti non riuscirebbe neanche a immaginarsi la festa a cui stiamo assistendo. Altro che rituale scontato e formale, qui la fede e’ vissuta come massima emozione e viene esternalizzata in tutti i modi possibili!

Improvvisamente, dopo quasi un’ora di "creazione", prende il microfono il Father. E’ arrivato il momento della concentrazione. Il tono e’ inflessibile, le parole scandite, il volume altissimo. Ogni concetto viene scattato con la piu’ assoluta precisione, come una fotografia capace di immobilizzare un soggetto sfuggente. La folla incoraggia, approva, incita e, soprattutto, ascolta. Attenta, attentissima, col cuore prima ancora che con la testa. E’ li’ per crederci, per commiserarsi e sperare, per sentirsi uguale agli altri.
Il tema del sermone e’ unico: fatti contro fede. I fatti ci vogliono tutti pieni di debiti, la fede vuole che la vita vada avanti intatta lo stesso, perche’ Dio e’ sempre li’ con noi. I fatti vogliono che la droga continui a farsi largo tra i giovani, la fede vuole che Dio continui ad accoglierli tra le sue braccia. I fatti, massima espressione della visione razionalistica e moderna della vita, non ci costringono a smettere di credere.

Il marketing e la scienza vogliono farci pensare che non ci serva piu’ il divino, argomenta il prete. Ora cerca la provocazione, carica di aggressivita’ i toni, costruisce una retorica dello scontro. Il suo ruolo e’ affrontare a viso aperto la delegittimazione, prevenire il dubbio che attende dietro l’angolo ogni fedele all’uscita della chiesa. E’ dio contro scienza. Emozionalita’ contro razionalita’. Compassione contro egoismo. L’America di oggi sembra intrappolata in questa logica binaria, del bene e del male, del sei con me o sei contro di me, dei dualismi alla Bush che Obama cerca cosi’ accuratamente di far dimenticare.

Indipendentemente dalle opinioni che ognuno di noi puo’ avere, usciamo dalla chiesa consapevoli di avere vissuto un’esperienza unica e travolgente. Coerente e contraddittoria, sincera e costruita. I toni fanatici della predica non sono sufficienti a farci riconsiderare la straordinaria umanita' della celebrazione. Per il mondo dei bianchi, controllati e calcolatori per attitudine e cultura, sembra una lezione di vita.